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il foglio del weekend

Il mio amante sono io

Simonetta Sciandivasci

Nessuno spazio per l’altro: il lieto fine è al singolare. La trilogia dell’amore contemporaneo ha sancito definitivamente che stare insieme è peggio

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L’isolamento ci fa amanti. E non dei vicini o dei SAD, gli Sconosciuti A Distanza che incontriamo in una riunione su Zoom, ma delle creature a noi più prossime, che ci camminano di fianco e addosso, e non ci fanno mai ombra perché sono la nostra ombra, e non ci abbandonano mai perché senza di noi non sono e non possono essere, non esistono: noi stessi. Da quasi un anno, la sola figura intera che vediamo ogni giorno, dentro uno specchio, è la nostra persona, il nostro corpo. Come in un matrimonio combinato, finiamo con l’innamorarcene per abitudine e solitudine, perché ci è compagna d’isola deserta.

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L’isolamento ci fa amanti. E non dei vicini o dei SAD, gli Sconosciuti A Distanza che incontriamo in una riunione su Zoom, ma delle creature a noi più prossime, che ci camminano di fianco e addosso, e non ci fanno mai ombra perché sono la nostra ombra, e non ci abbandonano mai perché senza di noi non sono e non possono essere, non esistono: noi stessi. Da quasi un anno, la sola figura intera che vediamo ogni giorno, dentro uno specchio, è la nostra persona, il nostro corpo. Come in un matrimonio combinato, finiamo con l’innamorarcene per abitudine e solitudine, perché ci è compagna d’isola deserta.

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Gli altri sono mezzobusti, icone modulabili su uno schermo che, accanto alla loro immagine, proietta la nostra, la sola che francamente e inevitabilmente guardiamo, quantomeno per controllare che sia tutto a posto, che non abbiamo nulla tra i denti, che i capelli tengano, che non si veda lo stendino aperto alle nostre spalle, né la crepa nel muro del salotto, finendo poi per notare che non siamo affatto male, guarda che telegenia, che piglio, senza dubbio siamo i più vispi della call. Al monologo non siamo nuovi, all’autoelogio nemmeno, e dev’essere per questo che non abbiamo fatto troppo caso al cambiamento di traiettoria del nostro sguardo, sebbene sia stato tra le più grandi rivoluzioni della pandemia: parliamo con gli altri guardando noi stessi, conversiamo affondando gli occhi nei nostri stessi occhi, distratti dai noi stessi, concentrati in noi stessi. Narciso era solo a specchiarsi in un piccolo lago, non aveva altra scelta che guardarsi e la pagò cara, annegando per amarsi. Noi ci specchiamo lavorando, litigando, scopando, e non siamo mai soli,  l’attrazione narcisista s’irrobustisce perché stare tra gli altri è diventato vederci tra gli altri, in uno schermo affollato che ci reindirizza sempre a noi stessi e non ci fa scomparire mai e ci ricorda sempre di preoccuparci di noi di badare sempre a mantenere la giusta posizione e l’espressione migliore e l’angolatura perfetta, e così anziché farci annegare ci fa naufragare. Nel naufragio, l’altro non è un tronco ma un masso: stargli alla larga è un fatto di sopravvivenza. 

  
Ascoltiamo i colleghi, gli amici, gli affini, i capi, i professori e ci guardiamo ascoltarli in presa diretta. Questo fa di ciascuno di noi un tu, un compagno da accudire, un prossimo da amare: il più vicino, il più caro, il più familiare. L’hashtag che Arisa non manca mai di aggiungere alle lunghe didascalie su Instagram che corredano il suo calendario, lo stesso di tutti, è: #bethelovegeneration. Si fotografa, in casa o in cortile, al suo meglio e al suo peggio, con i collant o i calzettoni, in pigiama o quasi nuda, in maglietta o camicetta, e sotto ogni scatto scrive che ha mangiato un chilo di pane pugliese dopo averlo baciato, che nessuno può tagliare la sua strada, che si ama e si abbraccia e si ringrazia tanto, che l’amore è sempre una questione di immaginazione, come in “Pazza idea” di Patty Pravo, e va bene che stare insieme è bellissimo ma anche immaginare di farlo non è male, per ora può bastare. La generazione dell’amore si dichiara amore ogni giorno, ripete il suo mantra solipsistico senza vederci vanità perché l’amore per sé è posto come ineludibile condizione dell’amore per gli altri e così selfie, autoritratti e autoscatti sono manifesti utili agli altri, che invogliano gli altri a fare altrettanto, a riservarsi un angolo quotidiano di autoerotismo, autoesaltazione, e hanno perso la malizia, la provocazione, l’estroversione: sono il diario di bordo della costruzione di un amore che è autostima, autocontrollo, autopromozione.  

  
“Vale la pena di inseguire il ricordo dell’ex? Forse sì, ma solo quando, nel tragitto, si riesce a fare un incontro inaspettato e, alla fine, più importante e fruttifero: quello con sé stessi”, ha detto lo psicoterapeuta Giordio Nardone a  Repubblica, a proposito dei coach della riconquista, ai quali pare che gli italiani si rivolgano sempre più spesso, per venire istruiti su come riprendersi un amore perduto in dieci mosse – c’è la pandemia, avventurarsi in nuove relazioni è pericoloso, oltre che complicato: meglio rimestare. Uno dei più quotati di questi maestri, Teo Savin, ha detto che la sua strategia generale è semplice e chiara e non prevede punti, tatticismi, schemi parapsicologici, è ispirata all’illuminante raccomandazione che le hostess di volo rivolgono ai passeggeri prima di decollare: in caso di turbolenze, non pensate prima agli altri ma a voi stessi, indossate la vostra mascherina. “Serve un sano egoismo per avere la forza di gestire tutto il resto”. Chiaro? Me first. 

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“Tutto il resto” è la vita, diventata ormai un peso insostenibile, una sequela di traumi incancellabili, un’impresa che richiede un copioso equipaggiamento in difesa e non si pone mai in attacco, né in cammino. Del resto, siamo in una sostanziale, letterale stanzialità. Progrediamo sul posto, camminando sul tapis roulant. Non prendiamo il largo, non facciamo le scale. Fotografiamo, filmiamo, scriviamo: blocchiamo il momento, lo infiocchettiamo con i filtri, ne facciamo una versione tutta nostra, inattaccabile, più o meno verosimile. Che spazio lasciamo all’altro? Chi si accosta a noi non può che essere spettatore, al massimo assistente: se pretende di interagire, intervenire, dividere, condividere, lo percepiamo come intruso, invadente, invasivo, abusivo. E’ da soli che possiamo edificare la nostra vita, che è una carriera, e il nostro amore, che è un’affezione. E’ un processo che non ha niente a che fare con lo spezzare le vene delle mani e il mescolare il sangue col sudore della “Costruzione di un amore” che Fossati affidò naturalmente a Mia Martini, morta d’amore sin da quando era viva: una che s’offriva in pasto al mondo, a chiunque volesse amarla, e che non si tirava indietro davanti alle fauci di nessuno, letali o innocue che fossero, e non solo non pensava a salvarsi per prima, non pensava a salvarsi e basta. In quella canzone, dell’amore si dice che non ripaga dal dolore, anzi: è un altare di sabbia in riva al mare, un paradiso da consumare a ogni piano, un rischio, un pericolo, una perdita di certezze, una consunzione irreversibile. Chi ce lo fa fare? 

 
La trilogia dell’amore, di quello che è diventato (una ritrattazione, una ricusa, un ripensamento di quell’esporsi al vento essendo sabbia) è composta da tre film, molto apprezzati, che hanno definitivamente sancito, e lo hanno fanno con il tono universale e ultimativo di Hollywood, che insieme è peggio. E’ una trilogia involontaria ma perfettamente consequenziale, ordinata, precisa, che in sei anni ha raccontato come amare un altro sia incompatibile con la realizzazione professionale, con il trascorrere del tempo, con la libertà, con la crescita, con i guai, con lo scambio, con la perdita di un figlio, ovverosia con tutte le cose che prima, diciamo fino a un decennio fa (forse due?), ritenevamo che dalla coppia e dall’unione non potessero che trarre vantaggio. Nel 2016, Hollywood ci servì “La La La Land”, ci fece tornare al cinema a vedere un film d’amore, addirittura un musical, del quale aveva tutta la bidimensionale gioiosità, e ci disse che per vivere felici e contenti era necessario starsene alla larga dalle affinità elettive, dalle grandi passioni, dai sentimenti assoluti. Ci disse che il lieto fine non era più al plurale ma al singolare: non vissero felici e contenti, ma visse felice e contento. Nel 2019, “Storia di un matrimonio” di Noah Baumbach ci evitò il cinema e visto quello che aveva intenzione di dirci e il colpo che intendeva assestarci, ci servì tutto su Netflix, comodamente a casa e non per dovere di distanziamento ma per piacere di reclusione (quando ancora era un piacere). “Marriage Story” ci disse che l’amore è un fatto così enorme da essere ingovernabile, come Roma, che è anagramma di amor non proprio a caso, e che la cosa peggiore che può succedere, in un matrimonio, è che i suoi contraenti si amino: finiranno con il detestare il disordine che quel sentimento crea. Diceva Strindberg che non esiste nulla di più brutto di un marito e una moglie che si odiano e incredibilmente, o forse saggiamente, più si odiano, meno si lasciano. E’ quasi una regola: quando si detestano e si schifano, restano insieme. I mariti e le mogli che si amano tantissimo, si lasciano per sfinimento, quando non c’è altro da fare che rassegnarsi al fatto che l’amore non risolve niente, pone tutto in questione, in guerra, e la guerra o hai la stazza per condurla o niente, ti ritiri. Chi di noi ha voglia di guerre? Tutti, diremmo, visto che pur di litigare ci iscriviamo su Twitter con un nome falso rubato a una lapide e una foto vera rubata a un ex compagno di scuola, ma i litigi su Twitter non sono che scappatoie dagli assedi domestici. 

 
Lo strazio di “Marriage Story” sta nel fatto che due adulti belli, ricchi, di successo, che dallo stare insieme non hanno che da guadagnare, non riescono a trovare un incastro, si sgretolano in niente, per niente, hanno ambizioni che non sono in grado di gestire in presenza dell’altro ed è per questo che si dicono addio: sanno che ciascuno rappresenta, per l’altro, una forza distruttrice anziché agglutinante. Lo deducono dalla paura che hanno uno dell’altra e dall’energia inibitrice dei ruoli che ciascuno esercita. Rinunciano con un dolore che è un sollievo, il dolore dell’estrazione dentale, dell’espulsione della spina. 

  
E alla fine arrivano Martha e Sean, e la nostra trilogia si chiude con la loro storia tremenda, il film che Netflix mette tra “gli strappalacrime”, “Pieces of a Woman”, e Natalia Apesi si chiede come sia più giusto tradurre, se pezzi di donna o donna a pezzi, perché forse va bene in tutti e due i modi. Un coppia interclassista, giovane, alle prime armi, urbana ma provinciale, diciamo metroprovinciale, tira a campare dignitosamente, è dedita a una vita tranquilla, normale, quieta e calda, decide di fare un bambino, e però lo perde pochi secondi dopo che è nato. La mamma e il papà, ragazzo e ragazza, vedono questo corpo minuscolo e bellissimo diventare blu appena dopo averlo abbracciato, salutato, averlo sentito piangere, prima d’aver avuto il tempo di dargli il benvenuto. E vanno in pezzi. Subito. E separatamente. Lui dà la colpa a lei, che ha insistito per fare un parto in casa, e lei dà la colpa a lui, che è un inadeguato rozzo costruttore di pontili: e anche le recriminazioni le fanno separatamente, dentro di loro, senza parlarsi mai, rifiutandosi in continuazione, incapaci di perdonarsi, di sentirsi, sentendosi ciascuno protagonista assoluto di una tragedia assoluta, incalcolabile, perenne. Si avvicinano soltanto una volta: quando lui mette le mani addosso a lei, la costringe a fare sesso e non si accorge che lei non ce la fa, è stremata, triste, assente, vuota. In nessun momento, mai, dalla morte del bambino in poi, si prendono per mano, si guardano, si avvicinano, si confortano: e tu che hai la loro età, in fondo, lo capisci, lo sai, lo ammetti che se capitasse anche a te, forse, ti comporteresti con la stessa ottusità, la stessa tragicità, lo stesso buio nella mente, la medesima presunzione, perché sai che l’empatia, l’inclusività, la positività te le hanno inculcate per fare del bene al tuo ego e non a chi ti sta intorno, che è un’alterità che ti sta bene fintanto che ti è alleata e tutto fila liscio. Questo è il film della nostra fragilità che è una supponenza, una pretesa, una benda sugli occhi, un dolore egoriferito. Questo è il film che dice come siamo diventati incapaci di compatire, come siamo migliori se siamo soli e peggiori se siamo in coppia (sarà dopo la separazione che Martha si convincerà ad assolvere l’ostetrica dalle accuse, facendo la sola cosa che le permetterà di andare avanti: perdonare, perdonarsi). Dice che i macigni li sappiamo portare per conto nostro, dice che soffriamo con egoismo, forse anche per egoismo, dice che abbiamo un cuore impunemente imperialista.

  

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Sean piange la figlia che desiderava per fare il padre ma pure per riscattarsi: “Come un potere, come il legame indissolubile per risanare le differenze”, ha scritto Natalia Aspesi. Sean è un manovale, lei l’erede di una ricca famiglia di ebrei ungheresi. Si lasciano senza dirsi nient’altro che un paio di insulti dopo una notte brava, lui fa le valigie perché la madre di lei lo paga per sparire per sempre e lei lo accompagna alla stazione, fuori nevica, c’è Boston che sembra in lockdown e invece è solamente Boston, non si dicono ciao, addio, grazie, scrivimi, per qualsiasi cosa sono qui. Lui scende dalla macchina e non dice niente, si toglie il cappello, lo lancia sul cruscotto e chiude la portiera. Lei lo guarda, respira, torna a casa, stacca le foto dal frigo, lava i piatti sporchi, dà l’acqua alle piante, è sollevata. Da sola ce la farà. Con lui non ce l’avrebbe fatta. Con gli altri non ce la facciamo. Gli altri sono un peso in più, hanno il loro universo corazzato, pronto a dar battaglia a chiunque si avvicini, per tendere una mano o per averne una. Gli esercizi di empatia non sono che chiacchiere e yoga: di sentire con gli altri, per gli altri, insieme agli altri non siamo né capaci, né desiderosi. Chi ci ama ci guardi come noi ci guardiamo, altrimenti se ne stia a casa sua, con i suoi problemi. In “Alexis” di Marguerite Yourcenar, un marito lascia sua moglie perché le confessa di essere gay e lo fa scrivendole una lettera splendida, addolorata, per certi versi anche brutale. Le dice a un certo punto: “Si rispetta il dolore perché non è volontario”. Né Martha né Sean provano quel rispetto: nel dolore dell’altro vedono un’ammissione di colpevolezza ed è per questo che si abbandonano. Lui non porta la croce di lei e lei non porta la croce di lui perché nessuno dei due ritiene l’altro degno di quella condivisione. Nel loro naufragio, ciascuno è per l’altro il masso dal quale tenersi alla larga per tornare a riva, vivere, ricominciare.
Ogni felicità è un’innocenza, scrive Yourcenar. 

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Per noi, forse, ogni felicità è una solitudine. 

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