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il foglio del weekend

Se dico fragile

Fabiana Giacomotti

Nessuno più è debole, perché quella parola evoca il fallimento. Nel lessico post pandemia siamo tutti da maneggiare con cura

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Ea un certo punto siamo diventati tutti fragili. Giovani, vecchi, malati e sani, lavoratori in smart working, lavoratori in presenza, lavoratori senza lavoro. Tutti pronti sempre a spezzarci come un calice di cristallo, come lui preziosissimi e facili prede degli accidenti del destino. Non sappiamo esattamente quando sia successo che ci si sia trasformati in oggetti frangibili, ci verrebbe da dire con l’insorgenza della pandemia; probabilmente, però, è accaduto prima del lockdown di marzo, perché facendo un po’ di ricerca abbiamo scoperto che fra psicologi e terapeuti la nozione di fragilità come fenomeno sociale del Terzo Millennio circolava già da qualche anno e andava ampliandosi ben oltre le categorie che fino a poche stagioni fa venivano definite “a rischio”. Comunque sia, buona parte di noi si è accorta di essere diventata fragile solo durante il 2020, l’annus di gratia parvula che è stato salutato  da molti con l’immagine ipersessista di un fragile calice di champagne infilato fra due natiche femminili (ce ne ha inviato uno via whatsapp perfino una collega ufficialmente cattolicissima, non credevamo ai nostri occhi). Dalla scorsa primavera abbiamo insomma ufficialmente mutato condizione. Non siamo più deboli, più o meno poveri, nemmeno depressi o tantomeno disoccupati, per non dire malati o, Dio ne scampi, vecchi: siamo solo fragili

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Ea un certo punto siamo diventati tutti fragili. Giovani, vecchi, malati e sani, lavoratori in smart working, lavoratori in presenza, lavoratori senza lavoro. Tutti pronti sempre a spezzarci come un calice di cristallo, come lui preziosissimi e facili prede degli accidenti del destino. Non sappiamo esattamente quando sia successo che ci si sia trasformati in oggetti frangibili, ci verrebbe da dire con l’insorgenza della pandemia; probabilmente, però, è accaduto prima del lockdown di marzo, perché facendo un po’ di ricerca abbiamo scoperto che fra psicologi e terapeuti la nozione di fragilità come fenomeno sociale del Terzo Millennio circolava già da qualche anno e andava ampliandosi ben oltre le categorie che fino a poche stagioni fa venivano definite “a rischio”. Comunque sia, buona parte di noi si è accorta di essere diventata fragile solo durante il 2020, l’annus di gratia parvula che è stato salutato  da molti con l’immagine ipersessista di un fragile calice di champagne infilato fra due natiche femminili (ce ne ha inviato uno via whatsapp perfino una collega ufficialmente cattolicissima, non credevamo ai nostri occhi). Dalla scorsa primavera abbiamo insomma ufficialmente mutato condizione. Non siamo più deboli, più o meno poveri, nemmeno depressi o tantomeno disoccupati, per non dire malati o, Dio ne scampi, vecchi: siamo solo fragili

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La fragilità, corollario semantico degli stati di crisi, è la nuova condizione esistenziale nell’era del Covid e – immaginiamo – delle future pandemie, che tutti i virologi e la stessa Oms ci agitano davanti di continuo come frati trappisti, memento mori. Probabilmente ci sta bene così, ed è comprensibile: la fragilità è nozione delicata, preziosa, sostanzialmente molto positiva. Fragile è un vaso di porcellana, un bicchiere di vetro di Murano nel negozio di lusso sotto i portici di piazza san Marco, oppure il cuore di cristallo delle principesse della favola che si rompeva con un crac e loro morivano senza un lamento, cadendo a terra esanimi con grazia in un turbinio di gale e volant. Fragili sono le foglie, nuove o secche, a cui millenni di poesia hanno associato la caducità umana, da Omero a Ungaretti “di che reggimento siete / fratelli? Parola tremante nella notte / foglia appena nata / Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente / alla sua fragilità / fratelli”. Foglia. Fragilità. Fratelli. F, la consonante del soffio vitale, del vento, dell’aria fresca, della leggerezza. La fragilità evoca immagini leggere, eteree: volete mettere con l’orrore gravitazionale, materico e pesante della ruga d’espressione, con l’acciacco dell’età, con l’imbarazzo della mancanza di lavoro; questo soprattutto, che intere generazioni sono state educate a superare con la forza di volontà, facendo affidamento sulle proverbiali “sole proprie forze”, e abbinandovi il senso di colpa per ogni fallimento?

   

Per i Baby boomer e per noi Generazione X, con il cinismo di cui ci hanno sempre accusati e forse con qualche ragione, la fragilità era, ed è tuttora, un non dato, al punto che tutta questa frangibilità sbandierata ovunque, citata nei Dpcm, evocata dal presidente Sergio Mattarella nel discorso di fine anno, indicata da Papa Francesco all’Angelus, un po’ ci imbarazza perché ci pare una concessione, ennesima e particolarmente insidiosa, al lessico politicamente corretto, cioè volgarmente ipocrita. Un modo, insomma, per non offendere i tanti di noi caduti vittime a diverso titolo della pandemia; da parte della compagine di governo, poi, ci pare un mezzo a buon mercato per mostrarsi compassionevole (i congiunti, i fragili) nei confronti di un elettorato che le rimprovera sordamente, cupamente, le molte mancanze e i molti non detti nella gestione dell’emergenza. Fragili di ogni ordine e grado, in fila a scalare e in attesa di tutto: vaccini, permessi per uscire e spostarsi, denari.

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Una nuova categoria omnicomprensiva, globale e trasversale; una razza delicata, cagionevole e dunque meritevole non di aiuti di stato, bensì di “ristori”, e chi non capisce bene si informi. Scorrendo siti e account social si scopre che i sindacati sono al lavoro da tempo sulla semantica, perché non tutti hanno ben chiaro se il grado della propria frangibilità sia sufficiente a garantire loro il ristoro, o l’esenzione da qualche balzello: “Scusate vorrei capire, che cosa significa essere lavoratori fragili?”, domanda uno. “Che sono malato o che rischio di perdere il lavoro?”. E un’azienda, filosofeggiano sornioni, può essere fragile anche lei perché è fatta di uomini oppure no perché è costruita in cemento armato? Ed ecco che, come per i congiunti, termine vago, poetico, interpretabile, correttissimo perché mai offensivo o discriminante, perché congiunti sono tutti quelli a cui ci va di aprire la porta e talvolta anche sollevare le lenzuola, il sito sindacale rimette mano al dizionario, abbranca i Dpcm, si avventura nella spiega: “Lavoratori fragili sono coloro che, per intenderci, in caso di positività al virus Sars-CoV-2 rischiano gravi ripercussioni alla salute se non addirittura la morte”. Per intenderci, e chi non intenda in roulotte, come diceva una battuta delle nostre scuole primarie. E i cardiopatici che l’hanno sfangata? E i (pur pochi) ragazzoni sani che invece ci sono rimasti secchi? Dove inizia la fragilità? Boh. Il lessico innanzitutto. Quest’anno ci ha “battered round”, come cantava Bob Dylan negli anni dei Travelling Wilburys, ci ha provati, dunque è giusto che si venga trattati con cura anche nelle parole che ci vengono rivolte. Handle me with care, cioè non offendetemi. E la cortesia, i signori insegnano, è anche questione di linguaggio. 

   
Dunque, nessuno è debole. La debolezza evoca mollezze, torpidità, scarsa fiducia in se stessi, addirittura stupidità nella sua etimologia, cioè mancanza di qualcosa (in francese, un débile è un idiota), insomma per gli standard attuali di considerazione della razza umana, la debolezza è un’offesa, anzi una non-nozione. Non esiste, semplicemente. Ma quando si arriva al punto di dover definire categorie svantaggiate, gente che a diverso titolo “non ce la fa”, ecco che bisogna trovare una definizione comune, che accontenti e comprenda tutti, o anche nessuno purché non offenda. E dunque, rieccoci al punto di partenza. A questa fragilità che all’improvviso ci riguarda tutti. Non che non l’avessimo mai incontrata nella nostra vita e nella nostra carriera; ma, cresciuti come eravamo nel mito dell’efficienza e del risultato, per noi equivaleva ai moniti mistici di Simone Weil che, però, scriveva in anni di contingenze drammatiche e che a noi sembravano già lontanissime e superate per sempre: “Come il vetro, l’essere umano è fragile. L’estrema nostra esposizione alla precarietà e contingenza dell’esistenza è evidente nell’evento stesso del nascere, ma è importante riconoscere e mostrare come nella fragilità stia la forza intrinseca della natura umana”.

 

Di fragilità e rimpianto dei rari momenti di felicità concessi all’uomo aveva scritto anche Emily Dickinson in una di quelle sue liriche famosissime che, per via della sua improvvisa fama popolare fra gli anni Sessanta e i Settanta del Novecento, le avevano garantito uno spazietto nelle antologie liceali, privilegio di certo concesso a poche scrittrice e poetesse nella storia e potremmo andare avanti a lungo, ma diciamo che per molti della nostra generazione, la fragilità equivaleva alla dicitura stampigliata sulle casse di vini pregiati o al titolo di una canzone di Sting atta a farci crogiolare nell’autocommiserazione nei rari momenti di sconforto fra una battaglia e l’altra per l’affermazione personale; insomma, un aiutino per sentirci parte di quell’armonia cosmica di cui, siamo onesti, non ci è mai fregato nulla se non perché in suo nome abbiamo potuto accendere costosissime candele profumate in giro per casa e praticare con costanza la tecnica dei Cinque Tibetani che mantiene la centratura sul sé, modello Brunello Cucinelli che la pratica dichiaratamente ogni mattina da decenni e in effetti sembra aver fermato il tempo. “How fragile we are”, non dimentichiamo quanto siamo fragili: un bel pensiero per prendere fiato prima di assestare un’altra cornata al fato eventualmente avverso, provarci sempre e non mollare mai.

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Eravamo in tanti a pensarla così, anche sui cosiddetti media-che-sono-il-messaggio. Inserite l’indicizzazione del termine “fragilità” sugli archivi dei grandi quotidiani nazionali e, ben che vi vada, fino a tutto il 2014 almeno finirete per consultare articoli delle pagine culturali, più raramente di quelle dedicate alle scienze e alle arti applicate. Qualcosa ha iniziato a muoversi attorno al 2016, con la pubblicazione dell’“Arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”, agile saggio di Alessandro d’Avenia, il professore giovane e bello e biondo come Vincenzo Bellini, suo conterraneo, che ha fatto del recluso di Recanati una star del pop, portandone l’epistemologia perfino a teatro, a uso dei tanti e delle tante per le quali la commozione equivale a una brand experience. Operazione comunque meritevole, considerando la scarsa simpatia di cui godeva fino a quel momento Leopardi, uomo di condizione fisica che definiremmo senza esitazioni fragile, a cui si sono aggiunte nel 2019 le celebrazioni per il bicentenario della composizione dell’Infinito, massima ode alla fragile e caduca grandiosità della condizione umana. 

 
Quando è arrivato il momento di definire il nostro stato con il primo lockdown eravamo, insomma, pronti e preparati. Quanto lo fossimo, è evidente dallo sfoglio di Repubblica di oggi, nel momento in cui stiamo scrivendo: diciassette diversi gradi di fragilità, equamente distribuiti fra la cronaca politica, la bianca, la rosa, per non dire gli spettacoli e lo sport. E’ legittimo e privo di sanzioni sentirsi frangibili e facili alla commozione: ha quasi pianto perfino l’astrologo di riferimento nazionale Paolo Fox, voce imprescindibile nei bilanci della Cairo editore, quando a “Domenica In” gli è stato ricordato che a gennaio 2020 avesse previsto gran viaggi e spostamenti per un buon numero di segni zodiacali e non avesse nemmeno avuto il sospetto della catastrofe incombente, anzi, a quanto si è saputo successivamente già ben diffusa in tutto il nord Italia. E’ stato un momento di altissima televisione, a cui ha fatto seguito la consueta, millenaria polemica sulla fragilità delle scienze astrologiche e delle abilità divinatorie degli aruspici, con modernissimo corredo di insulti via social: l’opposizione delle lacrime allo shit storm dev’essere una nuova forma di fragilità, non ancora sufficientemente analizzata o messa in pratica perché se ne possa trarre un’indicazione attendibile. 

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Ben altrimenti funziona in medicina e in geriatria. Per i frequentatori di Academia.edu, la piattaforma di scambio di saperi, saggi e dissertazioni fra docenti e studenti, la “fragilità degli anziani” è stata di recente oggetto di uno studio molto interessante che, partendo “dal principio sociologico secondo il quale le categorie medicali e sanitarie devono essere intese come costruzioni sociali e non come fenomeni naturali ed evidenti” ha analizzato i momenti in cui, nel corso degli ultimi anni, cioè con l’aumento delle aspettative di vita, sono stati spostati i confini della malattia, ampliando a dismisura il concetto di salute, sanità e della sua gestione in nove paesi europei, con conseguenti valutazioni su spesa pubblica e diritto alla cura.

  

Allo scoppio dell’emergenza Covid, a dati del ministero della Salute, in Italia vivevano oltre quattordici milioni di persone affette da una patologia cronica, di cui 8,4 milioni ultra sessantacinquenni. Per loro, e per i venti, venticinque anni di media di vita che li aspetta purché non manchino di cure e di assistenza, la fragilità è un concetto ben più ampio, diremmo ontologico: “Non mi sentirei mai di dire a un figlio che la madre anziana è malandata e a rischio di morte. Gli dico che è fragile”, lancia mio genero, neurochirurgo, in visita per l’anno nuovo, mentre scende per colazione e si informa su che cosa stia scrivendo. Rilancio, chiedendogli se avesse mai trovato questa stessa nozione, in questi stessi termini, sui libri di patologia sui quali ha studiato. Ci pensa un attimo, gli pare di no. La fragilità è un’annessione recente ai territori dell’umano. Negli Stati Uniti, quindici anni fa, il think tank Fund for Peace aveva lanciato il “Failed States Index”, indicatore geopolitico ed economico di stabilità, coesione sociale e dunque in ultima analisi di solvibilità. Dal 2019 ha cambiato titolo: “The Fragile State Index”.
 

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