Agnelli e il Kgb. Una storia di spie nel libro molto ben informato di Catherine Belton

Michele Masneri

Il marito di Margherita sarebbe un agente vicino a Putin, secondo l'ex corrispondente da Mosca del Financial Times. La saga ereditaria dell'Avvocato, a vent’anni dalla sua scomparsa, si arricchisce di un nuovo capitolo

La saga ereditaria di Gianni Agnelli, a vent’anni dalla sua scomparsa che cade il 24 gennaio, si arricchisce di un nuovo capitolo, che porta addirittura al Cremlino. Il marito di Margherita Agnelli, il nobile russo Serge de Pahlen sposato in seconde nozze, sarebbe infatti  un grande sostenitore di Putin, e pure spia. Lo sostiene Catherine Belton, ex corrispondente da Mosca del Financial Times, nel suo libro “Gli uomini di Putin” tradotto in Italia dalla Nave di Teseo nel 2020, e insignito di una serie di premi e molto contestato dagli oligarchi russi.  

  

Margherita conosce de Pahlen (sopra, in foto accanto a Marella Agnelli, per il matrimonio di John Elkann nel 2004) a Londra e lo sposa nel 1981, dopo la separazione da Alain Elkann, e con lui fa altri cinque figli (Pietro, Sofia, Maria, Anna e Tatiana). Nel suo libro, Belton lo descrive così: “Un uomo alto e curvo, con le sopracciglia spesse e severe e la fronte ampia, è uno degli amici più cari di Putin. Viene da una delle famiglie più nobili della Russia”. Vicino a Jean Goutchkoff, banchiere e aristocratico anche lui, e parte di quel grande gruppo di  émigrés le cui famiglie scapparono a Parigi durante la rivoluzione bolscevica, e che tuttora rimpiangono l’impero. Ma c’era qualcuno che non si limitava a rimpiangere, e nel frattempo faceva la spia per Mosca. “De Pahlen, insieme con Aleksandr Trubeckoj, figlio di un principe russo, era entrato a far parte di una rete gestita da Igor’ Šegolev, futuro ministro delle comunicazioni di Putin, che all’epoca lavorava sotto copertura per il Kgb come corrispondente a Parigi dell’agenzia di stampa statale sovietica Tass”, si legge sempre nel libro.

 

“In un periodo in cui il contrabbando di tecnologia sottoposta a embargo era all’apice, Trubeckoj lavorava alla Thomson, una società di semiconduttori e microelettronica da tempo infiltrata dagli agenti sovietici. De Pahlen, nel frattempo, faceva la spola tra Parigi e Mosca per una società francese che forniva attrezzature alle raffinerie petrolifere sovietiche, parte della rete di aziende amiche che sembravano contribuire a finanziare le operazioni di propaganda sovietiche. Nel 1981 stabilì un contatto preziosissimo quando sposò Margherita Agnelli, e fu subito nominato vicepresidente della Fiat per le relazioni internazionali. Grazie alla sua posizione continuò a recarsi spesso a Mosca, frequentando i pezzi grossi del Partito e i banchieri stranieri che sostenevano il regime sovietico. Nel frattempo, Goutchkoff lavorava a Mosca, supervisionando un gruppo di banche francesi che fornivano finanziamenti all’industria petrolifera sovietica. I due uomini facevano parte di una rete di operativi che assistevano il regime sovietico”. E che avrebbero visto poi con piacere l’avvento di Putin.

 

“De Pahlen – scrive Belton - conobbe Vladimir Putin nel novembre 1991, quando Putin era vicesindaco di San Pietroburgo, e de Pahlen contribuì a organizzare il ritorno in Russia dell’ultimo erede degli zar, il Granduca Vladimir. Conosceva già il sindaco di San Pietroburgo Anatolij Sobchak attraverso la comunità dei russi bianchi di Parigi, e con Putin nacque immediatamente un’intesa. De Pahlen ‘scelse’ Putin, come ha dichiarato un altro membro di questo gruppo di mentalità imperiale, Konstantin Malofeev, altro personaggio centrale in questa vicenda di cui si dirà in seguito. Disse: ‘È uno che la pensa come noi, cioè pensa alla Russia come una grande potenza. Entrambi erano scioccati dal collasso del paese e dal caos che si stava scatenando dopo il fallito colpo di stato di agosto. Si tennero in contatto: ogni volta che Putin andava a Parigi faceva visita a de Pahlen, e anche Sobchak e la sua famiglia rimasero suoi amici.”  “Quando Putin divenne presidente”,  scrive ancora Belton, “de Pahlen gli diede immediatamente il suo sostegno. Alla vigilia del suo primo incontro con il suo omologo francese Jacques Chirac, Putin si rivolse a de Pahlen per un consiglio. Cenarono insieme in una sala riservata di un ristorante parigino, dove de Pahlen gli disse che avrebbe dovuto governare trent’anni, come Caterina la Grande. Era l’unico modo per ristabilire l’ordine, gli disse. Era l’unico modo per far risorgere la Russia come potenza globale”.

 

Chissà cosa direbbe l’Avvocato Agnelli, alfiere dell’atlantismo italiano, riguardo anche ai sentimenti del genero verso gli Stati Uniti. “Per de Pahlen, quando ci siamo incontrati nel suo ufficio di Ginevra, con le pareti piene di libri”,  scrive Belton, “Putin ha dato inizio alla fioritura di una nuova Russia. È molto importante per l’America, che non si augura l’evoluzione di un mondo multipolare. Non vuole una Russia forte”.  La Russia doveva tornare grande, costi quel che costi. “Goutchkoff e de Pahlen non sembravano preoccuparsi particolarmente del fatto che i putiniani del Kgb utilizzassero a loro volta metodi barbari, calpestando la legge mentre rivendicavano il controllo dell’economia. Si dicevano che la sovversione del sistema legale operata dal Cremlino faceva parte della missione storica”. De Pahlen diventa un ottimo ambasciatore di Putin anche da noi: secondo Gigi Moncalvo,  fu centrale per la prima visita di Putin presidente in Italia, compresa una serie di incontri in Confindustria. “In prima fila Gianni e Umberto Agnelli, Giuseppe Morchio, Gabriele Galateri di Genola. Voi della Fiat avete un uomo eccellente in Russia, disse pubblicamente Putin. Umberto, alla fine, andò a stringere la mano a de Pahlen: Ha fatto un ottimo lavoro. Gliene siamo grati”.  Certo erano altri tempi, e la vicinanza a Putin poteva non essere imbarazzante come oggi. Il conte de Pahlen, peraltro, scrive sempre Belton, è amico pure di uno degli uomini emergenti dell’era putiniana, che lo ricollega ai movimenti sovranisti amati anche da quelli di casa nostra, Konstantin Malofeev.

 

Capo di un impero mediatico e finanziario costruito partendo dalle telecomunicazioni,  punto di riferimento fondamentale dell’estrema destra russa, noto in Italia per essere presidente onorario dell’ Associazione Culturale Lombardia Russia, vicina alla Lega, Malofeev conosce de Pahlen nel 1991, quando ha solo 17 anni.  “E’ una persona unica. Tutta la storia russa passa da lui”, dice quello di de Pahlen. A 31 anni, nel 2005, Malofeev fonda il Marshall Capital, un fondo di investimento  cresciuto fino a 1 miliardo di dollari, e in cda siede sempre lui, de Pahlen. Malofeev ha creato anche "un ente di beneficenza russo-ortodosso, la Fondazione di San Basilio Magno, ufficialmente per sostenere la diffusione dei valori ortodossi e degli ideali conservatori in Ucraina, in Europa e poi negli Stati Uniti. Ha trovato un sostegno di alto livello nella cerchia ristretta dei putiniani del Kgb”, scrive sempre Belton.
 

Che ambientino. E certo viene da pensare ai poveri John, Ginevra e Lapo bambini tra una dacia e un’icona sacra, tra zaristi e oligarchi, sballottati tra il Brasile e l’Italia e la Russia, sottoposti a questa “educazione siberiana”. Il progetto della madre Margherita era inizialmente quello di mettere il marito de Pahlen a capo del gruppo dopo la morte dell’Avvocato. Ma appena Margherita ha venduto le sue quote, col famoso accordo del 2004, il figlio John Elkann non ha esitato a “licenziare” invece il “patrigno”, raccontano fonti ben informate al Foglio. Forse da lì deriva anche l’astio margheritesco. Ma certo, alla luce dei trascorsi russi di de Pahlen, se fossero confermati, anche tutta la vicenda della “estromissione” di Margherita dalla galassia Fiat, galassia che comprende anche asset americani, assume un altro significato anche geopolitico (nella saga Agnelli ci mancava il romanzo russo, vabbè). 
 
  
 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).