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riflessioni

L’idea di controllare la complessità che regola la società è un’illusione

Sergio Belardinelli

La libertà individuale è necessaria e importante, ma ci sono dei limiti dati dalle conseguenze inintenzionali delle nostre azioni e dal fatto che condividiamo il mondo anche con altri

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Sul piano morale le nostre società appaiono caratterizzate da una crescente cacofonia. Secondo il più radicale individualismo, ognuno si sente autorizzato ad andare per la propria strada, quale che sia. Nel contempo i diversi sistemi sociali sembrano funzionare sempre di più, come se gli individui non esistessero. Non sembrerebbe una sconnessione da poco questa tra individuo e società. Invece il diritto sacrosanto di ciascuno a vedere le cose come meglio crede raramente viene commisurato al fatto che la nostra libertà deve sempre fare i conti con una logica, quella dei diversi sistemi sociali, che può certo promuoverla ma anche inibirla. A tal proposito si pensi soltanto a quanto sono importanti certi sistemi sociali quali la scuola, la politica, l’economia o la tecnologia. 


In senso molto generale ciò significa che la dimensione morale delle nostre scelte va coltivata non soltanto in ordine ai valori che ci stanno a cuore o alle conseguenze personali che scaturiscono dalle nostre azioni, ma anche in vista dei loro effetti sociali e istituzionali.

 

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Del resto, attore e sistema sociale sono tra loro in continua interazione; le diverse componenti istituzionali sono tra loro collegate, esercitano un influsso forte e continuo sugli individui e sui diversi gruppi sociali; questi ultimi, a loro volta, interagiscono, si fanno concorrenza, si scambiano “beni” in senso molto lato, stipulano contratti, cercano di far sentire il peso dei loro interessi sulle istituzioni. Ebbene, considerato che ormai tutte le società (almeno in occidente) tendono ad assumere questo aspetto complesso e differenziato, occorre trovare una bussola che ci consenta, da un lato, di salvaguardare la contingenza e la complessità del mondo nel quale viviamo (non ci sono motivi, almeno secondo me, per avere nostalgia delle società semplici del passato), dall’altro, di mantenere ferma la distinzione  tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, tra ciò che promuove l’umana libertà e dignità e ciò che invece le inibisce. 

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Ovunque sono in gioco gli uomini, gli aspetti descrittivi e quelli normativi in qualche modo si compenetrano. Non possiamo riflettere seriamente sulla società se perdiamo di vista il “soggetto” che è sempre implicato in essa. Se è vero che viviamo in una società complessa, i cui tratti caratteristici sono la differenziazione, l’individualizzazione e quindi un pluralismo diffuso sia a livello delle istituzioni sociali, sia a livello delle convinzioni morali degli individui, credo che proprio nella “qualità umana” delle nostre azioni e delle nostre istituzioni risieda l’idea di un “bene” che sia compatibile col suddetto pluralismo. Ciò che faccio promuove o inibisce la dignità e la libertà degli altri? Questa istituzione promuove o inibisce la dignità e la libertà dei cittadini? Sono queste le domande che dovremmo porci, se siamo interessati alla qualità umana, al bene, della nostra vita individuale e sociale. 

 

Si tratta di domande che non esprimono una nozione sostanziale, predefinita del bene alla quale conformare a priori l’ordine della società; esse esprimono piuttosto un’istanza morale (il primato della persona e della sua incommensurabile dignità) che, dovendo sempre misurarsi con la concreta realtà, rimane, diciamo così, aperta a una pluralità di esiti e, in quanto tale, generativa di un ethos del quale le nostre società liberali e democratiche hanno urgente bisogno, specialmente se vogliono mettersi al riparo sia dalle derive costruttiviste sia da quelle individualiste. All’interno di questo ethos, la sintesi di interessi individuali e interessi sociali, un certo senso di appartenenza, diciamo pure, la solidarietà appaiono non come semplice compensazione retorico-moralistica di alcuni sgradevoli effetti collaterali della moderna società capitalistica, bensì come elementi propulsivi di un ordine sociale “umano” che, in quanto effetto di interazioni innumerevoli e imprevedibili, è spontaneo e inintenzionale.

 

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Troppo spesso quando affrontiamo i problemi della nostra società, incluso quello che riguarda le possibilità che abbiamo in quanto individui di incidere sui sistemi sociali che sono all’opera intorno noi e che condizionano profondamente la nostra libertà individuale, ci facciamo prendere la mano dal desiderio di mutare radicalmente il funzionamento e il corso di tali sistemi, in forza semplicemente della nostra convinzione che sia giusto farlo. Purtroppo questo non è sufficiente. Possiamo certo cambiare qualcosa, ma, ripeto, nessuno di noi ha il totale controllo della complessità della situazione in cui agiamo individualmente e socialmente. E questo non soltanto perché esistono le cosiddette “conseguenze inintenzionali” delle nostre azioni, ma anche perché le nostre risorse razionali sono limitate e perché, oltre a noi, ci sono anche gli altri. 

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Potrei esprimere lo stesso concetto dicendo che il carattere intenzionale delle azioni umane, l’umana libertà, i suoi effetti inintenzionali nonché i limiti della umana conoscenza sono ciò che, da un lato, alimentano la fiducia che nessuna condizione sociale è immutabile e, dall’altro, rendono il futuro sempre incerto, imprevedibile. In questa duplicità ci muoviamo e mi auguro continueremo a muoverci. Volerne diventare padroni è soltanto un modo di eludere la complessità o, peggio, un segno di fanatismo.

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