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Dalla pandemia è tutto, a voi Pavlov

Claudio Cerasa

Che differenza c’è tra una tv che crea rancore e una che lo combatte? Giletti, le file per i vaccini e il nuovo algoritmo dell’indignazione futura: #vaccinopoli. Indagine sul paese immaginario raccontato dal piccolo ceto medio riflessivo protestatario urbano

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Massimo Giletti, una delle punte di diamante de La7 di Urbano Cairo e di Andrea Salerno, avrà pure molti difetti, come spesso raccontiamo su questo giornale, e avrà pure molti limiti, come spesso raccontiamo su queste pagine. Ma ha senz’altro un grande pregio che gli va riconosciuto con onestà intellettuale. Oltre a essere forse il più scomodo tra i giornalisti mondiali, il merito è quello di essere, all’interno del sistema mediatico italiano e forse mondiale, una spia fondamentale per intercettare anzitempo le nuove frontiere seguite dall’algoritmo dell’indignazione. Guardi Giletti, guardi i suoi servizi, guardi i suoi ospiti (magnifica la sintonia raggiunta con il condirettore in aspettativa da Repubblica oggi senatore ex renziano del Gruppo misto Tommaso Cerno, amabilmente ribattezzato da Maurizio Crippa “Cerno La Qualunque”, altro coltissimo ingranaggio dell’algoritmo dell’indignazione) e in un lampo ti si accendono mille lampadine e capisci, persino con più efficacia di un sondaggio sulla piattaforma Rousseau o di un instant poll sui canali della Bestia, dove andrà a concentrare i suoi sforzi il piccolo ceto medio riflessivo protestatario urbano che da settimane, sempre con grande scomodità, cerca di soffiare sul fuoco delle polemiche farlocche. E per capire la direzione dell’indignazione, indignazione che per coerenza con se stesso Giletti tenta ogni domenica sera di alimentare più che di sedare, è sufficiente partire da un simpatico hashtag, si fa per dire, rilanciato domenica sera, nel corso della sua trasmissione, in sovrimpressione, sui social, nei servizi, in studio: #vaccinopoli.

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Massimo Giletti, una delle punte di diamante de La7 di Urbano Cairo e di Andrea Salerno, avrà pure molti difetti, come spesso raccontiamo su questo giornale, e avrà pure molti limiti, come spesso raccontiamo su queste pagine. Ma ha senz’altro un grande pregio che gli va riconosciuto con onestà intellettuale. Oltre a essere forse il più scomodo tra i giornalisti mondiali, il merito è quello di essere, all’interno del sistema mediatico italiano e forse mondiale, una spia fondamentale per intercettare anzitempo le nuove frontiere seguite dall’algoritmo dell’indignazione. Guardi Giletti, guardi i suoi servizi, guardi i suoi ospiti (magnifica la sintonia raggiunta con il condirettore in aspettativa da Repubblica oggi senatore ex renziano del Gruppo misto Tommaso Cerno, amabilmente ribattezzato da Maurizio Crippa “Cerno La Qualunque”, altro coltissimo ingranaggio dell’algoritmo dell’indignazione) e in un lampo ti si accendono mille lampadine e capisci, persino con più efficacia di un sondaggio sulla piattaforma Rousseau o di un instant poll sui canali della Bestia, dove andrà a concentrare i suoi sforzi il piccolo ceto medio riflessivo protestatario urbano che da settimane, sempre con grande scomodità, cerca di soffiare sul fuoco delle polemiche farlocche. E per capire la direzione dell’indignazione, indignazione che per coerenza con se stesso Giletti tenta ogni domenica sera di alimentare più che di sedare, è sufficiente partire da un simpatico hashtag, si fa per dire, rilanciato domenica sera, nel corso della sua trasmissione, in sovrimpressione, sui social, nei servizi, in studio: #vaccinopoli.

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In Italia, solitamente, quando un qualche protagonista del circo mediatico sceglie di aggiungere il suffisso “poli” a una parola si capisce subito che il dibattito su un determinato tema sta per prendere una direzione precisa (dove per precisa sta per “buttarla in vacca”), molto lontano cioè dalla ricerca dei fatti e molto vicina invece alla ricerca pruriginosa di una qualche ragione per poter offrire al pubblico un qualche motivo per essere sopraffatto da un sentimento a metà tra lo sdegno e la collera. Giletti, e anche questo è un suo merito oggettivo, non tenta di essere il portavoce di un partito o di un’idea politica specifica (è scomodo d’altronde) ma tenta, come è nella tradizione della tv dell’indignazione, di essere la voce libera dell’incazzatura del paese e di essere all’occorrenza (cioè, sempre) una voce che non si limita a registrare l’incazzatura, ma che crea ragioni per incazzarsi anche quando le ragioni per incazzarsi non ci sarebbero.

 

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Esempi rapidi e non esaustivi. C’è una regione che da mesi è quella che registra il numero più alto di contagiati e di morti in Italia e la colpa ovviamente è al cento per cento di chi amministra quella regione e non di una pandemia che colpisce con più forza le aree più popolose, più anziane e più interconnesse con il mondo (non basta la mediocrità di Gallera per spiegare i problemi della Lombardia). C’è un governatore di una regione che in passato si è contraddistinta per le sue pulsioni No vax che facendo quello che fanno i politici di mezzo mondo (da Biden a Netanyahu) sceglie di vaccinarsi in pubblico per dare il buon esempio ai suoi cittadini e quel governatore ovviamente non è un esempio da incoraggiare ma è semplicemente un cialtrone, un poco di buono, uno della casta, un privilegiato che altro non vuole fare se non rubare fiale preziose agli operatori sanitari. C’è una regione dove si formano file lunghissime di operatori sanitari, come succede più o meno in ogni parte del mondo, desiderosi di ricevere al più presto il vaccino e quelle file diventano subito il simbolo di un paese che non funziona, di un sistema che non regge, di un’apocalisse imminente, di uno stato corrotto, di una nazione infetta dove non è da escludere che vi sia un qualche responsabile sanitario che ha girato a qualche amico degli amici i vaccini che servivano agli ospedali. C’è un paese che sta vaccinando i propri cittadini a una velocità di crociera maggiore rispetto ad altri paesi europei ma nonostante questo piuttosto che interrogarsi su cosa stia funzionando (e su cosa potrebbe funzionare meglio: vedi la scuola) si cerca di spiegare perché non c’è altro paese al mondo che non abbia fatto meglio del nostro paese in questa pandemia (non si capisce perché “Non è l’Arena” non sia in diretta da Londra). C’è un paese che cerca di offrire ai cittadini regole flessibili per evitare di dover ricorrere a un lockdown generale e il piccolo ceto medio riflessivo protestatario urbano piuttosto che comprendere che l’alternativa alle regole imperfette sono le perfette regole del lockdown, perché non poter fare nulla è più semplice che dover capire cosa si può fare e cosa no, aggiunge indignazione a indignazione, proteste a proteste, incazzatura a incazzatura. Durante una pandemia, è ovvio, essere esasperati è una condizione quasi naturale del nostro spirito ed essere arrabbiati è una condizione quasi inevitabile della nostra esistenza.

  

Ma di fronte a un malessere fisiologico che attraversa le nostre vite, i professionisti dell’informazione hanno due strade: informare il paese senza invitare i cittadini a travestirsi da vichinghi e senza seguire il modello del cane di Pavlov (ovvero individuare un tema e fare di tutto per stimolare nel pubblico la bava dell’indignazione) oppure informare provando a contenere l’indignazione facile (vaccinopoli, ma che davvero?), occupandosi cioè di porre problemi veri (la scuola) e non problemi farlocchi (i paesi che non hanno file per le vaccinazioni di solito sono quelli che non vaccinano molto) tenendo conto poi che durante una pandemia solo i professionisti del rancore possono pensare che esistano sistemi perfetti (chiedere ad Angela Merkel) e che solo i giornalisti circensi (che intendono i propri programmi più come show che come talk) possono pensare che esistano risposte semplici a problemi complessi.

   

Ci sono molte ragioni per criticare Massimo Giletti, e noi riconosciamo che lo facciamo spesso, ma per una volta Giletti merita di essere sinceramente elogiato: il suo provvidenziale #vaccinopoli ha permesso di ricordare a noi tutti che differenza c’è tra chi fa informazione per creare rancore e chi fa informazione per combattere il rancore. Dalla pandemia è tutto, a voi Pavlov.

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