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La riflessione del regista che ha "desacralizzato" la festività in due film

Il Natale, la pandemia, il senso del limite e quello del meraviglioso. Parla Pupi Avati

Come il vuoto del virus può spingere "a risolvere le inadempienze verso la vita"

Marianna Rizzini

Il virus, il vuoto, la vecchiaia e la sensazione "di trovarsi ancora davanti all'esame di maturità, quando ti rendi conto di non sapere nulla". La difficoltà come opportunità. Quel Natale in guerra a Sasso Marconi e la moglie che dopo 55 anni si mette improvvisamente a fare i tortellini

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La notte, la guerra, il Natale da sfollati, un padre e un nonno che corrono in bicicletta da Sasso Marconi a Bologna, per andare a comprare al mercatino di Santa Lucia le tre statuette del presepe che il figlio più piccolo non trova più, sfidando la neve, il freddo e la paura dei nazisti. “Tutto per lasciare intatto in me, bambino, il senso del meraviglioso”. Il regista Pupi Avati guarda indietro, “dall’alto del numero sconfinato di anni che porto, ottantadue”, e vede una lunga serie “di Natali sereni, da patriarca, in ventisei o ventisette parenti, tutti uguali, come le foto incredibilmente uguali che io e mia moglie abbiamo ritrovato qualche mese fa, riordinando tra i cassetti. E poi vedo quel Natale dei tempi terribili e indimenticabili, con un nemico incombente che non si chiamava Covid e non era invisibile, e si presentava con la minaccia del rastrellamento. E quel Natale resta lì, indelebile nella memoria”. E allora forse anche per questo, per la diversità straniante, Avati non ha paura del Natale-non Natale sotto pandemia. Anzi. Lo incuriosisce: “Tanto più ora che mi sento inadempiente verso la vita, lo dico con il sorriso, e impreparato alla morte come uno studente prima dell’esame di maturità, il giorno della vigilia, quando si rende conto di non sapere quasi nulla. Forse per questo sto approfittando della pandemia per fare tutto quello che finora mi sembra di non aver fatto. Ho persino ricominciato, dopo trent’anni, a suonare il clarinetto. L’ho ritirato fuori e le note fluivano. Un momento incredibile”.

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La notte, la guerra, il Natale da sfollati, un padre e un nonno che corrono in bicicletta da Sasso Marconi a Bologna, per andare a comprare al mercatino di Santa Lucia le tre statuette del presepe che il figlio più piccolo non trova più, sfidando la neve, il freddo e la paura dei nazisti. “Tutto per lasciare intatto in me, bambino, il senso del meraviglioso”. Il regista Pupi Avati guarda indietro, “dall’alto del numero sconfinato di anni che porto, ottantadue”, e vede una lunga serie “di Natali sereni, da patriarca, in ventisei o ventisette parenti, tutti uguali, come le foto incredibilmente uguali che io e mia moglie abbiamo ritrovato qualche mese fa, riordinando tra i cassetti. E poi vedo quel Natale dei tempi terribili e indimenticabili, con un nemico incombente che non si chiamava Covid e non era invisibile, e si presentava con la minaccia del rastrellamento. E quel Natale resta lì, indelebile nella memoria”. E allora forse anche per questo, per la diversità straniante, Avati non ha paura del Natale-non Natale sotto pandemia. Anzi. Lo incuriosisce: “Tanto più ora che mi sento inadempiente verso la vita, lo dico con il sorriso, e impreparato alla morte come uno studente prima dell’esame di maturità, il giorno della vigilia, quando si rende conto di non sapere quasi nulla. Forse per questo sto approfittando della pandemia per fare tutto quello che finora mi sembra di non aver fatto. Ho persino ricominciato, dopo trent’anni, a suonare il clarinetto. L’ho ritirato fuori e le note fluivano. Un momento incredibile”.

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Nostalgia del presente: così il regista ha più volte chiamato la sensazione di voler trattenere un attimo, fissarlo, riviverlo. Ma come si fa ad avere nostalgia di questo presente, nel pieno di una pandemia, di fronte alle festività in mezzo lockdown, con la vita che non sembra più quella vissuta finora? “E’ questo che mi fa pensare che i prossimi potranno essere giorni importanti, duri ma straordinari. E’ nella difficoltà e nella scomodità che inventiamo tutto o tutto da capo. I miei film migliori, penso e mi dico, sono quelli fatti con pochi soldi, non con quindici miliardi”.

 

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Poi ci sono i film che il Natale lo hanno “desacralizzato”, per volere e definizione del regista: in “Regalo di Natale” e “La rivincita di Natale” la festività fa da sfondo e contrasto alla vicenda feroce di quattro amici a un tavolo di poker, vicenda che Avati idealmente fa partire, dentro di sé, dall’immagine “dei cattivi della foto di classe”: “I compagni che nello scatto apparivano sempre in alto a destra o in alto a sinistra; i tre o quattro prepotenti, burbanzosi e bulli che però facevano battute e avevano successo con le ragazze, invidiati segretamente da tutti. E a un certo punto ho pensato di raccontare una storia dall’angolo visuale meno rassicurante: anche nell’amicizia, come nell’amore, il tradimento è spesso un passaggio obbligato”. Ma di questo Natale non si può neanche dire che sia desacralizzato: “Questo è un Natale che sfida il nostro senso del limite, come tutto il resto in questo periodo sospeso”. Anche se poi la mancanza della messa a mezzanotte lascia perplesso il regista: “Non può essere se non a quell’ora. Non è un’ora qualunque, quel giorno, è un’ora con una sua sacralità e un suo protocollo. Ricordo, dei miei Natali lontani, il buio dopo la messa, il gelo, e noi che tornavamo a casa e prendevamo una candela ciascuno, e attraversavamo le stanze per andare a mettere il bambinello nel presepe. Eppure, mi dico, nonostante tutto oggi abbiamo l’opportunità di inventarci qualcosa”. 

 

Ed è come se la pandemia avesse dato il via a un’opera di scardinamento del già noto: “Questo Natale mi ha già sorpreso, guardando mia moglie”, dice il regista: “Quando l’ho sposata, cinquantacinque anni fa, era la più bella ragazza di Bologna e io non sapevo di essere in procinto di cominciare una delle imprese più affascinanti e complicate. Non c’era la convivenza, allora. Uno si sposava e andava a vivere insieme. E io, per essere carino, un giorno le ho regalato un mattarello, un tagliere e un setaccio. Come dire: ti consegno il testimone di mia madre. E mia moglie a quel punto ha scaraventato tutto nelle tromba delle scale, sette rampe. Sono usciti sul pianerottolo tutti i vicini. E però quest’anno lei mi ha detto: faccio i tortellini. I tortellini mai fatti in vita sua”. Ci sono “le tante opzioni” che abbiamo, dice Avati, e c’è lo stimolo, dato spesso da una condizione di disagio imprevisto. “E senza quello stimolo magari l’opzione neanche la consideri. Prendi il neorealismo, quando i registi facevano film meravigliosi con la pellicola presa dai fotografi di piazza”. E oggi il processo di adattamento è in corso: “Questi mesi, dopo la comparsa del virus, ci hanno fatto capire o ricordare quanto poco sappiamo, anche se poi in tv è pieno di gente che pensa di sapere tutto. E c’è quell’immagine potente, all’inizio di un periodo terribile: papa Francesco da solo, in Piazza San Pietro, che procede con fatica e poi solleva l’ostensorio, per chiedere aiuto a Dio. E subito la piazza si è riempita idealmente, per i credenti e per i non credenti, tutti brancolanti davanti a un nemico subdolo che occupa tutti i nostri spazi. E lo dico anche se Francesco, per altri aspetti, non è, tra tutti quelli che ho visto, il mio Papa preferito”. Ottantadue anni sotto pandemia per Pupi Avati sono un’opportunità: “Una persona anziana vede questa situazione ed è costretta a riflettere ancora di più su se stessa. Io ogni mattina mi sveglio e devo ricordarmi di essere anziano, perché lì per lì mi sento addosso solo quattordici anni. Tutti i vecchi al mattino segretamente piangono: si rendono conto di non sapere nulla, di non aver fatto tutto quello che volevano e potevano, tanto più adesso. E allora mi dico: prima che si spengano per me tutte le luci voglio sanare i miei debiti nei confronti della vita. Si è aperto uno spazio, in questo vuoto della pandemia, e a me è venuta voglia di riempirlo. E vorrei che le persone re-imparassero a dire la cosa che non sanno più dire: non lo so”.

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