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Donne uccise come streghe, oltre le statistiche c'è il simbolo della cancellazione

Giacomo Papi

Cercando “bruciata viva” si trovano decine di storie di donne assassinate in Italia negli ultimi vent’anni. E i numeri sono sempre insufficienti, hanno il potere di disinnescare la singolarità e il dolore. Quello di Palmina e le altre: troppo spesso rimaste senza giustizia

C’è qualcosa di necessario, ma anche di profondamente insufficiente nella sequenza di numeri con cui ogni anno si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita nel 1999 dall’Onu in ricordo di Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, tre sorelle attiviste fatte uccidere il 25 novembre 1960 dal dittatore della Repubblica domenicana Rafael Trujillo, detto “il Caprone”. Le statistiche del ministero dell’Interno sono necessarie perché confermano che il numero dei femminicidi in Italia non cala, anzi è aumentato (nel 2021 le donne uccise sono state 109 di cui 93 in ambito “famigliare-affettivo”) al contrario del numero degli omicidi in generale. La morte di donne per mano di maschi sembra, cioè, al riparo della storia e della geografia (i casi sono distribuiti in modo uniforme sul territorio italiano in rapporto alla densità demografica) e perfino del livello culturale e di reddito. Si fonda, cioè, su “un sistema che, complessivamente inteso, ha tollerato e tollera quella violenza”, come ha detto a Open Valeria Valente, la senatrice del Partito democratico che presiede la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere. I 211 casi avvenuti tra 2017 e 2018 analizzati dalla commissione dimostrerebbero che l’inadeguatezza di polizia e magistratura (su 196 donne uccise soltanto 29 avevano denunciato, senza ricevere nella metà dei casi alcun tipo di protezione) è l’ultimo anello della nostra sistemica incapacità di proteggere le donne in pericolo. I numeri, però, sono sempre insufficienti, perché ogni statistica, in ogni ambito, nasconde i fatti o almeno ha il potere di disinnescarne la singolarità e il dolore. 

In questi giorni ho letto per caso un testo intitolato “L’urlo di Palmina” scritto nel 1982 dalla scrittrice Francesca Sanvitale. Racconta di una ragazza di 14 anni di Fasano, in provincia di Brindisi, che morì bruciata il 2 dicembre 1981. “Un fatto di cronaca”, scrive Sanvitale. “Uno schema con alcuni punti chiave di raccordo molto conosciuti: sud, miseria, sottoproletariato, forse droga; l’Italia degradata. Su questo schema le reazioni emotive sono facilitate ma espulse quasi subito”. Per saperne di più ho cercato la storia su Google News. Prima di morire in ospedale, Palmina Martinelli aveva accusato alcuni ragazzi che si trovavano con lei di averla cosparsa d’alcol e incendiata con un fiammifero, forse perché non voleva prostituirsi come sua sorella più grande. Il processo si concluse nel 1988 con l’assoluzione, anche per la Cassazione la ragazza si era bruciata da sola. È stato riaperto nel 2017 grazie a “Chi l’ha visto?”, a un’altra sorella e a una nuova perizia che ha escluso il suicidio. Dopo l’assoluzione, l’avvocato della difesa ha detto: “Se Palmina fosse stata figlia di un giudice non sarebbe andata così”, “Palmina ha pagato per la povertà del suo contesto, per la sua insignificanza economica”, “È stata uccisa come una strega”.

Il degrado concorre, ma non spiega tutto, altrimenti la soluzione sarebbe il progresso. Cercando su Google News “bruciata viva” si trovano decine di storie di donne bruciate in Italia negli ultimi vent’anni. “Come una strega”. I loro assassini sono quasi sempre uomini (in un solo caso è una donna gelosa) e questo anche se spesso negano, parlano di suicidio o incidente, anche se qualcuno si è bruciato a sua volta o si è suicidato in carcere, anche se molti processi sono ancora in corso.

Insieme a Palmina Martinelli sfilano Ylenia Lombardo, 33 anni, picchiata e bruciata a San Paolo Belsito, Napoli, nel maggio 2021; Roberta Siragusa, 18 anni, di Termini Imerese, bruciata viva nel gennaio 2021; un’altra bruciata a 31 anni nel giardino di casa a Castellamare di Stabia nel gennaio 2021 e un’altra ancora, di 51, a Roccasecca dei Volsci, Latina; Mina Safine, 45 anni, bruciata a Brescia nel settembre 2020; Maria Antonietta Rositani, bruciata il 12 marzo 2019 a Reggio Calabria, sopravvissuta; Violeta Senchiu, 32 anni, bruciata a Sala Consilina, Salerno, il 4 novembre del 2018; Vania Vannucchi, 46 anni, bruciata nel piazzale dell’ospedale Campo di Marte di Lucca, il 2 agosto 2016; Sara Di Pietrantonio, 22 anni, bruciata nella sua auto in via della Magliana a Roma il 29 maggio 2016; Fabiana Luzzi, 16 anni di Corigliano, Cosenza, accoltellata e bruciata nel maggio 2013; Paola Burci, 18 anni, bruciata a Rovigo nel 2008; Giovanna Comunale, 19 anni, di Trapani, bruciata nell’agosto del 2003 a Trapani; Graziella Mansi, 8 anni di Andria, Bari, bruciata da 8 ragazzi più grandi il 19 agosto 2000.

Quindici casi non hanno un valore statistico, ma ne hanno uno simbolico. Dimostrano che anche la violenza più brutale – un atto così antico da affondare in un passato molto più antico dei roghi delle streghe –  ha di mira la cancellazione rituale e fisica della donna che rifiuta ed è sempre, necessariamente, premeditato.

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