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IL GIOCO DELL’IO NON IO

Derek DelGaudio, un po’ mago un po’ artista

Vittorio Bongiorno

“In & Of Itself” racconta, con un sapiente lavoro di montaggio, lo show portato in scena Off Broadway per 552 volte di seguito. Uno spettacolo che scuote l’identità dei partecipanti, i loro segreti e i loro desideri 

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“Per favore, prendetevi questo momento per spegnere i vostri telefoni e mettere a tacere qualsiasi distrazione”. Recita così il cartello che mette in guardia gli spettatori all’inizio di “In & Of Itself” (letteralmente “Tra sé e sé”), il film documentario che vede in scena il mago americano Derek DelGaudio che, dopo una lunga attesa, è arrivato anche in Italia su Disney+. Il trentottenne performer è diretto per l’occasione dal regista e “burattinaio” Frank Oz, settantotto anni, che qualcuno ricorderà come l’anima dei mitici pupazzi Muppets, la voce di Yoda in “Star Wars” e la regia de “La piccola bottega degli orrori”. Durante lo spettacolo il giovane mago coinvolgerà più volte qualcuno dal pubblico, chiamandolo sul palco per farlo scivolare dal mondo ordinario a quello extra-ordinario che lui sta costruendo con gesti misurati e pazienza certosina. In molti, nel piccolo teatro, alla fine dello spettacolo piangono singhiozzando. In tanti fanno lo stesso di fronte alla tv, (o come il sottoscritto aggrappato a un torrent che ha viaggiato in rete per mesi), rendendosi conto di aver partecipato a qualcosa di unico, a un evento difficilmente catalogabile ed etichettabile. 

  
Il film, dunque: definito dalla critica “qualcosa di incredibilmente indescrivibile”, “In & Of Itself” racconta, con un sapiente lavoro di montaggio, lo spettacolo omonimo che DelGaudio ha portato in scena nel piccolo teatro Off-Broadway Daryl Roth Theatre di New York per 552 volte di seguito davanti a un centinaio di spettatori ogni sera. Non è esattamente di magia, intesa come intrattenimento e stupore fine a sé stesso, ciò di cui si occupa questa volta DelGaudio. E’ più un’esperienza che ha luogo nella mente, come scrive il decano dei maghi Eugene Burger ne “L’esperienza della magia” (Florence Art Edizioni, 2007), una sorta di bibbia per specialisti. Il sottotitolo del film “In & Of Itself”, infatti, recita “Identity is an illusion”, e il racconto messo in scena da questo giovanotto americano è proprio sull’illusione dell’identità: io non so chi sono io. C’è qualcosa di ancestrale nello stupore di fronte a un trucco di magia.

 

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Tendiamo a pensarla non come una illusione ma una sorta di miracolo, di superpotere che solo l’uomo al centro del palcoscenico possiede. Questo miracolo ci riporta indietro alla memoria biologica del nostro passato, alle storie mirabolanti ascoltate attorno al fuoco dalla voce del vecchio del villaggio che, si dice, conosce pozioni magiche e poteri arcani. “Il mistero ci unisce. O, meglio, il mistero ci ricorda che siamo connessi”, mi racconta sibillino DelGaudio dopo averlo inseguito per mesi in rete, “è la conoscenza che ci divide. Io so questo e tu sai quello, e questo è diverso da quello. Dunque tu e io siamo diversi. Sperimentare un evento che esiste al di là della conoscenza ci umilia. Il mistero azzera le cazzate e ci permette di vedere la verità: siamo un gruppo di scimmie su una roccia che vola attraverso l’infinito. Non sappiamo niente e tutto ciò che abbiamo è l’un l’altro”. DelGaudio, semplicemente, colpisce al cuore e mi lascia senza parole. In tanti, dopo la prima dello spettacolo e l’uscita del film, hanno provato a dare delle spiegazioni di ciò a cui hanno assistito, ma sono finiti sempre per farsi prendere da un piacevolissimo stordimento.

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“Dopo aver visto lo spettacolo ho concluso che Derek non è un mago, ma nemmeno un artista della performance”, ha dichiarato Marina Abramovic, la celebre artista serba nota per le sue potentissime performance con il pubblico, che si intravede alla fine di “In & Of Itself” in una scena molto tenera con DelGaudio, “è da solo in una categoria che ha creato lui stesso. In qualche modo astratto mi ricorda Marlon Brando. Stabilisce una fiducia tra il pubblico e sé stesso che permette alle emozioni di entrare. Non lo stiamo guardando, siamo insieme a lui”. La faccenda si complica e la posta in gioco si alza immediatamente: all’inizio del film (e di ognuna delle 552 repliche) il pubblico nel foyer si trova davanti a una parete con centinaia di bigliettini di cartone con la scritta “I AM”.

 

Sembra il gioco di dover scegliere la propria identità tra le tante possibili. La suadente voce fuori campo di DelGaudio, sulle immagini di un filmino amatoriale di lui da bambino, entra immediatamente sottopelle allo spettatore: “Ti chiedono: Cosa vuoi fare da grande? Poi ti chiedono: Cosa fai? Che è un altro modo di dire: Cosa sei diventato? Non basta avere un nome. La gente ha bisogno di qualcosa che ti definisca. Guardi i ruoli che il mondo ti offre, cercando di trovare quello che rispecchia chi sei”. Di fronte all’enorme e un po’ amletica parete piena di bigliettini gli spettatori cercano spiazzati il proprio “io”. Uno scrittore. Una ballerina. Un oftalmologo. Una ottimista. Sembrano quasi il popolo in catene nella caverna di Platone. Qualcuno trova subito la propria identità, qualcuno tentenna perché l’identità che voleva gliel’ha appena fregata qualcun altro sotto agli occhi. C’è perfino chi gioca, con la propria identità, e ne sceglie un’altra. Magari quella che avrebbe sempre voluto, o addirittura quella segreta che non può confessare a nessuno. DelGaudio continua ad accompagnare gli spettatori, con il suo tono monocorde: “Solo pochi fortunati possono giocare la parte che vogliono. Gli altri si accontentano di ciò che resta o lottano con ciò che gli è stato consegnato. Poi impariamo tutti ad abbracciare le nostre illusioni di identità. Io l’ho fatto. Pensavo di conoscere il mio ruolo. Poi ho incontrato un uomo che mi ha detto chi ero veramente. E sapevo che aveva ragione. Non sapevo perché”. I cartoncini vengono raccolti da un’assistente che li va a posizionare sul tavolino sul palco spoglio. Poi finalmente compare lui, Derek DelGaudio, in un anonimo abito marrone, un po’ pallido e con lo sguardo malinconico di chi forse si sente nel posto sbagliato ma nel momento giusto: “Siamo qui perché ho sentito una storia”. Capiamo subito di trovarci di fronte a uno spettacolo di magia esistenziale, che ci permette di perdere di vista la realtà quel tanto che basta per intravedere la verità. Qualcosa che ha a che fare con la fiducia, come mi scrive il mago, che è “il ponte verso la fede. Deve essere sufficientemente forte per essere attraversato”. E poi aggiunge: “Anni fa ho deciso che non avrei detto bugie sul palco. Invece, ho permesso al pubblico di mentire a sé stesso”. Il pubblico dello spettacolo-film lo osserva raccontare, quasi immobile, una lunga oscura storia dell’uomo misterioso chiamato il Roulettista, il reduce dalla guerra che scommette sul proprio destino con una pistola carica puntata alla tempia per ritrovare sé stesso. La storia che all’inizio spiazza decisamente gli astanti finisce con il “trucco” della nave di carta che entra magicamente nella bottiglia, il cui stupore sordo si allarga in molti sorrisi sinceri. Lo spettacolo-film è cominciato solo da una ventina di minuti ma il pubblico si è già completamente abbandonato al racconto sincero e stralunato di DelGaudio, che prende tutti per mano per condurli a giocare lungo il limite pericoloso che divide il bene dal male, la luce dall’oscurità. Quell’impalpabile “tempo tra Cane e Lupo”, il momento in cui è difficile distinguere un amico da un nemico, cosa è vero da cosa è falso. Un tempo di possibilità, di metamorfosi, di cambiamento. Il mago condivide con noi un pezzo della propria vita, raccontando la sua infanzia cresciuto da una madre single e il rapporto con i suoi Mentori, i maghi che gli hanno insegnato i primi trucchi. Ma anche i lunghi anni a imparare a tenere un mazzo di carte correttamente. Otto fottuti anni in cui ne ha assimilato e conosciuto ogni millimetro, la superficie di ognuna, gli angoli, l’impalpabile stampa di ogni figura e seme. Come mescolarle, una per una, lentamente, velocemente, con una mano sola, dal lato lungo, da quello corto. Come rimescolarle (il “riffle shuffle” di cui è esperto mondiale), come individuare una carta dal mazzo, come farla saltare fuori volteggiando in aria, come trasformare un dieci di picche in un sei di cuori e poi farla scomparire senza quasi muovere le mani. “Più lo condividevo con gli altri”, recita a un certo punto quasi divagando, “più diventavo disilluso”. All’improvviso, alle sue spalle, sul muro spoglio si illumina la testa di un lupo in una delle sei finestre-bacheche, e dalla bocca della bestia prende un mazzo che mescola sotto gli occhi meravigliati del pubblico: è il momento del racconto iniziatico di come Wolf, il Lupo, uno dei suoi maestri e mentori, gli insegna a mescolare in modo da pescare sempre le carte migliori per sé, pur sapendo che gli altri avventori al tavolo saranno probabilmente armati e incazzati neri di perdere. Quel Lupo è la personificazione del Diavolo in persona e DelGaudio, nonostante la faccia da bravo ragazzo, con un mazzo di carte in mano fa paura. Oltre che meraviglia.

 
Gli anni di apprendistato nelle bische dell’America di provincia sono anche alla base del racconto autobiografico di “Amoralman. A true story and other lies”, (Knopf, 2021), una storia vera e altre bugie, il romanzo-memoir che ha incassato le lodi di gente del calibro di Steve Martin, Tom Hanks e Neil Gaiman. Anni vissuti tra ciarlatani, imbroglioni, bari e criminali, che costringono il giovane apprendista stregone ad affrontare il mistero dell’assenza del padre, il segreto di una madre diversa da tutte le altre (amatissima, che fa capolino nel finale del film, tra le lacrime generali), e il proprio senso di moralità.

 
Da solo in scena, nonostante sembri incespicare più volte e sovente divaghi in territori apparentemente fuori contesto, DelGaudio mette così a nudo la propria anima che le sue parole hanno una funzione catartica sull’identità delle persone davanti a sé. “Una signora ha confessato di aver partecipato con il suo amante segreto”, mi dice, “non potevano dirlo a nessuno che conoscevano, quindi l’ha detto a una stanza piena di estranei. Nello spettacolo dico: ‘Ogni segreto ha un peso’. Forse la signora era stanca di portare il suo. Ho cercato di dare a ogni persona lo spazio per fare dello show quello che doveva essere per ognuno di loro”.
Nel 1956, durante le riprese del film “Sayonara”, Truman Capote fece visita a Marlon Brando per una lunga intervista per il New Yorker, uscita in Italia con il titolo “Il duca nel suo dominio” (Mondadori). In quell’occasione Brando disse di Capote che “quel piccolo bastardo ha passato metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi, ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei”. In scena, come attore unico di un atto unico, DelGaudio si trasforma nelle due facce della medaglia, bugia e verità, finzione e realtà, Brando e Capote.

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Sono piuttosto scioccato, nonostante abbia rivisto “In & Of Itself” più volte, piangendo tutte le volte, e cerco aiuto in un mago vero per capire più a fondo il mondo di questo straordinario personaggio. “Il bravo illusionista porta gli spettatori a superare la necessità di comprendere il trucco. Alla fine non ti interessa più capire. E chi riesce a seguirlo in questo percorso fa esperienza della meraviglia”, mi dice Francesco Maria Mugnai, noto mago che si esibisce proprio con il nome d’arte di Francesco Meraviglia. Il teatro di DelGaudio si trasforma in uno spazio condiviso in cui ognuno può finalmente essere chi è davvero. “Il teatro usa le illusioni per condividere storie. La magia usa le storie per condividere le illusioni”, mi risponde DelGaudio quando gli chiedo del suo trasferimento a Los Angeles, a 17 anni, per studiare teatro, “quando Peter Pan prende il volo sul palco, il teatro ti chiede di ‘sospendere la tua incredulità’. E’ una richiesta educata, che ti prega di ignorare i fili e concentrarti sulla storia. Lo spettacolo di magia ti sfida a cercare fili. Non ho scelto l’uno o l’altro. Ne ho creato un terzo”. 

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In un finale di grande empatia e intimità spirituale (il numero delle lettere scritte da sconosciuti e lette dal pubblico singhiozzante è davvero “incredibilmente indescrivibile”) intravediamo tra il pubblico, oltre alla Abramovic, anche Bill Gates e l’amico mago David Blaine, una sorta di nuovo Houdini. A ognuno di loro, gente normale e personaggi famosi, Derek sussurra, placido, la verità scritta sul cartoncino che hanno scelto all’ingresso e che lui, non si sa come, indovina. E ognuno di loro la trattiene per sé, come un segreto irripetibile. Verità e bugie sono due facce della stessa medaglia. Ma, come scrive il mago nel suo libro, chi la sta lanciando in aria?

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