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I Giardini dei Giusti anche nel mondo arabo, antidoto ai pregiudizi e all'antisemitismo

Gabriele Nissim

I muri di incomprensione e i meccanismi politici dell’antisemitismo si possono rompere facendo capire che l’idea dei Giusti e della giustizia riguarda tutta l’umanità. “Chi salva una vita, salva il mondo intero". Diario di un ebreo che ha vinto le paure

L’inaugurazione del Giardino dei Giusti di Halabja, in Iraq, che segue quelli sorti in Tunisia, in Israele, in Giordania e in Libano, mi stimola a fare alcune considerazioni personali su un tema difficile e complesso come le relazioni tra ebrei e mondo arabo.

 

Il conflitto in medio oriente ha lasciato un segno nella mia vita, non perché ne fossi partecipe, ma perché mi ha fatto vivere una sorta di amputazione nella mia propensione a ragionare come cittadino del mondo. Molti ritengono che l’ambiguità araba sul diritto all’esistenza di Israele sia il solo problema, invece c’è qualcos’altro che tocca una condizione esistenziale.

 

Ho sempre avvertito, infatti, come la narrazione della questione irrisolta tra israeliani e palestinesi avesse delle conseguenze nelle relazioni che mi capitavano durante miei viaggi nel mondo arabo, ma anche con cittadini arabi che incontravo in Italia.

 

Molte volte ho avuto un certo timore nel dichiararmi ebreo, come se fosse percepito in quel mondo un marchio negativo. E, in effetti, lo è. In quanto un certo tipo di propaganda ideologica antisionista ha creato dei pesanti stereotipi. Le infinite risoluzioni internazionali che presentano Israele come un paese malvagio, con un peccato originale, hanno lasciato il segno. In questa logica perversa, ogni ebreo in ogni parte del mondo ne avrebbe la responsabilità, indipendentemente dai suoi giudizi e dai suoi comportamenti. Sarebbe dunque colpevole della situazione palestinese.

 

Mi è persino capitato nei miei viaggi nel modo arabo di storpiare il mio nome, togliendogli la m finale, oppure aggiungendoci una vocale. Così il mio nome sarebbe stato quello di un italiano, dott. Nissi, come il signor Rossi.

 

Mentre nei paesi dell’Europa dell’est, come in Polonia o in Ungheria, mi era persino facile chiedere e ottenere delle interviste spregiudicate a degli antisemiti convinti, perché il mio è un nome rarissimo in quell’area, nel mondo arabo, invece, il mio cognome di origine sefardita è subito riconoscibile.

 

Questa situazione, per chi non la conoscesse (ma l’avvertivano, in altro modo, tanti italiani immigrati all’estero nel dopoguerra che venivano considerati potenziali mafiosi), crea una strana inquietudine, perché provoca la sensazione interiore di venire guardati con sospetto. Per qualsiasi essere umano non c’è niente di peggio di non avere la certezza di poter diventare un amico dell’altro in ogni parte del mondo. Non potere essere sé stesso e riconosciuto per la propria dignità ovunque è una limitazione che crea sofferenza nella personalità di un bambino, come ricordava Tzvetan Todorov. Non esistono, infatti, solo le leggi scritte che portano alla discriminazione, ma anche quelle non scritte che creano barriere invisibili. E, del resto, in un mondo globale, il più grande piacere è quello di sentirsi parte di ogni luogo dell’umanità. Si può tifare per una squadra di calcio di un altro paese come se fosse la propria o seguire le elezioni e le vicende politiche di un altro stato come fossero le nostre. Qualsiasi viaggio è diverso quando si sente il calore dell’accoglienza.

 

Di fronte a dei pregiudizi che impediscono di vivere la propria autenticità, si può scegliere la strada di vivere da marrani nascondendosi come facevano gli ebrei spagnoli dopo l’Inquisizione (come in parte mi capitava), oppure lamentarsi come vittime perenni, considerando impossibile cambiare lo stato delle cose. Così, non solo si sceglie la resa, ma si rinuncia alla bellezza e alla ricchezza di sentirsi cittadini del mondo intero. Conosco tanti ebrei che denunciano l’antisionismo nel mondo arabo e addirittura ne fanno una ragione di polemica perenne, come se avessero di fronte una ferita impossibile da rimarginare e per cui si può solo costatare l’impossibilità di un cambiamento.

 

Oppure, si può scegliere un’altra possibilità. Affrontare di petto i pregiudizi e, con intelligenza, rompere le barriere sul campo di battaglia. E’ il soft power delle idee universali della giustizia che può diventare più forte di ogni pregiudizio.

 

E’ quanto ha fatto Gariwo, una fondazione plurale e laica che ha lanciato con coraggio il tema ebraico e universale dei Giusti nel mondo arabo.

 

Quando assieme all’ambasciatore italiano Raimondo de Cardona ho incontrato, nel 2015 a Tunisi, Abdessatar Ben Moussa, il segretario della Lega tunisina dei diritti dell’uomo che aveva appena vinto il premio Nobel per la Pace, per proporgli un Giardino dei Giusti, provavo una certa inquietudine.  Cosa avrebbe detto di fronte a questa proposta fatta da un ebreo italiano che si richiamava all’esperienza del Giardino dei Giusti di Yad Vashem? La Tunisia non aveva rapporti diplomatici con Israele, anche se esisteva ancora a Djerba e nella capitale una piccola comunità ebraica. Mi avrebbe ascoltato con freddezza? Feci un grande sforzo per trovare le parole adatte, immaginando tutte le possibili obiezioni.

 

Ci volle una lunga ora di colloquio, ma tirai un respiro di sollievo quando Ben Moussa mi diede il suo consenso e fu d’accordo sulla nascita del Giardino che ricordasse Khaled Abdul Wahab, l’imprenditore tunisino che aveva salvato tante famiglie ebraiche durante l’occupazione nazista; la guida tunisina Hamadi ben Abdesslem, che aveva salvato una cinquantina di italiani durante l’attentato dell’Isis al Bardo; lo studente bengalese Faraaz Hussein, ucciso per avere cercato di salvare le sue amiche americane  durante un attacco terroristico; Mohamed Bouazizi, il giovane tunisino che con il suo sacrificio aveva emulato Jan Palach, dando inizio alla rivoluzione dei Gelsomini.

 

Per la prima volta in un paese arabo nasceva, il 15 luglio 2016 nell’Ambasciata italiana, un Giardino dei Giusti che metteva assieme chi aveva salvato gli ebrei e chi tra gli arabi lotta oggi contro il terrorismo e per i diritti umani.

 

 E poi, con lo studioso israeliano della Shoah Yair Auron, ho creato a Neve Shalom - Wahat el Salam, in Israele, un Giardino rivoluzionario che coinvolgeva palestinesi, israeliani e arabi israeliani. Non solo si dava valore a chi aveva salvato degli ebrei durante la Shoah, creando un processo di simbiosi e di autoeducazione, ma si rendeva onore a palestinesi e israeliani che durante i sanguinosi conflitti del medio oriente avevano compiuto atti di umanità nei confronti del “nemico”.  Così, per la prima volta in Israele, l’idea dei Giusti non era solo questione ebraica, ma diventava anche una questione palestinese. Un valore morale che poteva unire e conciliare due popoli in lotta sulla stessa terra.

 

Il 30 ottobre del 2017, grazie alla collaborazione tra Gariwo ed Eco Peace Middle East, ho avuto l’onore di inaugurare il primo Giardino del Bene in Giordania, nella Valle del Giordano ai confini con Israele, proprio in un momento difficile per le relazioni tra i due paesi, a seguito dell’allontanamento dell’ambasciatore israeliano ad Amman dopo una sparatoria nei pressi della sede diplomatica. Dal canto suo, il governo giordano aveva protestato per l’uccisione dell’assalitore per mano di un agente della sicurezza israeliana. Eppure, sui giornali giordani, non ebbe grande risalto solo l’evento in sé ma anche il tema della resistenza al terrorismo, perché, tra i vari Giusti, si ricordò il pilota giordano Moath Al Kasasbeh, bruciato vivo dall’Isis, e il primo ministro giordano Wasfi Al Tal, assassinato al Cairo nel 1971 dal Settembre nero.

 

Ebbi solo una piccola delusione perché il ministero della Cultura mi fece capire che, vista la crisi che si era creata con Israele, preferiva che non fosse presente una delegazione del giardino di Neve Shalom, che avevo personalmente invitato. Dovetti quindi, da solo, spiegare il valore dei Giusti per gli ebrei e il mondo intero. Il seme lasciato ebbe però i suoi frutti negli anni successivi, perché vennero ricordati il pescatore italiano Vito Fiorino, che aveva salvato i migranti in mare a Lampedusa, e il giordano Jihad Mattar, che si dedicava alla tutela dei rifugiati siriani abbandonati al loro destino. Era così diventato popolare ad Amman, nei fatti, l’insegnamento biblico che ricorda che chi salva una vita, salva il mondo intero.

 

E anche in Libano si è fatto un piccolo miracolo, proprio nel paese in cui non finisce mai la guerra con Israele e il conflitto tra le comunità religiose esasperato da Hezbollah. Il 29 giugno del 2019 nel villaggio di Kfarnabrakh, a 45 chilometri da Beirut, si è inaugurato, alla presenza dei fondatori di Gariwo, Anna Maria Samuelli e Pietro Kuciukian, un Giardino che ricorda grandi figure morali che hanno lottato contro i peggiori crimini dell’umanità: Carlo Angela in Italia, Sophie Scholl nella Germania nazista, Andrej Sacharov in Unione Sovietica, Armin Wegner durante il genocidio armeno e Azucena Villaflor nell’Argentina sotto la dittatura militare. Si è affermato così, in un centro educativo per ragazzi, un principio morale che un giorno potrà contribuire a una maggiore tolleranza e rispetto della dignità umana tra il Libano e i suoi vicini, compreso Israele.

 

Ora forse si è ottenuto il più grande risultato nella storia dei Giardini dei Giusti in medio oriente. Il 18 ottobre, ad Halabja, dove Saddam Hussein ordinò una rappresaglia del suo esercito contro la minoranza curda, facendo uso di armi chimiche che costarono la vita a cinquemila persone, si è inaugurato un nuovo Giardino dei Giusti assieme all’università di Halabja, all’ong irachena Nwe e all’associazione milanese Dare.ngo.

 

Così, assieme a Joshua Evangelista, ho avuto l’opportunità di parlare come ebreo e italiano a una conferenza per la prevenzione dei genocidi, dove, in modo innovativo nella storia dell’Iraq, sono stati affrontati i temi del negazionismo, di Primo Levi, dei drammi comuni che hanno toccato ebrei, armeni e curdi.
Poterlo fare davanti a decine di giovani studentesse, in un paese dove la parola ebreo era spesso tabù e forse difficilmente si era parlato di Olocausto, mi ha dato la speranza che sia possibile, con la passione e l’ostinazione, rompere anche nei contesti più difficili e ostili gli stereotipi che hanno segnato la nostra epoca. I muri di incomprensione e i meccanismi politici dell’antisemitismo si possono rompere facendo capire che l’idea dei Giusti e della giustizia riguarda tutta l’umanità.

 

Come aveva ben compreso il filosofo ceco Jan Patocka, quando si crea una solidarietà degli “scossi”, così chiamava coloro che si univano per un mondo migliore dopo le sofferenze, si possono raggiungere mete impensabili e ridare speranza a chiunque voglia migliorare la condizione umana.
Ho ritrovato, così, la forza e l’orgoglio di superare la mia paura di essere ebreo nel mondo arabo.