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Se vogliamo tutti lo stesso cane

Gaia Manzini

Siamo ormai prigionieri degli algoritmi. Il “pensiero diverso” si assottiglia e le coscienze si uniformano

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Nell’ottobre del 2002, in una serata fredda e limpida, sono andata a vedere uno spettacolo di Luca Ronconi: uno spettacolo che ha spostato un po’ più in là le frontiere del teatro contemporaneo e ha fatto molto discutere per il suo approccio massimalista. Quello spettacolo s’intitolava Infinities e non lo davano a teatro, ma negli immensi capannoni industriali che ci sono alla Bovisa, capannoni che per molti anni erano stati il deposito delle scenografie della Scala. Si aveva la sensazione che il teatro volesse perdere l’allure di rito borghese, tipico della città di Milano, e volesse avvicinare l’arte e il suo pubblico ai luoghi della produzione e della tecnica. Che volesse lanciare una sfida. Infinities non era uno spettacolo con un palco e un pubblico seduto, ma un percorso attraverso cinque grandi ambienti.

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Nell’ottobre del 2002, in una serata fredda e limpida, sono andata a vedere uno spettacolo di Luca Ronconi: uno spettacolo che ha spostato un po’ più in là le frontiere del teatro contemporaneo e ha fatto molto discutere per il suo approccio massimalista. Quello spettacolo s’intitolava Infinities e non lo davano a teatro, ma negli immensi capannoni industriali che ci sono alla Bovisa, capannoni che per molti anni erano stati il deposito delle scenografie della Scala. Si aveva la sensazione che il teatro volesse perdere l’allure di rito borghese, tipico della città di Milano, e volesse avvicinare l’arte e il suo pubblico ai luoghi della produzione e della tecnica. Che volesse lanciare una sfida. Infinities non era uno spettacolo con un palco e un pubblico seduto, ma un percorso attraverso cinque grandi ambienti.

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In ognuno degli ambienti veniva messo in scena un paradosso matematico legato al concetto d’infinito. Si assisteva a ogni microdramma per venti minuti, poi si passava alla stanza successiva. In conclusione, se si voleva, si poteva ricominciare da capo. Gli attori, nel frattempo, si sarebbero scambiati e chi avesse deciso di ricominciare dal primo ambiente avrebbe visto uno spettacolo diverso, infinito per l’appunto nelle sue possibili modulazioni. Luca Ronconi aveva incontrato l’astrofisico e matematico John Barrow, docente di Scienze matematiche a Cambridge, scomparso pochi mesi fa. Era rimasto affascinato dalle sue doti di divulgatore, e insieme avevano deciso di portare a teatro i concetti d’infinito, di farne uno spettacolo per tutti. La terza teoria dell’infinito, che ricordo come la più affascinante sul piano visivo, si svolgeva tra gli armadi del vecchio deposito dei costumi. Si ispirava in parte ai temi della biblioteca infinita e degli incontri col proprio doppio affrontati da Borges, in parte alle teorie degli scienziati sudafricani Ellis e Bauter sull’esistenza di un numero di universi infinito, e dunque sull’infinita possibilità di trovare individui identici a noi.

 

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Gli spettatori vagavano tra file e file di armadi di legno che nell’oscurità sembravano formare un labirinto. Una voce raccontava la teoria dell’infinito a cui stavamo assistendo senza che apparentemente succedesse nulla. Fin quando, all’improvviso, gli armadi si aprivano e nei corridoi del labirinto cadevano a corpo morto decine di manichini tutti uguali, tutti inespressivi. In un mondo dove sentirsi unici appare sempre più difficile, l’essere replicati – o replicabili – è uno degli incubi che più riflettono la contemporaneità. Le domande che riguardano la nostra identità, le domande filosofiche, sono antiche, e sono con noi fin dalla giovinezza. Eppure, il fatto di trovarci sempre online ridefinisce i limiti e le opportunità di quelle stesse domande. Negli ultimi mesi, in famiglia, abbiamo pensato di comprare un cane: un fatto normale per molte persone, meno ovvio per noi che non abbiamo mai avuto animali. Il pensiero di un cucciolo da accogliere in casa ci è apparso come la possibilità di allargare la famiglia, di proiettarci in un mondo meno chiuso del perimetro del nostro appartamento: un mondo esposto al vento, ai pollini, alla pioggia, ai raggi solari, all’ossigeno.

 

E così è partita la ricognizione per cercare il cane più adatto alle nostre esigenze, allo spazio che possiamo offrirgli e al tempo che possiamo dedicargli. Ho chiamato un amico falconiere e cacciatore, ho parlato con una zia animalista, ho passato ore al telefono con la mia amica Ilaria che di cani sa tutto. Alla fine ho capito che il più adatto alle nostre esigenze è un cane da tartufo (il Lagotto romagnolo), una razza fino a qualche tempo fa poco conosciuta. Allora ho contattato gli allevatori che mi sono stati segnalati, certa di realizzare il nostro desiderio in una settimana. I primi due non mi hanno neanche risposto. Il terzo aveva cuccioli prenotati fino al 2022, la quarta mi ha promesso un piccolo ma poi ha cambiato idea. In questo momento siamo in attesa che arrivi una cucciolata, ma non c’è ancora davvero la certezza che la nostra famiglia si allargherà. Così ho capito che non solo rientro nel trend (uso volutamente il termine sociologico) per cui sono in aumento, a causa del lockdown, le adozioni di cani, ma anche che il cane così particolare, così diverso, così ritagliato sulla nostra vita di intellettuali, è il cane che ora vogliono tutti. Non solo a Milano, né in Lombarda né al Nord, ma in tutta Italia.

 

Il filosofo Luciano Floridi, professore di Etica dell’informazione a Oxford, sostiene che ci troviamo nel bel mezzo di una rivoluzione culturale in larga parte determinata dalle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione. E’ come essere nati a Parigi il 14 luglio 1789; oppure a Boston il 16 dicembre 1773. Siamo immersi nell’infosfera, all’alba di un nuovo Millennio. Io però non me ne rendo conto, non fino in fondo. Come tutti sono abituata a considerare le Ict nuovi ed efficaci strumenti per interagire con il mondo, e questo ancora di più durante il lockdown. Invece, scrive Floridi nella Quarta rivoluzione (Raffaello Cortina Editore), queste tecnologie “sono divenute forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative”. Ci cambiano dal punto di vista intellettuale e fisico, cambiano la nostra autocomprensione, cambiano le nostre relazioni, cambiano il modo in cui interpretiamo il mondo. Lo fanno sempre, ogni giorno, continuamente e in profondità. Sappiamo dagli studi di Soshana Zuboff, studiosa e professoressa di Harvard, che Google già nel 2002 aveva capito che i dati e tutte le informazioni registrate sui nostri viaggi nell’infosfera erano un tesoro inestimabile. Fare ricerche online, accedere a un portale, a un sito di prodotti per l’arredamento o per il giardinaggio, a un blog di cucina o alla pagina di qualche compagnia aerea, fornisce una notevole quantità di informazioni su di noi e la nostra storia; dice molto di desideri, emozioni e interessi.

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Ogni nostra azione sul web è un rilevatore di comportamento. E i comportamenti diventano un prodotto fondamentale: ci fa destinatari di comunicazioni e pubblicità mirate e personalizzate, dunque molto efficaci. Ma cosa c’entra questo con la decisione personalissima, creata e consolidata fuori dalla rete, nelle nostre intime discussioni di famiglia, di cercare un Lagotto? Nella visione dei signori del web, si riconosce che gli individui hanno ancora la capacità di pensare in modo indipendente, ma la fisica sociale non ha bisogno di occuparsene. L’individualità si basa su processi mentali interni e inosservabili, spesso non condivisi. Dunque residuali. Per il capitalismo della sorveglianza, d’altra parte, l’individualità è il nemico. Ma siamo proprio sicuri del processo inverso? Abbiamo noi stessi coscienza di quanto e come la costruzione della nostra personale individualità dipenda dall’infosfera? Cosa ci rimane attaccato addosso ogni volta che facciamo un giro nel web? Floridi ha conosciuto uno studente che si era registrato su Facebook nel 2004, il suo numero di identificazione era 246. Nel 2012 gli utenti di Facebook hanno superato il miliardo. Un miliardo.

 

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Torniamo ai grandi numeri, agli infinities, alla possibilità di mondi infiniti con infiniti nostri doppi. Il topos del doppio assume proporzioni esponenziali. Ho sempre letto con orrore la storia di Jakov Petrovič Goljadkin, personaggio di Dostoevskij, che un giorno incontra una persona che gli somiglia, porta il suo stesso nome e sembra aver vissuto le stesse esperienze, ma è più astuto, più brillante e si sostituirà presto al protagonista: prenderà letteralmente il suo posto, perché la parabola del doppio non concepisce la co-esistenza, si conclude sempre con la prevaricazione, la sopravvivenza di uno solo, che puoi non essere tu. E forse è neanche necessario che ti somigli troppo nell’aspetto, basta che sappia imitarti, che ami la tua vita tanto di aderirvi completamente, fino a scippartela. Il talento di Mr Ripley, l’incubo che ci ha donato Patricia Highsmith. Anche se poi a pensare agli infiniti doppi possibili torno alle immagini di Vanessa Beecroft che spoglia le donne, le sottrae alle leggi dell’apparire, ma le moltiplica tanto da renderle quasi interscambiabili, in una specie di critica implosa all’omologazione.

 

Decine, centinaia, migliaia di sguardi uguali al tuo. Quando ancora il web non dominava le nostre vite, mi sono laureata in Lettere. Ho molto pensato a cosa volessi fare e poi mi sono decisa per il mondo della pubblicità. Volevo diventare una creativa, una copywriter, mi sembrava un lavoro pieno di immaginazione, pieno di slancio verso il mondo. Mi sentivo così fiera di questa scelta, mi sembrava una strada originale che si scostava di netto dal conformismo che mi circondava. Non l’avvocato, non il manager, non il medico. Dopo anni mi sono accorta che quasi tutte le persone che avevo frequentato da adolescente avevano scelto il mio stesso tipo di strada: c’era chi lavorava in televisione, chi faceva il producer pubblicitario o musicale, chi come account si occupava dei clienti di un’agenzia, e poi molti copywriter come me. Ora che il web collega tutto, queste tendenze comportamentali si moltiplicano in ogni campo. I social media, dice Floridi, rappresentano un’opportunità senza precedenti di essere responsabili dei propri sé sociali, e quindi indirettamente di determinare la nostra identità personale. Se da un lato diventiamo per la pubblicità online come le anime morte di Gogol’ (ma dotate di portafoglio), nel passaggio da Gogol’ a Google abbiamo scovato nuovi processi oltre la mercificazione. Possiamo riappropriarci della nuova dimensione e personalizzare l’infosfera per mezzo di blog, post su Facebook, video su YouTube, tweet, foto su Instagram condividendo le nostre preferenze relative a cibo, scarpe, animali, luoghi, libri… è questo l’algoritmo di libertà che ci possiamo concedere?

 

Rimane il fatto che mi sono iscritta a un corso di tennis, quando tutti fanno paddle o tai chi o ashtanga yoga o cross training, pensando di trovare una landa desolata e mi sono dovuta accontentare di allenarmi fuori Milano perché i corsi erano gremiti e i campi non disponibili. Mio marito sta cercando di convincermi ad andare a vivere nel pavese e quando sono andata a vedere una casa (a Milano) mi hanno detto che i proprietari vendevano perché si erano trasferiti nell’Oltrepò. Una famiglia come noi: madre, padre e una bambina di dieci anni. I doppi, all’infinito. Qualcuno potrebbe obiettare – a ragione – che la pandemia è uno dei primi fattori omologanti, perché ci pone tutti davanti agli stessi ostacoli e dunque alle stesse (e nuove) esigenze; ma c’è anche dell’altro. Secondo Michele Mezza, autore di Algoritmi di libertà (Donzelli), siamo alla vigilia di una nuova svolta: “il passaggio dal digitale alle tecnologie quantiche… Un sapere poderoso che ha come obiettivo non certo la semplice velocità della rete, quanto la possibilità di riprogrammare la vita umana: l’epilogo è libertà o omologazione”. Il pericolo però sembra già tra noi: se le tecnologie sono già capaci di conformare la nostra realtà, è probabile che noi stessi adattiamo i nostri comportamenti a quelle stesse tecnologie. E’ probabile che viviamo attraverso automatismi dei quali non abbiamo contezza, agiamo influenzati dalle informazioni che ci arrivano dall’infosfera.

Scriveva Umberto Galimberti: “Il grande capovolgimento è dovuto al fatto che, superato un certo livello, la tecnica cessa di essere un mezzo nelle mani dell’uomo per diventare un apparato che include l’uomo come suo funzionario”. Non dimentichiamoci mai che Mark Zuckerberg e Steve Jobs prima che d’informatica si sono occupati di psicologia. L’impressione personale è quella di non decidere mai niente davvero, quella di vivere in mezzo a flussi più grandi di noi, dei quali non ci accorgiamo se non in ritardo. E allora qual è il margine di libertà che possiamo concederci? Come possiamo sfuggire all’uniformazione globale delle coscienze? Esiste l’algoritmo della libertà? Ovviamente non ho alcuna risposta a queste domande. Posso azzardare l’idea di formulare il dissenso con l’astensione come fa il Bartleby di Melville, che per sottrarsi alla monotonia conformistica di cui è prigioniero, per uscire dalla sua vita di copista, decide di opporre un irremovibile “Preferirei di no”. Mi tornano in mente con grande nostalgia i “malfatti” di Gaetano Pesce di cui mi parlava la mia professoressa di arte: oggetti di design che vanno oltre la serializzazione, che preservano gelosamente qualche difetto proprio per mantenere la loro singolarità. Se siamo entrati nell’era della quarta rivoluzione, allora abbiamo davanti a noi una nuova sfida: quella di salvaguardare la nostra identità, senza rinunciare all’infosfera (non potremmo mai trasformarci in Bartleby, pena l’alienazione); ma cercando almeno di capire quali sono le forze in campo. Per preservare il più a lungo possibile i nostri difetti, i nostri segni particolari, la nostra infinita unicità.

 

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