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spunti utili dalla quasi autobiografia di joseph roth

Il refuso, sintomo di una qualità in fase evitabilmente terminale

Marco Archetti

Dai social ai giornali, divampano gli strafalcioni (e la loro morbosa caccia): i tempi scrupolosi dello scrittore austriaco sono ormai lontani

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Tutto comincia il 18 gennaio con Di Maio. O meglio, con Augusto Minzolini che, su Twitter, cita Di Maio. E scrive: “Di Maio: meglio le elezioni che il governassimo”. Poi aggiunge: “Un’affermazione che di per sé fa ridere”. Già. Fa ridere. E tanto. Ma solo dopo, perché sulle prime il dubbio è che si tratti di una frase riportata con precisione filologica. Voglio dire, stiamo parlando di Di Maio, e se non è intenzione di chi scrive alimentare gli arcinoti sarcasmi sugli esecrabili eccessi di disinvoltura lessicale e sintattica del ministro senza più apriscatole, non si può tacere il fatto che, per un momento, si è restati lì, tentennanti e trafitti dalla possibilità: aveva detto davvero, Di Maio, il “governassimo”? No, non l’ha detto. Trattasi di refuso minzoliniano. Svista sublime, però. E che vede moltiplicato il proprio effetto comico proprio perché “il governassimo” è purissimo dimaiese. Svista che sembra tratteggiare, insieme al nostro dubbio da tre secondi, una cruda verità: l’epoca è talmente grama che ci si trova a frugare nei refusi con soddisfazione. Aruspici da spazzatura, solo lì ci sembra ormai di trovare lampi di verità possibili, un qualche secco tratto sardonico, inattese epifanie, e molto di quel che si smarrisce nella farragine del commentodromo specializzato, della stupidità intelligentissima delle dimostrazioni a tutti i costi, delle acrobazie delle gergalità e dei tecnicismi, della mistificazione permanente.

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Tutto comincia il 18 gennaio con Di Maio. O meglio, con Augusto Minzolini che, su Twitter, cita Di Maio. E scrive: “Di Maio: meglio le elezioni che il governassimo”. Poi aggiunge: “Un’affermazione che di per sé fa ridere”. Già. Fa ridere. E tanto. Ma solo dopo, perché sulle prime il dubbio è che si tratti di una frase riportata con precisione filologica. Voglio dire, stiamo parlando di Di Maio, e se non è intenzione di chi scrive alimentare gli arcinoti sarcasmi sugli esecrabili eccessi di disinvoltura lessicale e sintattica del ministro senza più apriscatole, non si può tacere il fatto che, per un momento, si è restati lì, tentennanti e trafitti dalla possibilità: aveva detto davvero, Di Maio, il “governassimo”? No, non l’ha detto. Trattasi di refuso minzoliniano. Svista sublime, però. E che vede moltiplicato il proprio effetto comico proprio perché “il governassimo” è purissimo dimaiese. Svista che sembra tratteggiare, insieme al nostro dubbio da tre secondi, una cruda verità: l’epoca è talmente grama che ci si trova a frugare nei refusi con soddisfazione. Aruspici da spazzatura, solo lì ci sembra ormai di trovare lampi di verità possibili, un qualche secco tratto sardonico, inattese epifanie, e molto di quel che si smarrisce nella farragine del commentodromo specializzato, della stupidità intelligentissima delle dimostrazioni a tutti i costi, delle acrobazie delle gergalità e dei tecnicismi, della mistificazione permanente.

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I refusi traboccano anche dalle colonne dei giornali (moltissimi nelle versioni online; nel 2008 a Mondovì ne nacque addirittura un festival, promosso dall’ordine dei giornalisti del Piemonte) e spesso sono più significativi della loro versione emendata – dall’editoria alla psicanalisi, è un attimo. “Storico presente dell’Avellino calcio”; “Soldati israeliani apostati”; “Momenti di crescita e momenti di recensione”; “Il clima della ragione è rimasto mite”; “Il panorama politico è molto fratturato” sono alcuni dei refusi autodenunciati dal Post in una summa molto divertente del 2018. Celebre anche uno strafalcione che raccontò Stefano Bartezzaghi, come quello in cui incappò un giornalone negli anni Novanta, quando celebrando l’anniversario di uno champagne, disse che era il preferito dello zar Alessandro II, che lo amava al punto da finire, un anno, a “orinarne” l’intera produzione.

 

Ma cos’è il refuso? Prodotto degenere, parto dell’inconscio che galoppa, clinamen semiotico e stronzata geniale, però anche testimonianza storica di una sparizione, funebre segnacolo di un mondo che sopravvive a stento, governato da norme redazionali verificate con puntiglio in cui la regola presiede l’estetica e la cura regge e governa entrambe. Insomma, per metterla giù dura, i refusi, le sviste e l’approssimazione che li permette, sono sintomi di una qualità in fase (evitabilmente?) terminale. Fuga e fine di Joseph Roth (Adelphi, 459 pp., 25 euro), oltre a essere l’unica quasi-biografia di Joseph Roth, fa al caso nostro grazie al “quasi”: mentre racconta la vita dello scrittore, l’autore Soma Morgenstern – corrispondente da Vienna della Frankfurter Zeitung dal 1927 al 1934, internato in Francia e poi fuggito negli Stati Uniti – si prende la sacrosanta briga di raccontarci tutta un’epoca attraverso i suoi movimenti intellettuali, le sue chiacchiere di bottega e di Caffè, e ci dà conto di un’intera civiltà politica, letteraria e giornalistica.

 

La Frankfurter – scrive Morgenstern – aveva redattori scrupolosi, corrispondenti pignoli e norme precise. “Era vietata, ad esempio, la parola notoriamente. Non doveva essere impiegata in nessun caso”. A vigilare come un cane da caccia sull’eventualità che qualche articolo di terza pagina fosse bollato dalla pillacchera dell’odiata espressione, un certo Mamroth. Un’estate rimase per svariate settimane in alta montagna, scendendo a valle una volta alla settimana per ritirare la posta. Un giorno, in un villaggio alpino, gli capitò tra le mani un’edizione del giornale in cui, imperdonabile negligenza, compariva il termine vietato. Il redattore Mamroth fece immediatamente la valigia e prese il primo treno diretto per Francoforte. Dicono che, per parecchio tempo, non andò più in ferie.

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