spazio okkupato

E quando calerà il consenso mostrerai gli avversari come nemici della Patria

Giacomo Papi

Uno schema classico, consolidato, a cui la destra ricorre con più disinvoltura di quanto non faccia la sinistra. Non solo Meloni: anche per i commentatori di area in tv, sui giornali e sui social comincia a essere frequente che la risposta a una critica sia di danneggiare l’Italia parlandone male

Sono salite sul tram due donne malconce che parlavano di politica. La fermata era quella del 9 di piazza Tricolore a Milano, vicino all’Opera San Francesco, l’istituzione benefica che ogni anno offre circa 740 mila pasti, 66 mila docce, e 35 mila visite mediche a chi ne ha bisogno. Ogni giorno la fila scorre lungo la barriera jersey in plastica e calcestruzzo costruita per tenere lontani i bisognosi dall’hotel Chateau Monfort, in modo che i ricchi non vedano i poveri e i poveri i ricchi. Sul tram la prima signora ha sistemato le sue borse per terra. La seconda, più giovane, si è seduta sul trolley rosso che trascinava con sé. “Hai visto il governo?”, ha chiesto. “Bei fascistoni”, ha commentato la vecchia, “però almeno sono seri, si vede che sanno le cose e che difendono l’Italia. Non fanno mica finta di essere come noi”. In quel momento nella mia testa è riapparso Roberto Fico che, dopo il trionfo di Movimento 5 stelle e Lega alle elezioni del 2018, arrivò in autobus a Montecitorio per insediarsi alla presidenza della Camera.

I vincitori di allora erano contro le élite: lo slogan “uno vale uno” e l’esibizione della volgarità erano un modo per dire noi siamo come voi, siamo popolo. Per questo si facevano fotografare in autobus o mentre mangiavano un panino. I vincitori del 2022, invece, dichiarano la propria appartenenza a un’altra élite, si presentano come una classe dirigente di destra, che ha tutti i titoli per comandare in ogni campo, dalla pubblica amministrazione all’economia alla cultura. I vincitori delle elezioni del 2018 rivendicavano la propria ignoranza, proclamavano di non avere cultura. Quelli del 2022 rivendicano una cultura alternativa, quella di chi – come ha detto Giorgia Meloni nel discorso della fiducia – ha “una storia politica che è stata spesso relegata ai margini” (per la buona ragione, aggiungo, che quella storia è legata alla dittatura, alle leggi razziali e all’entrata in guerra). 

Ma il governo Meloni, pur partecipato dal fantasma di Forza Italia e da una Lega in cui all’improvviso perfino Salvini si mette la cravatta e gli occhiali, e pur avendo molti ministri del 2008, non rappresenta una cesura soltanto con i governi che l’hanno preceduto, ma anche con la storia del populismo italiano. Quando si legge che Giorgia Meloni è il frutto di un processo cominciato nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi, e proseguito con Beppe Grillo, Matteo Renzi e Matteo Salvini, non si considera il fatto che il suo governo, contemporaneamente, spezza quel processo perché il populismo si fonda sul rapporto diretto tra leader e popolo e sulla disintermediazione programmatica, mentre Meloni ha già dichiarato, coerentemente con la sua storia politica: “Io credo nei corpi intermedi”. 

Un’altra differenza sottile, ma decisiva, di questo cambio culturale mi sembra essere la strategia con cui si cominciano a mostrare i nemici. E’ molto probabile che nei prossimi mesi, di fronte alle inevitabili difficoltà, per mantenere il consenso si darà la colpa a qualcuno. E’ uno schema classico, consolidato, a cui la destra ricorre con più disinvoltura di quanto non faccia la sinistra e che in Italia conosciamo bene. Nel 2011 Berlusconi accusava chi parlava di crisi rispondendo “i ristoranti sono pieni”, nel 2015 Matteo Renzi si inventò i gufi iettatori e nel 2018-2019 Matteo Salvini trascorse i suoi mesi da ministro dell’Interno, accusando migranti, ong, radical chic e conduttori avversi. L’impressione è che la colpa prevalente che la nuova destra evocherà per screditare gli avversari politici sarà l’antipatriottismo: sarà ventilare, cioè, per gli oppositori il gravissimo reato di Alto tradimento e di intelligenza con lo Straniero. 

Giorgia Meloni lo ha già fatto, quando ha attaccato il segretario del maggior partito di opposizione, Enrico Letta, per avere criticato il governo in un consesso europeo: “Affermare all’estero che l’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento” etc. “è scandaloso e rappresenta un danno per l’Italia, le sue più alte istituzioni e la sua credibilità internazionale. Letta si scusi immediatamente”. Ma non è tanto Meloni a impressionare. E’ la velocità con cui su questo solco si stanno schierando i commentatori di area in tv, sui giornali e sui social. Fateci caso. Comincia a essere frequente che la risposta a una critica sia di danneggiare l’Italia parlandone male. Non è una scelta tattica e in malafede, o almeno non sembra. E’ un comportamento coerente con l’identità profonda della destra che rimane il nazionalismo, occulto o esibito: cioè con l’idea che ogni individuo si definisca innanzitutto in base alla sua appartenenza alla famiglia e al Paese in cui è nato, e che il dovere di ogni italiano sia difendere i confini della Patria dai suoi nemici esteriori e interiori.

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