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ALLA FINE DEGLI ANNI SETTANTA

I “libertini” drogati di Tondelli, così diversi ma così vicini a Muccioli

Simonetta Sciandivasci

Lo scrittore di Correggio ama e racconta il sogno disperato di ragazzi che sono il suo tempo, al di là di bene e male. Selvaggio tra selvaggi come forse, dalla parte opposta, è stato anche il fondatore di San Patrignano

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Quando Pier Vittorio Tondelli pubblica Altri libertini è il 1980, ha venticinque anni e soltanto un decennio ancora da vivere – morirà di Aids il 16 dicembre del 1991, di notte, a Correggio, a casa dei suoi genitori, avendoceli di fianco. E’ il suo primo romanzo, un successo strepitoso: tre ristampe una dietro l’altra, quasi non c’è ventenne che non lo legga, perché non c’è ventenne di quegli anni che Tondelli non abbia raccontato o toccato, forse non c’è ventenne italiano che negli anni Ottanta non sia stato o almeno non abbia provato a essere un altro libertino, un provinciale che scopre la luna, un freak, un militante dimissionario, una checchina, un onnisessuale, un acrobata, uno pronto a bucarsi per non invecchiare, per vivere tutte le vite. Questi altri libertini hanno meno di venticinque anni, vivono tra Rimini, Reggio Emilia, Parma, Bologna, le campagne e i paesini lì intorno. Vivono drogandosi, spacciando, sentendosi in diritto di sentirsi leggeri. Vogliono di più. Vogliono vivere, stravivere. Hanno la medesima irruenza e forza vitale dittatoriale dell’uomo che, in quegli stessi anni, fonda una comunità per salvare quelli di loro che dall’eroina vengono quasi ammazzati. Vincenzo Muccioli, il padre padrone di San Patrignano, toglie la droga dalla vita dei ragazzi nello stesso modo assoluto, violento, (a)morale in cui i ragazzi ce la mettono, e con lo stesso scopo: ritrovarsi, vivere, sentire. Gli altri libertini si fanno, e anzi si sbattono, non per scomparire ma per sfamarsi, saziarsi, rifiutare tanto l’impegno della rivoluzione quanto l’obbligo dell’accettazione. L’eroina arriva in Italia negli Anni di piombo e del riflusso che ne consegue e diventa immediatamente un sogno, ma anche l’incubo di un nemico che vince, e un orizzonte, perfino un linguaggio, una parola chiave: una nuova normalità, una nuova vita. Dal 1970 al 1975 si diffonde soprattutto tra drogati ex anfetaminici, freak, sottoproletari, vagabondi, disperati. Nella primavera del ’75, però, i nuovi eroinomani sono già migliaia e sono giovani qualunque, che non hanno alcuna ragione per bucarsi se non la giovinezza.

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Quando Pier Vittorio Tondelli pubblica Altri libertini è il 1980, ha venticinque anni e soltanto un decennio ancora da vivere – morirà di Aids il 16 dicembre del 1991, di notte, a Correggio, a casa dei suoi genitori, avendoceli di fianco. E’ il suo primo romanzo, un successo strepitoso: tre ristampe una dietro l’altra, quasi non c’è ventenne che non lo legga, perché non c’è ventenne di quegli anni che Tondelli non abbia raccontato o toccato, forse non c’è ventenne italiano che negli anni Ottanta non sia stato o almeno non abbia provato a essere un altro libertino, un provinciale che scopre la luna, un freak, un militante dimissionario, una checchina, un onnisessuale, un acrobata, uno pronto a bucarsi per non invecchiare, per vivere tutte le vite. Questi altri libertini hanno meno di venticinque anni, vivono tra Rimini, Reggio Emilia, Parma, Bologna, le campagne e i paesini lì intorno. Vivono drogandosi, spacciando, sentendosi in diritto di sentirsi leggeri. Vogliono di più. Vogliono vivere, stravivere. Hanno la medesima irruenza e forza vitale dittatoriale dell’uomo che, in quegli stessi anni, fonda una comunità per salvare quelli di loro che dall’eroina vengono quasi ammazzati. Vincenzo Muccioli, il padre padrone di San Patrignano, toglie la droga dalla vita dei ragazzi nello stesso modo assoluto, violento, (a)morale in cui i ragazzi ce la mettono, e con lo stesso scopo: ritrovarsi, vivere, sentire. Gli altri libertini si fanno, e anzi si sbattono, non per scomparire ma per sfamarsi, saziarsi, rifiutare tanto l’impegno della rivoluzione quanto l’obbligo dell’accettazione. L’eroina arriva in Italia negli Anni di piombo e del riflusso che ne consegue e diventa immediatamente un sogno, ma anche l’incubo di un nemico che vince, e un orizzonte, perfino un linguaggio, una parola chiave: una nuova normalità, una nuova vita. Dal 1970 al 1975 si diffonde soprattutto tra drogati ex anfetaminici, freak, sottoproletari, vagabondi, disperati. Nella primavera del ’75, però, i nuovi eroinomani sono già migliaia e sono giovani qualunque, che non hanno alcuna ragione per bucarsi se non la giovinezza.

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In Tondelli ci sono i terroni, le puttane, le checche, i balordi, i borghesi, le lesbiche, i transessuali che s’avvelenano il sangue per amore della vita “che è davvero vita cioè una porcheria”, s’ammazzano per godere, e bucandosi s’affratellano, e innamorano, e accolgono, e divorano. “Ridacchio e dico a Ruby mi fai morire, però lo dico come dicessi mi fai godere”. Nessuno bada a loro come l’eroina. Nessuno bada a loro e basta. Sono la prima generazione abbandonata, dopo molte generazioni perdute. Cercano la festa. Sempre. Tondelli ama e racconta il sogno disperato di ragazzi che sono il suo tempo, e spera che il loro folle volo non sia uno schianto, li ritrae senza il bene e senza il male, senza la colpa e senza la vergogna. Fa di loro ciò che in loro vede: una ricerca di ridefinizione ed esaltazione dell’umano e, insieme, la sbornia di chi s’appresta a vivere l’ultima notte del mondo. Nel primo capitolo (o racconto, non è importante: Tondelli è stato fluid prima del fluid, in lui tutto ha sconfinato e tutto s’è mescolato, dal sesso alla struttura narrativa) compare a un certo punto una ragazza, Vanina, che ha vent’anni ma gliene daresti cinquanta, che una notte viene drogata e violentata da un branco di suoi coetanei, in un fossato, e la mattina dopo “è ancora lì a gambe aperte e ride e dice di lasciarla nel fossetto che sta bene e fino a Natale se ne resta a San Lazzaro e continua a chiedere a tutti di portarla in campagna, in quel fossetto che c’ho lasciato le mutandine mie”. E’ una scena difficile ma tutt’altro che insopportabile, e Tondelli ne fa un racconto caldo di vertigine, e fame, e desiderio. In Oppio, Jean Cocteau ha scritto che è importante parlare della droga senza imbarazzo, senza letteratura, senza una specifica conoscenza medica: “Bisogna affrontare l’argomento come animali selvaggi”. Tondelli questo ha fatto e così ha amato, da selvaggio tra selvaggi. Muccioli, dalla parte opposta, forse, anche.

 

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