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L’homo covidus

Simonetta Sciandivasci

Anatomia dell’uomo forgiato da un anno di lockdown. Nasce e muore solo, provvede da sé e per sé, viaggia attraverso il computer, si distanzia più che avvicinarsi. Il miraggio del ritorno alle origini

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Domani torneremo all’inizio, il più grande ieri di tutti gli ieri. Come nelle rivoluzioni, in “2001: Odissea nello spazio”, nei rimpianti, nei propositi, nelle liste, in “Memorie dal sottosuolo”. Come quando quasi si muore. Oh let’s go back to the start, canta Chris Martin in “The Scientist”, la canzone che scrisse una notte di diciotto anni fa, a Liverpool: aveva finito il secondo disco dei Coldplay, “A Rush of Blood to the head”, ma avvertiva che qualcosa mancava, e allora s’era messo al pianoforte, e riascoltando “All Thing must pass”, il primo disco da solista di George Harrison dopo la fine dei Beatles, aveva provato a suonarne un pezzo, “Isn’t a pity”, con risultati modesti per non dire schifosi. Dalle registrazioni di quei tentativi, però, tirò fuori “The Scientist”, la canzone su come si fa il futuro andando a ritroso, una delle più belle dei Coldplay, degli anni Zero, del pop. Una canzone del 2002 che, senza saperlo, parlava del 2020, ne descriveva le abitudini: running in circles, coming up tails; heads on a science apart; pulling the puzzles apart. Tanto Martin quanto Harrison volevano indietro un grande amore perduto per cominciare a vivere. Entrambi parlavano di tornare a un intero che s’era diviso in parti infelici, destinate a mancarsi come le due metà in cui Zeus divise gli ermafroditi, o come le coppie di contrari che a un certo punto presero a separarsi dall’Apeiron, che secondo il filosofo Anassimadro era la materia del mondo, il suo inizio.

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Domani torneremo all’inizio, il più grande ieri di tutti gli ieri. Come nelle rivoluzioni, in “2001: Odissea nello spazio”, nei rimpianti, nei propositi, nelle liste, in “Memorie dal sottosuolo”. Come quando quasi si muore. Oh let’s go back to the start, canta Chris Martin in “The Scientist”, la canzone che scrisse una notte di diciotto anni fa, a Liverpool: aveva finito il secondo disco dei Coldplay, “A Rush of Blood to the head”, ma avvertiva che qualcosa mancava, e allora s’era messo al pianoforte, e riascoltando “All Thing must pass”, il primo disco da solista di George Harrison dopo la fine dei Beatles, aveva provato a suonarne un pezzo, “Isn’t a pity”, con risultati modesti per non dire schifosi. Dalle registrazioni di quei tentativi, però, tirò fuori “The Scientist”, la canzone su come si fa il futuro andando a ritroso, una delle più belle dei Coldplay, degli anni Zero, del pop. Una canzone del 2002 che, senza saperlo, parlava del 2020, ne descriveva le abitudini: running in circles, coming up tails; heads on a science apart; pulling the puzzles apart. Tanto Martin quanto Harrison volevano indietro un grande amore perduto per cominciare a vivere. Entrambi parlavano di tornare a un intero che s’era diviso in parti infelici, destinate a mancarsi come le due metà in cui Zeus divise gli ermafroditi, o come le coppie di contrari che a un certo punto presero a separarsi dall’Apeiron, che secondo il filosofo Anassimadro era la materia del mondo, il suo inizio.

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Tornare indietro e tornare all’intero sono i due movimenti che l’uomo ha compiuto o cercato di compiere nel salto evolutivo, secondo alcuni persino di specie, che questa pandemia ha rappresentato e rappresenterà. Da homo sapiens sapiens a homo covidus. Il mondo nuovo è arrivato e ha richiesto che ci adattassimo a un corpo invisibile che ci ha risaliti e non assaliti, come se lo portassimo dentro da sempre. Non ci ha circondati, come nelle guerre d’espansione, ed è per questo che per combatterlo anziché unirci abbiamo dovuto dividerci, distanziarci, farci isole, interi di un mondo intero e informe, asserragliato. Dal villaggio globale abbiamo dovuto ritirarci in stanze globali, distanti e connesse. Diversamente da come avevamo immaginato finora, non è allo spazio e ai suoi pianeti che dovremo guardare per ridisegnare il futuro, ma alla terra, questa, e al corpo umano e alla sua relazione con le altre forme di vita, specie le più basilari, le più infime, quelle che non hanno neppure una struttura cellulare: i virus.

 

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Viviamo dentro un’espansione capovolta, nella ritrazione continua e convinta della nostra vita, ci stiamo voltando indietro e mettendoci in cammino ripercorrendo a ritroso, tentiamo di scrivere una nuova canzone, l’ultima di un disco, quella che ne segna il significato, e lo facciamo come Chris Martin: suonandone un’altra scritta da altri prima di noi. Lo sguardo demiurgico non è rivolto all’alto, a un modello perfetto, ideale, ultraterreno e quindi esterno, come in Platone, e nemmeno al basso, al terreno, bensì all’interno, al primigenio, all’origine, al ricordo. Abbiamo festeggiato le grandi ricorrenze fotografando le foto delle feste passate, aggiungendo in didascalia che ce le saremmo andate a riprendere. Siamo tornati a fare il pane. Da individui esaltati per la propria eccezionale unicità, siamo tornati umanità indistinta, intera, una massa d’uomini e donne uguali d’aspetto e condizione: tutti con la mascherina, tutti in pericolo. E quel pericolo è perdere il respiro, che è un movimento di espansione e ritrazione: non serve ad avanzare. I nostri segni sono i numeri.

 

Ogni giorno un grafico che riporta i dati del contagio ci dice come stiamo, ed è tutto lì. Omero, oggi, avrebbe scritto un grafico, uno strumento che prima serviva a capire la storia e adesso è la storia. Lì comincia e finisce l’uomo, in una cartina piena di macchie che assomigliano al Covid-19 visto al microscopio e invece siamo noi che, stilizzati, ci ammaliamo. Siamo in casa, fermi, nessuno viaggia: il solo movimento progressivo è quello del contagio. Un infermiere dell’Ospedale Gemelli di Roma ha raccontato a Rainews24 che, a marzo, quando persino le mascherine ci sembravano una menomazione inaffrontabile, e non avevamo idea di quello che avremmo visto, un paziente ricoverato per Covid, vedendolo entrare nella sua stanza con addosso lo scafandro, s’era convinto che fosse un marziano e gli aveva detto che avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di non essere rapito, per pietà, a casa mi aspettano. Il marziano di questo futuro di rimpicciolimento che ci si dipana davanti è un dottore, un altro essere umano, il primo che vediamo quando veniamo al mondo e l’ultimo che salutiamo quando lo lasciamo.

 

L’homo covidus muore solo. Al suo funerale ci sono quindici persone, non di più. L’homo covidus, soprattutto, nasce solo. Niente papà in mimetica da videoreporter in sala operatoria. E nemmeno agitate e agitanti nonne, o amiche, o colleghe, o sorelle, o zie: la sala parto, come tutte le sale, s’è svuotata del superfluo, in certi casi anche del necessario. Intorno all’uomo che nasce non ce ne sono più altri che fanno festa e rumore. Venire al mondo ha perso il suo verbo. Vivere nove mesi in emergenza ci ha mostrato a quante cose possiamo rinunciare, di quanto possiamo fare a meno, come possiamo e dobbiamo contare solo e soltanto sulle nostre risorse. L’homo covidus è un autarchico, un’isola. Provvede da sé a partorire, nutrirsi, curarsi, tingersi i capelli, fare il pane, fare il sushi, lavare le scale, santificare le feste, celebrare le tappe, godere, ridere, intrattenersi, istruirsi, certificarsi. L’altro è un avatar, non può fargli bene che nella distanza. Torneremo a poterci abbracciare? Certo, ma con quale coraggio, con quale voglia? Non l’avevamo prima della pandemia, quando il contatto era molestia, invasione di una silouhette immaginaria che chiamavamo spazio personale e che gli etologi confermavano essere una dote percettiva presente anche negli animali: perché dovremmo averla dopo nove mesi nei quali abbiamo trasferito il contatto nella connessione? Lo scambio più intimo non avviene in presenza, ma su uno schermo dove ci si scruta, guarda, parla, dove si è uomini per intero, si può fare tutto quello che si faceva dal vivo per strada e che ora è proibito, incluso spogliarsi e darsi piacere, di fatto smaterializzandosi, poiché esse est percipi.

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Il New York Times ha scritto che la frase che abbiamo detto più volte quest’anno è stata: Mi senti? Perché ci siamo telefonati da ogni angolo, dagli scantinati, dai balconi, dalle terrazze, dai bugigattoli, in cerca di privacy, dentro case che usavamo come refettori nei festivi e dormitori nei feriali. Ci siamo chiesti, decine di volte al giorno: mi senti? Mi vedi? Ti arrivo? Come fossimo giudici di X Factor. L’homo covidus, se dotato di famiglia, deve disporre di appartamenti grandi, dove lo spazio degli spazi comuni sia ridotto al minimo, così da devolvere metri quadri a camere separate, dove ciascuno possa lavorare, laurearsi, pregare, fare brainstorming, andare al cinema, a un concerto, a lezione di yoga. Gli appartamenti sono la sola cosa che si allarga, in questo rimpicciolirsi e provincializzarsi di tutto, nel restringersi delle strade, dei percorsi, dei tragitti, nel farsi virtuale dei viaggi.

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L’homo covidus entra nei musei dal suo pc, guarda le città su Google Views, consulta Netflix come fosse un atlante, s’affaccia su WindowsWap, la piattaforma che consente di condividere la propria finestra con altri utenti - Maria da Matera s’affaccia alla finestra di Jeremy a Coney Island e viceversa. I treni sono vettori di contagio: per spostarsi, quando proprio deve, l’homo covidus prende la macchina. La sua. Di proprietà. Il leasing e il carsharing non sono più sicuri. L’homo covidus scansa il prossimo e le sue tracce. Non tocca dove hanno toccato gli altri e prima di fare colazione al bar, disinfetta il tavolo. L’homo covidus è misantropo per il bene suo e degli altri. In fila al supermercato, al comune, alle poste, ovunque giacché ovunque si fa la fila, si guarda intorno e pensa: si saranno lavati, questi qua? E quanto? E come? Saranno immuni? Saranno asintomatici? Saranno come quei pazzi di cui ogni tanto si legge in cronaca, che hanno fatto l’amore con decine di donne, senza protezione, ben sapendo di essere infetti, al solo scopo di contagiarle?

 

Qualche mese fa, in piena prima ondata, il New Yorker pubblicò un pezzo la cui autrice raccontava di essersi sorpresa a osservare il modo in cui il ragazzo che le piaceva si comportava al supermercato (se manteneva la distanza, se si detergeva le mani, se usava i guanti). A un certo punto abbiamo pensato che tornare a guardarci negli occhi, non potendo fare che quello, come il malato di cuore di Fabrizio De André, che passava la vita in panchina “a farsi narrare la vita dagli occhi”, ci avrebbe riattaccati a tutto, che l’uomo di spirito si sarebbe incontrato con l’uomo di carne in un punto di equilibrio nuovo e migliore. E invece ci siamo stancati. Perché eravamo stanchi anche prima. E quella stanchezza la rivendicavamo come il dato di una esautorazione culturale: le relazioni così come le abbiamo vissute finora sono piene si abusi, desideri indotti, volontà costruite, patriarcato e capitalismo introiettato. Disintossichiamole, dicevamo. Quando il virus ce le ha tolte dalle mani, ne abbiamo sentito la mancanza un po’ per davvero e un po’ per obbligo, fino a che il tempo non ha cominciato a essere troppo per consentire qualsiasi simulazione, e allora ci siamo liberati, depurati, e con preoccupazione mista ad esaltazione, abbiamo ammesso: quanto si sta bene a essere e fare, per gli altri, non più che una telefonata.

 

All’homo covidus del giudizio degli altri frega assai poco: si mostra in riunione su Zoom senza trucco, vive in pigiama, esce in tuta, si trucca di meno, va poco dal parrucchiere, si rade di meno. La natura ha chiesto di ascoltarla e rispettarla di più e l’homo covidus, che è un frugale, le offre anche il suo corpo per lasciare che faccia il suo corso. Con l’uomo in casa, il resto della catena alimentare s’è ripresa il mondo. Ed è sembrato che fuori non ci fossero che pascoli e pace, che fosse persino scomparsa la guerra, perché i reporter di guerra non sono potuti partire, e quasi nessuno è potuto uscire a occuparsi di chi non aveva una casa o di chi era bombardato o di chi cercava una dose. Come i bambini, i giovani, quelli con tutta la vita davanti e i sovranisti, gli uomini pandemici pensano prima di tutto a sé stessi, anche se con dispiacere e rammarico. Non hanno bisogno di baci, carezze, abbracci, strette di mano. Hanno la parola. Con le parole, scritte o pronunciate, siglano, decidono, amano, corteggiano, partecipano.

 

Il New Yorker ha scritto che il dating durante la pandemia assomiglia ai corteggiamenti nei romanzi di Jane Austen dove, prima di uscire insieme, un uomo e una donna dovevano avere il benestare delle proprie famiglie; prendevano appuntamento tramite lettera; parlavano per passeggiare e passeggiavano per parlare; non si toccavano. Diversamente da allora, però, il contatto non è desiderato e atteso, ma temuto ed evitato. L’homo covidus, se baciato, non reagisce come Giulietta che al suo Romeo dice: mi hai passato il tuo peccato, riprenditelo – furba e più furba di lui, che prima di baciarla le aveva detto: le mie labbra sono sporche di peccato, e cercano mondatura come due pellegrini. E no. L’homo covidus, se baciato, reagisce come Johnny Stecchino quando Maria gli si avvicina e prova a sfiorargli le labbra: la scansa, s’arrabbia, si pulisce con un fazzolettino, e urla – e non mi baciare! Lo sai che i baci li danno gli ominisessuali! Primitivo, vero? Il focolare, detestato più che mai, è la sola città stato nella quale al pandemico è dato muoversi senza restrizioni. La sola squadra consentita è coppia consolidata e monogama. Ugur Sahin e Ozlem Tureci, marito e moglie, hanno trovato il vaccino. Chiara Ferragni e Fedez, marito e moglie, hanno costruito un ospedale.

 

Le previsioni sono fallite, i modelli anche, nessuno ha potuto niente contro il morbo, le morti, la recessione. Nessun governo ha vinto davvero, neanche quelli asiatici che, in questa incredibile regressione futurista, siamo stati spinti a considerare virtuosi, esemplari, dimenticandocene l’essenza totalitarista. La democrazia occidentale, del resto, ha perso la sua liberalità. L’homo covidus non va dove lo porta il cuore: va dove lo porta lo Stato. E’ il governo a stabilire, per decreto, quali strade può percorrere, su quali mezzi, in compagnia di chi. “Dobbiamo obbedire”, dicevamo a marzo, ad aprile, a maggio. Dopo, qualcuno è sceso in piazza, mentre tutti lo guardavamo, inorriditi, concordando con i ministri che, in fondo, in sostanza, replicavano: vi pare il momento, vi pare il caso di far guerriglia urbana in mezzo a una guerra mondiale? L’homo covidus non dissente e, in fondo, è apolitico: della politica non può frequentare il cuore, la piazza. La chiesa è tornata a essere unica e sola autorità civile abitabile e frequentabile. La sola che potesse occuparsi non di divieti, sbarramenti, multe, ma del cuore e della libertà dell’uomo. Saltati tutti i punti di riferimento, niente ha collimato con niente.

 

Janan Ganesh, un giorno prima che il 2020 finisse, ha scritto sul Financial Times che per la prima volta nella storia dell’uomo, un gigantesco trauma non lascia indicazioni: non dice cosa funziona e cosa non funziona, manda all’aria il dato e basta. Per questo, dice Ganesh, la cosa più difficile ma necessaria da fare adesso è resistere alla tentazione di legare tutto, come abbiamo fatto finora, in un rapporto di causa effetto e, semplicemente, aspettare quello che verrà. Bisogna dismettere il modello e tornare indietro, e bisogna farlo per recuperare l’antica purezza, la dorata autenticità, il naturale che abbiamo manomesso e insozzato, certo, ma soprattutto per sbarazzarci delle antiche strutture. Il presidente Mattarella ha detto, nel suo discorso di fine anno, che è tempo di costruttori. L’homo covidus non monta su un’astronave ma su un’escavatrice per impiantare nuove fondamenta. Non ha da ripristinare: ha da inventare. Back to the start, back to the star.

 

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