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Parigi, o cara. Riscoprire una città senza tempo

Saverio Raimondo

È autenticamente i suoi cliché, baguette sottobraccio e ragazze bellissime. Un week end per riassaporare e rivedere una metropoli che incontrai tanto tempo fa

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"Avremo sempre Parigi", diceva Humphrey Bogart a Ingrid Bergman in Casabalanca, dandole l’addio nel più leggendario finale cinematografico di sempre. (Che classe: vuoi mettere con “Non sei tu sono io”, “Ti vedo più come un’amica”, “Sei stata la donna più importante della mia vita”, ma soprattutto con l’orrendo “Sarai sempre la madre dei miei figli”?). Contesto: il mondo stava venendo distrutto nella Seconda guerra mondiale, c’è chi scappava (giustamente) e chi resisteva (coraggiosamente), e sulla pista di un aeroporto nel Marocco francese Rick/Bogart imbarca per gli Stati Uniti la sua amata Ilsa/Bergman, ormai sposa di un altro uomo per giunta ebreo in fuga, ricordandole i bei tempi andati nella Parigi pre-occupazione nazista, quando il rumore dei cannoni si poteva confondere con quello del cuore che batteva (cit.). Dunque guerra, nazisti, genocidio e cuori infranti; ma su tutto questo, una promessa: avremo sempre Parigi.
 

Ora che il mondo sta nuovamente finendo (non smette mai di farlo…), i venti di guerra soffiano impetuosi come il più implacabile scirocco, il clima si surriscalda sia letteralmente che metaforicamente, e io ho compiuto 40 anni quindi a spanne ho vissuto metà della mia vita il che significa che sono mezzo morto, ora, adesso, nel 2024, avremo ancora e sempre Parigi? Nonostante Putin, i ghiacciai che si sciolgono, Hamas e Netanyahu, il ritorno di Trump e dell’Isis, il rimbecillimento da smartphone, l’ottuso perbenismo social, l’attivismo isterico, i soldi spesi male da Elon Musk e i miei capelli grigi? Non tornavo nella capitale francese dal 2016; e anche allora fu solo per pochi giorni, giusto il tempo di sedermi al Crazy Horse per ammirare Dita Von Teese spogliarsi – ero andato lì apposta: “Parigi val bene una messa”, figuriamoci uno strip-tease. Ma Parigi è la città dei miei vent’anni: non ho fatto l’Erasmus ma lo fece la mia fidanzata dell’epoca, e io al seguito per tutti quei mesi, quasi un anno. Lei studiava tutto il giorno, e io me ne andavo in giro per la città a caccia di libri, musica, film, scorci iconici, café e bistrot; insomma, facevo il flâneur nella capitale della flânerie, in altre parole uno sciocco ambulante a caccia di stereotipi, uno che ha letto troppi libri e visto troppi film, una spugna imbevuta di luoghi comuni, un imbecille. Ma è così che sono diventato grande: un grande imbecille, ma comunque non più un ragazzino. Da allora sono passati altri vent’anni: d’amore, di cuori spezzati, di soldi spesi e guadagnati (non per forza in quest’ordine), vent’anni di vita insomma. Non solo mia: c’è stata una pandemia, l’avvento del populismo, la nostra perdita di controllo sulla tecnologia, l’inizio della Terza guerra mondiale. E Parigi? Fra una Notre Dame in fiamme e le proteste dei gilet gialli, è sempre lì? La promessa di Bogart è ancora valida? Del resto, per quanto il personaggio di Rick potesse essere in buona fede, quello era pur sempre un film e per giunta di un secolo fa, le cose nel frattempo possono essere cambiate…  “Fammi andare a controllare!”, mi sono detto. 
 

Erano almeno due anni che rimandavo il mio ritorno a Parigi: un po’ per le mie finanze cagionevoli, un po’ per la mancanza di ferie di noi partite iva croniche, un po’ per la mia paura di volare. (Speravo tanto nell’alta velocità che mi avrebbe portato da Milano a Parigi su rotaia; ma mesi fa una frana in Svizzera ha reso il viaggio in treno nuovamente luuunghiiiisssssiiiiimoooo e ho letto che lo sarà almeno fino alla fine di quest’anno, evidentemente chi deve rimuovere la frana sono degli scrutatori sardi). Messo alle strette dagli ultimi giorni della mostra su Mark Rothko alla Fondazione Luis Vuitton e complice la Pasqua, ho ricavato una settimana di libertà da impegni e fatturazioni varie; e spinto dal massimo del coraggio di cui siamo capaci noi piccolo borghesi prede delle nostre ansie quando siamo motivati dai nostri ben più forti capricci, ho fatto i biglietti aerei per Parigi con Air France: se proprio devo volare, che sia con una compagnia di bandiera. Non voglio una morte low cost, che i miei soldi precipitino con me. 
 

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E invece atterro. E Parigi mi accoglie facendomi subito sentire a casa: ho lasciato una Roma che è tutta un cantiere in vista del Giubileo del prossimo anno, e arrivo in una Parigi che è tutta un cantiere in vista delle Olimpiadi di quest’estate. Place della Concorde come Piazza Venezia. A un certo punto a un semaforo assisto persino a un litigio automobilistico che pare di stare sul Lungotevere – ma in francese. La viabilità parigina è un tema d’attualità: nell’ultimo anno la città è stata consultata tramite lo strumento del referendum almeno un paio di volte, per decidere in merito ai monopattini e ai suv. Ai primi è stata vietata la circolazione; ai secondi triplicata la tariffa per la sosta. Risultato: in giro per Parigi non si vedono né suv né monopattini, e il colpo d’occhio che ne consegue è quello di un paese civile. Una signora alla fermata dell’autobus (alla quale chiedo un’informazione, e lei ne approfitta per attaccare bottone) mi esprime tutta la sua gioia per la scomparsa dei monopattini: a suo dire prima in strada si era facilmente investiti e buttati per terra, “che finché si è giovani non è un problema, ti rialzi in piedi; ma dopo una certa età ti rompi tutta”. Arriva il mio autobus e saluto la signora, altrimenti avrei ribattuto che se davvero hanno a cuore il fatto di non essere investiti per strada potrebbero prendere in considerazione un altro referendum (visto che ci hanno preso gusto): quello per l’introduzione dell’arancione nei semafori. Sì perché a Parigi (non me lo ricordavo) il semaforo passa da verde a rosso senza soluzioni intermedie, né un avviso acustico che a un certo punto ti dica di accelerare il passo se vuoi metterti in salvo dall’altra parte della strada. Con il risultato che tu pedone ti ritrovi in mezzo a un grand boulevard, improvvisamente dalla parte del torto, con le auto e il codice della strada tutti contro di te.
 

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Ma al netto di questi dettagli circolatori, Parigi resta una città da camminare, al massimo salendo e scendendo ogni tanto da una stazione del metrò. Complice un tempo cangiante tipicamente primaverile, che passava dalla pioggia (continentale) al sole più mite, ho attraversato la città in lungo e in largo beandomi a ogni scorcio, sia che i colori fossero saturi per il cielo grigio sia che scintillassero per la luce di taglio. Soprattutto, Parigi resta una magnifica città dove fare people watching (una delle mie attività preferite, non amo parlare con la gente ma mi piace guardarla): ti siedi al tavolino di un bar, di quelli all’esterno, su strada, e sorseggiando la tua ordinazione guardi la gente che passa. Impossibile annoiarsi; e difficile non sorridere. L’impressione è che il comune di Parigi abbia fatto un casting, e che la gente che gira per la città sia stata scelta – e vestita – apposta per rispondere alle fantasie parigine dell’immaginario collettivo. Ecco lì la ragazza bionda, seduta da sola al tavolino di un caffè, che scrive a penna su un quadernino per diversi minuti, prima di ritoccarsi il rossetto e andarsene. Ecco lì l’ultimo dei bohémien, un uomo maturo ma soprattutto ubriaco, dalla vaga aria indocinese, che si scola da solo un’intera bottiglia di vino (sicuramente non la prima della giornata ma spero l’ultima), e che quando si alza (spesso) per andare in bagno barcolla vistosamente, con la patta aperta e il viso inespressivo, e i camerieri attorno che lo tollerano e lo gestiscono con urbanità.
 

Ecco la coppia di giovani innamorati, lingua nella lingua; ecco la coppia di amanti in una strada appartata, che quando tu giri l’angolo e non sono più soli si scostano come se non si conoscessero, pur avendo ancora il reciproco dna sulle labbra; ecco le ragazze in camicetta e con il mollettone fra i capelli, tutte bellissime; ecco i giovani con un libro che sbuca dalla tasca della giacca. Il miglior punto d’osservazione, “l’osservatorio astronomico” di parigini per eccellenza, scopro essere un tavolo fuori da Le Syndicat, ottimo cocktail bar (merito della barlady Anna Moroka, ucraina dai capelli rosa e le mani d’oro in merito a spiriti e miscelazione), dal quale è possibile letteralmente ammirare lo struscio di Rue du Faubourg Saint-Denis, strada multietnica e multigender, trasversale sia dal punto di vista sociale che anagrafico, con mille stili di vestiario e mille colori della pelle (qui il generale Vannacci perderebbe apposta l’equilibrio un sacco di volte per toccare le mani a un sacco di gente). Resto seduto lì per circa due ore, il tempo di un paio di drink (vabbè, diciamo tre) intanto che il sole finisce di tramontare; e nel frattempo mi passa davanti l’umanità più varia che abbia mai visto concentrata in un’unica strada.
 

Pare la passerella finale di 8 e ½ se Mastroianni fosse stato un cosmopolita, una sorta di red carpet etno-socio-antropologico; come un’Apocalisse ma senza drammi, con l’umanità che sfila tranquilla – solo un po’ frenetica – verso il giudizio universale, chi con la musica in cuffia, chi al telefono, chi con una birra in mano, chi con un bambino sulle spalle, chi appena uscito dal lavoro, chi di ritorno a casa con un po’ di spesa per la cena, chi correndo con uno zaino rubato. Potresti non girare per Parigi, sederti semplicemente qui a bere e ci pensa Parigi a girarti attorno. Soprattutto, ancora e sempre, ecco la gente con la baguette sotto braccio, “da passeggio”; minimo una, alle volte due, talvolta persino tre. Nel 2024 c’è gente a Parigi che va ancora in giro con sottobraccio una baguette, come da stereotipo; e quando poi al ristorante mi sono trovato a imburrarne qualcuna, o a mangiarne su qualche panchina avec jambon et fromage, ho potuto constatarne il profumo e la croccantezza così come me lo ricordavo, e mi sono chiesto se il segreto di questo iconico carboidrato non sia proprio questo passaggio “in braccio” che le baguette fanno per le strade di Parigi, come fosse una barricatura ascellare. Ma per la capitale francese più delle baguette ci sono i mazzi di fiori: in giro per Parigi è pieno di gente – uomini e donne, giovani e vecchi – con mazzi di fiori freschi in mano o nel cestino della bicicletta. In altre parole, pane e tulipani – che era il titolo di un film italiano ambientato a Venezia ma aveva quel tocco da commedia francese, ça va sans dire.
 

E poi ci sono io, stereotipo fra gli stereotipi: l’amante di Parigi, quello che viene qui per andare alla mitica libreria Shakespeare and Company (e ci becco una presentazione di Ottessa Moshfegh, una delle migliori scrittrici contemporanee, très chic), per comprare dischi in vinile di musica jazz in un negozio che apre solo il venerdì e il sabato dalle 13.00 alle 20.00, per ordinare café crème e bere champagne (e farmi venire così l’acidità di stomaco), per sedermi a tavola in qualche bistrot a otturarmi le arterie in maniera creativa (cit. Abbott Joseph Liebling, di cui consiglio il gustosissimo memoir gastro-parigino Tra i pasti). Possibile che questa Parigi da cartolina sia una recita collettiva a vantaggio di noi miserabili turisti? Più di due milioni di persone controllate, dirette e coreografate dalla pro loco? O forse Parigi è autenticamente il suo cliché, che non a caso è una parola francese. Diceva Sacha Guitry che per essere parigini non bisogna esserci nati, basta esserci rinati. Voilà. Dite a Elon Musk, invece che su Marte, di portarci tutti almeno una volta l’anno a Parigi.
Dunque sì: avremo sempre Parigi. Tocca vedere se ci saremo ancora noi, l’umanità, a struscio su Rue du Faubourg Saint-Denis

 

P.S. Poi sì, sono stato anche alla mostra su Rothko. Proprio l’ultimo giorno, così ne ho approfittato per portarmi via un paio di tele, tanto non gli servivano più, anzi ho pensato di fargli un favore. E invece a quanto pare mi sbagliavo, visto che vi scrivo questo pezzo dalla mia cella nel carcere de La Santé.

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