L'abito del medico della peste in un disegno del 1656 (da Wikipedia)

In un vecchio libro di Carlo M. Cipolla c'è l'Italia pandemica di oggi

Salvatore Merlo

Virologi, tribuni e cialtroni: quando la furia retorica dei talk show divampava in piazza della Signoria (e i vaccini erano scorpioni bolliti)

Cialtroni, tribuni da quattro soldi, virologi straparlanti, politici impanicati e furbastri, medicinali salvavita che la vita la strappano e ovviamente lui, protagonista assoluto: il virus. Il più grande errore degli uomini è quello di pensare che l’esistenza sia un eterno presente, quasi che il passato non esista e che ciò che viviamo sia unico. Mai accaduto prima. Figurarsi. Ovviamente non è così e la lettura in questi giorni di un vecchio libro di Carlo Maria Cipolla sulla peste e sul tifo nell’Italia rinascimentale (“Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento”) consente d’immergersi in un turbinante incrocio tra presente e passato, cronaca e storia, al punto che leggendo ciò che accadeva a Firenze nel 1600 non si capisce più se si sta parlando di oggi o di quattrocento anni fa. Straniante, tragico, ma  a tratti pure comico.

 

Oggi un poveretto facendo zapping col telecomando precipita da Barbara D’Urso o da Lilli Gruber, e trova il virologo che litiga col biologo, il Cacciari che non se la beve sotto la barba, il Travaglio che sempre se ne intende, insomma quello che sbraita e quello che invece “lo so io come si doveva fare”. Proprio come cinquecento anni fa, mettiamo in piazza della Signoria, tale dottor Nardi (un incrocio tra il prof. Crisanti e Mauro Corona) saltava su un banchetto radunando la folla per mettere in stato d’accusa l’intera classe medica fiorentina. Racconta dunque il grande Cipolla che il dottor Nardi nel 1621  accusò il Cts di allora d’aver provocato le 12 mila vittime dell’epidemia di tifo per non aver fatto abbastanza uso dell’olio controveleno, “neglecto certissimo presidio” con cui il dott. Nardi aveva fatto invece miracoli. Non si trattava esattamente di AstraZeneca, ma di un intruglio infernale preparato nell’officina medica granducale e nel quale erano stati cotti e bolliti degli scorpioni.

 

Ovviamente la gente prendeva l’olio controveleno, e ci restava secca più che per il tifo. Ragione per la quale nel 1600 a Firenze erano più fortunati i poveri, cioè quelli che non potevano affidarsi alla medicina più all’avanguardia, rispetto ai ricchi che venivano invece sottoposti a mille e mortali (nonché costose) torture mediche. Oggi i miliardari si fanno curare con gli anticorpi monoclonali, quelli che prese Donald Trump l’anno scorso. E sopravvivono al Covid-19. A Firenze, nel 1621, ai banchieri internazionali Bardi, che se lo potevano permettere, propinavano invece a peso d’oro la “triaca” il più miracoloso e inutile farmaco della storia, un celebre elettuario veneto preparato con circa sessanta ingredienti tra cui i più essenziali erano l’oppio e la carne di vipera. Il già citato dott. Nardi, l’incrocio tra un virologo e un tribuno televisivo di oggi, ci credeva ciecamente.   

 

Anche nel Rinascimento la politica, piuttosto incerta, chiedeva lumi alla scienza. C’erano anche allora Locatelli, Crisanti, Brusaferro e ovviamente – soprattutto – Walter Ricciardi, il consulente del ministro della Salute Speranza. Scrive Cipolla che a un certo punto i Magistrati, cioè i governanti, decisero di convocare d’urgenza un consulto di medici “per intendere intorno a questi mali qualcosa di fondamento”. L’esito ricorda tanto quel periodo in cui il dottor Ricciardi qui da noi sconsigliava vivamente di indossare la mascherina che era “assolutamente inutile”. Come non ricordare, a questo proposito, anche le prime parole di Giuseppe Conte all’apparire del virus: “L’Italia è prontissima”. E infatti Cipolla, raccontando le surreali indicazioni dei medici fiorentini del 1600, conclude: “Come capita troppo spesso nella commedia umana, la magniloquenza e la sicumera velavano l’ignoranza e nell’ignoranza ci si voleva illudere per il meglio”.

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.