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Ripartiamo dai ventenni

Simonetta Sciandivasci

Leggono e studiano di più, lavorano, anche da casa. Sono temerari e risoluti, stanchi dell’odio, degli hater e dello sballo. Indagine sulla Generazione Z, che si è tolta di dosso lo spleen dei millennial, eternamente sospesi, e non si è fatta fregare dai social network

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I ventenni sono pochi. Nel nostro paese, in Europa, in tutto l’occidente. Sono pochi ma fanno molto, fanno quello che sognano. Non aspettano le condizioni, le creano. “Ho bisogno di uno spazio e non di un luogo”, dice Madame, rapper, insieme a Ernia, rapper. Lei ha 18 anni, lui 27. Lei va ancora a scuola, a Vicenza; lui ha fatto a lungo l’infermiere all’Istituto europeo di oncologia, a Milano. A giugno, quando il suo ultimo disco era il più venduto in Italia, Ernia ha raccontato alla Stampa di aver sofferto per un lungo periodo di una specie di apatia, e che niente lo rendeva felice o contento, nemmeno il disco di platino, per fortuna poi aveva “lavorato su se stesso” ed era riuscito a essere soddisfatto. I ventenni lavorano molto su sé stessi.

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I ventenni sono pochi. Nel nostro paese, in Europa, in tutto l’occidente. Sono pochi ma fanno molto, fanno quello che sognano. Non aspettano le condizioni, le creano. “Ho bisogno di uno spazio e non di un luogo”, dice Madame, rapper, insieme a Ernia, rapper. Lei ha 18 anni, lui 27. Lei va ancora a scuola, a Vicenza; lui ha fatto a lungo l’infermiere all’Istituto europeo di oncologia, a Milano. A giugno, quando il suo ultimo disco era il più venduto in Italia, Ernia ha raccontato alla Stampa di aver sofferto per un lungo periodo di una specie di apatia, e che niente lo rendeva felice o contento, nemmeno il disco di platino, per fortuna poi aveva “lavorato su se stesso” ed era riuscito a essere soddisfatto. I ventenni lavorano molto su sé stessi.

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Anche i millennial lo facevano, alla loro età, andando dalla psicoterapeuta, di modo da poter brancolare, restare sospesi, dire che era colpa del tempo, della sfiga, della crisi, degli altri: mai loro. Un articolo di qualche mese fa di Vice raccoglieva le testimonianze dei fratelli più piccoli dei millennial: li prendevano tutti in giro, dicevano che si lagnavano e basta, che dedicavano la loro vita a fallire, che si lasciavano traumatizzare e congelare da qualsiasi fatto, relazione, errore, svista. I ventenni di oggi, invece, lavorano su sé stessi lavorando. Da soli. Non lavoretti: lavori. Il 70 per cento di loro, da adolescente, ha fatto l’insegnante privato, il creator, il commerciante, il rivenditore su eBay, il pr; il 12 per cento di loro ha fatto il cameriere. Il dato lo riporta la Harvard Business Review e naturalmente si riferisce agli Stati Uniti, dove il lavoro part time e il lavoro estivo sono precisi doveri dei figli a carico, suppergiù da quando imparano ad andare in bicicletta.

 

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Settanta su cento, da adolescente, hanno fatto l'insegnante privato, il creator, il commerciante, il rivenditore su eBay, il pr

 

In Italia i figli a carico vivono un’adolescenza ancora molto lunga, stipendiata e detassata, ma sempre più raramente sono dei perdigiorno. I fuoricorso ci sono ancora ma non godono più di alcuna compiacenza narrativa, né della misericordia familiare e sociale. Niente Zanardi, no more Paz. Perdere tempo non è cool, è da stronzi, da bianchi privilegiati. Avevamo chiuso il 2019 con una notizia che ci sembrava molto buona e rallegrante, e veniva da uno studio americano secondo il quale la Gen Z, quella dove il più vecchio ha diciott’anni, quella di chi è giovane adesso – ma giovane in senso europeo e non all’italiana – godeva di ottima salute, era energica, empatica, seria, giudiziosa, niente vino, poca droga, ridottissima mondanità. Rilevava, quello studio, che i GenZers studiano e leggono di più (leggono persino dei libri, quelli con le pagine: lo fa l’89 per cento di loro); hanno meno problemi di bullismo; sono soddisfatti di sé (lo è il 44 per cento di loro).

 

Avevamo chiuso il 2019 pensando che ci stessimo riprendendo tutti, persino l’Europa, che a maggio in molti credevano si sarebbe sfracellata, autodistrutta, e invece altroché, ai populisti antieuropeisti aveva detto no in libere elezioni, non stravinte ma comunque vinte – questo è il secolo dove nessuno stravince e tutti stravedono. Avevamo chiuso il 2019 pensando che gli anni Venti sarebbero stati generosi con i ventenni. Ma poi è cambiato tutto e il Covid ha fatto sì che agli Zeta accadesse quello che è accaduto, prima di loro, ai millennial, ovverosia che il loro ingresso nel mondo del lavoro coincidesse con una crisi mondiale senza precedenti. A sperimentare più direttamente il modo in cui ricostruiremo il mondo, se davvero lo ricostruiremo, saranno gli Zeta. Gli arrembanti, coraggiosi Zeta.

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Quelli che hanno a cuore il pianeta, non bevono, non fumano, fanno molto sport, sono radicali, intransigenti, a proprio agio con la cancel culture, l’astrologia, la metafisica, l’astrazione, scendono in piazza per gli alberi ma non per le pensioni, non dividono l’umanità in donne e uomini, non hanno istruito la rivoluzione del fluid ma l’hanno incarnata, ascoltano il rap, fanno la trap, non sopportano il contraddittorio, non uscirebbero mai e poi mai con uno di destra se sono di sinistra e con uno di sinistra se sono di destra, sono incel, sono femministi, sono suprematisti, sono nati con il tablet in mano e l’hanno usato per inventare, prima ancora che per conoscere, non leggono i giornali perché i giornali non parlano di loro, o almeno così crediamo noi adulti, che li analizziamo dai sondaggi, gli studi, le statistiche, e nella maggior parte dei casi sbagliamo tutto.

 

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Sempre più raramente sono dei perdigiorno. I fuoricorso ci sono ancora ma non godono più di alcuna compiacenza narrativa

 

A ottobre, poco prima delle elezioni, i giornali americani si sono resi conto che stava per accadere qualcosa che non accadeva da molto tempo, più o meno dagli anni Ottanta: i giovani elettori sarebbero quasi certamente stati il più grande bacino elettorale, la loro affluenza sarebbe stata quasi certamente la più alta dal 2008 e pure dal 1992. Nei giovani elettori includevano i ventenni, i GenZers, al 49 per cento neri, e i millennial, i trenta-quarantenni, al 45 per cento bianchi. Questo, insieme al fatto che, da un punto di vista economico, gli Zeta potrebbero essere meglio attrezzati di chi li ha preceduti, ha mosso nei loro confronti l’interesse del mercato, che li studia prima del tempo, prova a irretirli prima ancora che abbiano consolidato un potere d’acquisto, d’altronde sono quelli che sanno monetizzare tutto, che possono crearsi un lavoro da casa, senza uscire mai, puntandosi addosso uno smartphone o un pc.

 

Al Millennial interessava e interessa raccontarsi, allo Zeta interessa fatturare, creare, fare. Lo Zeta è il ragazzo del fare, del farcela, dello spaccare, del riscatto. Ma è pure il ragazzo che può permettersi di stufarsi della reattività forzata, della vittoria, del bagliore: lo Zeta non è succube dei social perché non ha mai dovuto imparare a usarli, ci è cresciuto dentro, ha una lucidità maggiore nell’affrontarli. È pure un ragazzo circondato da disillusi: ha buoni motivi per cercare l’incanto, nessuno per restare incantato. Una delle ragioni per cui, secondo Al Jazeera, la Gen Z saprà trarre vantaggio dal cambiamento cui la pandemia ha costretto e costringerà il mondo del lavoro è che è già pronta: è nata in una realtà dove già tutto si poteva fare da remoto, è cresciuta in spazi piccoli, non si è mai vista portar via niente, le cose o le aveva o no, conosce perfettamente il senso del riuso, del riciclo, della divisione dei ruoli, non ambisce a dividere la vita dal lavoro e sa fonderli con esiti tutt’altro che alienanti, è versatile.

 

Lorenzo, a 25 anni, con un buon lavoro creativo, è felice di starsene a casa. Antonio dopo i primi giorni senza social ha capito che la sua credibilità professionale non cambiava

 

C’è Al Jazeera e poi ci sono i Coma Cose, che la temerarietà di questi ragazzi qui, di questo presente qui bruciato sul nascere, l’hanno spiegata molto meglio in un verso della loro canzone migliore, “Mancarsi”, che fa così: “Che schifo avere vent’anni, però quant’è bello avere paura, la strada è solo una riga di matita che trucca gli occhi alla pianura”. Non esiste il destino, non esiste l’irrimediabile, non esiste il genere, non esiste la specie: esistono le scelte. L’identità si sceglie e, come un amore, non è mai per sempre, non è mai una sola: in essa tutto confluisce e s’interseca. La scorsa settimana, su 7 del Corriere della Sera, Teresa Ciabatti ha chiesto a Fumettibrutti, alias Josephine Yole Signorelli, fumettista e autrice che ha esordito con una graphic novel eccezionale, “La mia adolescenza trans” (Feltrinelli), ed è da poco tornata in libreria con “Anestesia” (Feltrinelli), cosa sia il maschio. Risposta: “Un’invenzione, come la femmina”. Nell’introdurla, Ciabatti ha scritto che quella di Fumettibrutti è “la generazione della libertà e dell’autodeterminazione, dove conta chi decidi di essere e non in quale corpo nasci”.

 

Il femminismo delle giovani donne non mira alla differenza, ma all’intersezione, è insofferente rispetto ai temi di specificità, vuole allargarsi, farsi strumento di emancipazione di tutte le diversità, mantenendo fisso un unico punto: tutto ciò che veniamo abituati a vedere, riconoscere, nominare è una convenzione del tutto arbitraria, destrutturiamola. Il maschio è un’invenzione, come la femmina, come tutto. Eppure, le stesse giovani donne che desiderano liberarsi dal corpo o meglio dall’idea che il corpo sia riconducibile a un genere preciso che corrisponde a un’identità precisa, proprio del corpo hanno fatto un usbergo sacro e intoccabile, innominabile, vulnerabile. Niente è più compromettente del riferirsi con una parola sbagliata a un corpo: non c’è crimine culturale più imperdonabile di una battuta di troppo sull’aspetto di qualcuno.

 

La Gen Z, temeraria e risoluta, ha staccato il cordone ombelicale dai millennial ma non dalla fisicità, dal peso e dall’ordine della carne. Niente è più politico delle operazioni di cambio del sesso: sulla transizione da un genere all’altro si gioca la libertà di migliaia di individui. Rispondendo alla domanda su cosa significhi essere trans in questi anni, FumettiBrutti ha detto: “La mia generazione si è riappropriata della parola troia. Per la generazione precedente era un insulto, per noi un complimento”. Il corpo non fornisce identità, ma una specie di dolore congenito dal ricordo del quale è importante tutelare l’altro, poiché tutti hanno una ferita inferta dall’imposizione del genere: non c’è ventenne che sia disposto a sopportare una battuta che gli ricorda che ha un corpo, non c’è ventenne che non trovi eteronormativo distinguere i cessi solo per maschi e femmine.

 

Altrettanto importante è l’appartenenza etnica. È piuttosto significativo che, alcuni mesi fa, il New York Times abbia chiesto ad alcuni ragazzi tra i diciotto e i vent’anni di descriversi raccontando il loro genere e la loro etnia. Uno di loro ha detto: “L’identità è qualcosa che può cambiare, come la politica”. Lo ha fatto quando la campagna elettorale più incredibile di sempre era dietro l’angolo e nessuno era pronto a scommettere che gli americani avrebbero spezzato la continuità governativa che sono soliti assicurare a chi li governa rinnovando il secondo mandato. Gli americani nati dopo il 1995 sono circa settanta milioni di persone e rappresentano la generazione più assortita di sempre: le percentuali di ispanici, asiatici, afro-americani sono le più alte mai registrate nella storia anagrafica del paese. Questo ci aiuta, forse, a capire perché il Black Lives Matters ha portato al conflitto sociale una parte così cospicua e variegata della popolazione giovane americana.

 

Niente è più compromettente del riferirsi con una parola sbagliata a un corpo: non c’è crimine culturale più imperdonabile di una battuta di troppo sull’aspetto di qualcuno. La Gen Z ha staccato il cordone ombelicale dai millennial ma non dalla fisicità, dal peso e dall’ordine della carne

 

All’apatia mondana dei millennial, gli Z hanno opposto prima l’attivismo femminista, poi quello ambientalista, e infine quello più propriamente politico. Un attivismo molto rigoroso, serio, sano. I ventenni d’oggi non sprecano il tempo e neanche il corpo, non si sentono immortali, non credono nella consunzione, non sfidano la vita, non sfidano la mamma, il papà, i fratelli, le istituzioni. Più che nemici, cercano alleati. Sono stanchi dell’odio, degli hater. Non hanno tempo da perdere, vogliono essere lasciati in pace: hanno da fare. Quando il Rolling Stone diede del vecchio a Fulminacci, ragazzo prodigio del cantautorato italiano (ventitré anni adesso, ventuno quando ha vinto la Targa Tenco), lui rispose che invecchiare lo metteva a suo agio. In una sua canzone dice: “Fra un po’ non avrai più vent’anni e la vita diventa un mestiere”. In un’altra, “Strappami dalle nuvole”. In un’altra ancora “Fammi vedere una foto di mamma da giovane e poi una di adesso, che bella, spero tu faccia lo stesso”.

 

Mai visti piedi così ben saldati a terra, un recinto così ben definito, una chiarezza tanto luminosa. Lorenzo, venticinque anni appena compiuti, milanese, bianco, bellino, benestante, ottimo eloquio, un buon lavoro naturalmente creativo, dice che la cosa più importante che ha ottenuto in questo suo primo quarto di secolo è stata non spostarsi di casa. Lo dice in un video per Venti, una piattaforma dove “ragazzi che hanno poco più di vent’anni scrivono e realizzano contenuti per ragazzi che ne hanno circa venti”. Sta raccontando, con una specie di intenzione fraterna, di aver festeggiato il suo compleanno al parco con gli amici, una birretta in mano e via, dopo aver a lungo pensato a una soluzione divertente che s’adattasse al distanziamento sociale, ai dpcm, all’allerta, al galateo igienico sanitario che sovrintende le relazioni – è ottobre, la seconda ondata c’è ma ancora non si vede.

 

Dice poi Lorenzo che a vent’anni voleva tutto, aveva festeggiato il suo compleanno rovesciando mezzo mondo, invitando una falange oplita, e che adesso, invece, adesso che ha venticinque anni (25!) non ha più la testa, la stazza, la fibra, la voglia, la sconsideratezza. I vent’anni di Lorenzo sono durati meno di un lustro, adesso è felice di starsene a casa. Un testo qualsiasi di un rapper o un trapper azzererebbe tutto e dipingerebbe, invece, un quadro di disagio con una tavolozza cara al punk. Ma che lo sballo, almeno quello puro e vivido, quello senza fini, né troppi mezzi, senza retroscena, senza problemi, sia sparito dalle vite dei giovani è un fatto piuttosto innegabile. Le notti che negli anni Ottanta non finivano, ora durano poche ore. Tirar mattina non serve a niente, perché farlo? Fa anche male.

 

Pier Vittorio Tondelli aprì gli anni Ottanta come una ferita, come la finestra di un bordello, con “Altri libertini”, il suo primi libro, dove non c’erano che ventenni in giro, quasi sempre di notte, tra le campagne, i bar, le feste, Amsterdam, Londra, puttane, omosessuali, provincia, province. Si aveva vent’anni, e Tondelli lo raccontò perfettamente, per buttarli via, non per monetizzarli o per raddrizzare il pianeta e gli uomini e il mercato. “Ci trovavamo ogni sera al bar dell’Emily Sporting Club che è sotto al pallone pressostatico della piscina che così d’inverno diventa coperta mentre in estate rimane all’aperto in mezzo a tutti quei pratolini fioriti. Lì siamo sempre in sette otto a sbevazzare e dir cazzate e dare calcinculo al tempo che c’ha proprio solo bisogno d’esser così strapazzato per avanzare un tantino appena di brio. Siamo sempre i soliti assatanati che ci conosciamo da quando eravamo bambinetti e già all’asilo ne avevamo pieni i coglioni gli uni degli altri”.

 

Cinque anni dopo questo libro incredibile, Tondelli pubblicò “Rimini”. Pochi giorni fa, Dagospia ha ripreso un pezzo di Mario Andreose che ricordava cosa accadde alla presentazione di quel libro, nel luglio del 1985, al Grand Hotel di Rimini, quello di Amarcord di Fellini: arrivarono “senza invito quattrocento incontenibili che invasero ogni angolo dei giardini e dei saloni”, successe di tutto, tra “checchine”, travestiti, musicisti, ubriachi - un giornale locale, l’indomani titolò il pezzo di cronaca della serata “I Lanzichenecchi al Grand Hotel”. Tondelli aveva trent’anni esatti e gliene restavano pochissimi da vivere. Non lo sapeva, ma dei suoi vent’anni, di quei suoi vent’anni dissanguanti e assatanati, sarebbe morto.

 

Fece in tempo a scrivere di un tempo attraverso le persone: questo fanno gli scrittori “generazionali”, anche se questa parola fa storcere il naso agli intelligenti, anche se forse le generazioni non esistono, e quando Martin Amis ha detto a Salman Rushdie che le generazioni di scrittori sono tali soltanto a posteriori, nello sguardo di chi osserva il passato, aveva ragione (è Martin Amis, certo che ha ragione) – “Quando ero alla rivista New Statesman, i miei colleghi erano Christopher Hitchens, James Fenton e Julian Barnes. Nessuno aveva organizzato questa cosa, era solo una coincidenza. Venivamo tutti da ambienti diversi: può sembrare una generazione ora, ma non era così che la percepivo allora”.

 

Come sono lontani gli anni Ottanta di Tondelli. “Ciò che ci viene richiesto non è tanto essere talentuosi ma essere sempre pronti, perché il mondo va veloce”. La centralità del lavoro: è l’amore della vita, il sogno, la distrazione, il posto. Paura del futuro? “No. Io non vedo l’ora di crescere. L’idea di cambiare mi eccita”

 

Ad Antonio Dikele Distefano appioppano la dicitura “scrittore generazionale” degli Z, dei millennial, dei cuspidi: è tutto fluid anche qui. Parla bene del suo tempo attraverso le persone, e una in particolare: sé stesso. Ha 28 anni, quattro libri molto venduti alle spalle, una serie tv scritta da lui su Netflix in arrivo la prossima primavera, un lavoro come consulente musicale, un romanzo in lavorazione. E un rammarico: essere troppo serio. È nato in Italia da genitori angolani. Come sono i ventenni, visti da un quasi trentenne? “Facilmente soggiogabili”. Come tutti i ventenni di tutti i tempi. “C’è qualcosa di più, però. Devono gestire un’ansia da prestazione incredibile, che è data dall’esposizione continua cui si sottopongono. Mentre io quando andavo a scuola dovevo confrontarmi con un numero di persone che andava da zero a cento, al massimo, ora la scala è centuplicata: su Instagram ti vedono tutti, sei soggetto al giudizio di tutti.

 

La scorsa estate me ne sono liberato, perché ho capito che stavo diventando dipendente dal giudizio e dall’approvazione di persone che non ho nemmeno mai visto, con cui non ho mai parlato e alle quali di me non interessa altro che la possibilità che io offro loro di colpirmi, esponendomi. Dopo i primi giorni senza social network, oltre a essermi diventato subito chiaro che non mi mancavano affatto, ho capito che la mia credibilità nel lavoro non cambiava. E questo è stato bellissimo e liberatorio: noi veniamo cresciuti con l’idea che esistere su un social sia il solo modo per esistere nel mondo del lavoro, e che mantenere l’hype intorno alla propria figura sia il solo modo per accaparrarsi clienti e rendersi interessanti e dimostrarsi credibili, affidabili: non è vero, non è vero niente”.

 

A uno che dell’avere talento e anzi dell’averne molti ha fatto una carriera, chiediamo se il talento non sia diventato, oltre che inflazionato, una specie di obbligo. Ci risponde: “Il dramma è un altro. Ciò che ci viene richiesto ossessivamente non è tanto essere talentuosi ma essere sempre pronti, perché il mondo va velocissimo e se resti indietro sei uno sfigato. Io penso che tutti sappiamo fare una cosa, se studiamo, se la coltiviamo, la curiamo con passione. Penso che se a 15 anni ti metti a studiare per diventare scrittore, a 25 puoi scrivere un buon libro. Ma questo non ci viene detto, e allora le persone si convincono che se non hanno un talento sono spacciate, e si dannano, e poi fanno la scelta più riparata, che è sempre la più sbagliata. Di questo, discuto sempre con mia sorella che dice di invidiarmi perché so sempre cosa fare. È vero, lo so, ma perché decido, non ho paura di sbagliare. So che sbagliare è giusto”.

 

Anche sbagliare le parole, le frasi, le posizioni, le idee? “Perché dovrebbe spaventarmi? È giusto che sbagli anche quello e sarebbe assurdo che non esistesse quel tipo di errore. Non ho mai pensato che la libertà d’espressione corrisponda al dire tutto quello che si pensa: questa è una convinzione che ci mettono in testa i social network. Io sto imparando a scoprire la bellezza di stare zitto. Sto imparando a rispondere: non lo so. Mi chiedono formule, soluzioni, frasi accattivanti, parole come esche: più lo fanno, più mi ritraggo. Tutto quel rumore non fa più per me”. Il Covid ha contribuito a questo ripensamento? “Il Covid lo ha accelerato, come ha accelerato tutto. Durante la quarantena, io e una mia cara amica abbiamo ammesso qualcosa che avevamo cominciato a capire da tempo: che non siamo stati solo amici per una vita, ma che ci amiamo da una vita, e ora stiamo insieme, e io sono innamorato. Non mi sento innamorato: proprio lo sono”.

 

 

E cos’altro? “Onesto, consapevole”. Un maschio è un’invenzione? “Non lo so, ma so di certo che l’identità si costruisce nel tempo. La serie di Luca Guadagnino, ‘We are who we are’, lo racconta alla perfezione”. Una follia l’ha fatta, nella vita? “A 21 anni ho scritto il mio primo romanzo, ne ho stampate duemila copie e sono andato a lasciarle in tutte le librerie d’Italia: mi presentavo al libraio e gli dicevo che poi sarei passato a riprenderle, se nessuno le avesse comprate. Le ho vendute tutte, non molto tempo dopo ho firmato con Mondadori. Ma il primo a fidarsi di me e a darmi i soldi per quell’avventura non fu un editore: fu il mio migliore amico”.

 

Il lavoro è sempre centrale: è l’amore della vita, la pazzia della vita, la cosa migliore, il sogno, la distrazione, il posto. Martina Socrate, 22 anni, creator di punta di TikTok Italia, lo dice chiaramente: “La cosa che mi rende felice, oggi, è il mio lavoro. Ho cominciato per caso a fare dei video su TikTok, non ho mai pensato che ci avrei guadagnato e anche se da un anno e mezzo ormai prendo la cosa molto sul serio, ho delle scadenze, e di fatto ho tutti gli oneri di un mestiere, non dimentico mai che è stato proprio per essere felice che sono finita su TikTok. Avevo chiuso una storia per me molto importante, e pur essendo stata io a troncare ero molto dispiaciuta, soffrivo. Non me ne capacitavo, non volevo essere triste: volevo essere felice. Pensai che fare dei video per intrattenermi e intrattenere qualche amico fosse un buon modo per ritrovare il sorriso. E così fu”.

 

La cosa più importante, a parte il lavoro? “La mia famiglia. Conto sulla mia famiglia molto di più che sugli amici: ne ho pochi, ho imparato che spesso è meglio star soli che con cattive compagnie”. Hai paura del futuro? “No. Io non vedo l’ora di crescere. L’idea di cambiare mi eccita”. E del futuro che potrebbe essere diverso da come lo abbiamo immaginato finora, hai paura? “Il futuro è sempre diverso da come lo immaginiamo”. Irene Preziosi cura Venti, la piattaforma dove Lorenzo ha detto che a venticinque anni ha capito quanto è importante starsene a casa sua. Ha studiato psicologia e neuroscienze a Roma e a Trento. Felicemente, aggiunge.

 

Poi si è trasferita a Milano e ha incontrato Sofia Viscardi, la prima youtuber italiana diventata famosa – ricordate, fu quasi uno scandalo, ma lei fu molto brava a dialogare con i giornali, la televisione, le radio: una volta scrisse che Schopenhauer la atterriva, lo definì “un depresso che vede l’amore come sofferenza perpetua”, e noi, soloni, gliele suonammo di santa ragione, ma come osava, ma che cosa ne sapeva, ma cos’è questa dittatura della felicità, ah Berlusconi, ah, Mediaset, ah, il Facebook. Irene cura i contenuti di Venti insieme a Sofia e un lavoro per Mediaset lo ha rifiutato. “Perché voglio fare cose belle, nuove. La vecchia televisione non mi interessa”, dice al Foglio. Da quando c’è lei, Venti è diventato un magazine online, un format video che i ragazzi consultano più che per informarsi sul mondo, per “sentire parlare di ventenni dai ventenni”.

 

"Siamo cresciuti con l'idea che esistere su un social sia il modo migliore per esistere nel mondo del lavoro, e che mantenere l'hype intorno alla propria figura sia il solo modo per accaparrarsi clienti e rendersi interessanti e dimostrarsi credibili, affidabili: non è vero, non è vero niente"

 

È quello che dovrebbero fare i giornali? Quest’estate su Repubblica si è discusso molto dello spazio che l’informazione tradizionale dedica ai ragazzi, qualcuno a un certo punto ha proposto che di sedicenni dovrebbero scrivere i sedicenni. “Io invece penso che i giornali li debbano scrivere i giornalisti. La ragione per cui io non ho rinnovato l’abbonamento a Repubblica è che fa schifo, non che non parla di me. Voglio essere informata, in maniera ordinata, semplice e non semplificata. I giornali italiani non lo fanno e soprattutto non stanno online: le firme migliori le lasciano sulla carta e al sito relegano gli scarsi. Il New York Times quest’anno ha registrato più di sette milioni di abbonati ed è il sito la parte che più cura”.

 

Antonio Dikele, invece, a qualche giornale italiano è affezionato: “Ho l’abbonamento al Sole 24 Ore e mi entusiasma. Mi capita di leggere anche altri giornali, ma il Sole lo scarico anche di notte. Mi piace perché ho sempre l’idea che chi ci scrive si sia informato, abbia studiato per me. Una cosa che mi ha fatto impazzire durante il primo lockdown è stato leggere su tutti i siti dei principali quotidiani che le città erano piene di gente che non rispettava le regole, che erano tutti in strada: poi, ogni volta che mettevo piede fuori casa, non incontravo anima viva. A chi servono quelle menzogne?”. Lo leggeresti un Sole scritto da ventenni? “A me dell’età non importa niente. Le cose le devono fare i competenti. Tutte le volte che i giovani vengono mandati avanti perché devono soddisfare una quota, una rappresentanza simbolica, non succede niente di buono”.

 

Martina, invece, i quotidiani non li legge: sfoglia le riviste che trova in casa, riconosce che sia una grande lacuna, e quello che succede lo monitora online. “Io sono curiosa. Mi piacciono gli approfondimenti. La curiosità a volte penso proprio che sia un sentimento. I giornali vorrei che mi offrissero questo: un modo semplice di esaurire le mie domande, di fare chiarezza. A me piace imparare. Voglio sapere tutto, ho questa frenesia, e allora mi servono strumenti che mi aiutino in questo senso”. Perché piaci ai tuoi seguaci? “Perché non cerco mai di ingraziarmeli. Quello che faccio e condivido, deve piacere a me, convincere me. Forse è per questo che i giornali non mi interessano: mi accorgo che vogliono farmi cliccare, che mi vogliono sedurre a tutti i costi, non che vogliono farmi capire le cose”.

 

Al far capire agli altri le cose si dedica Marco Martinelli, dottore di ricerca in Biotecnologie molecolari al Sant’Anna di Pisa, divulgatore e pure musicista. Su TikTok parla di scienza, fa esperimenti, racconta invenzioni. Ultimamente, aiuta i suoi seguaci a capire cosa sta succedendo. Non sono troppo brevi i clippini di TikTok per un compito così importante e complesso? “Lo pensavo anche io, poi invece mi sono reso conto che la sintesi mi obbligava a essere più chiaro. Einstein lo ha dimostrato: le formule migliori sono quelle più semplici ed eleganti. Io punto a questo, a essere semplice ed elegante. E utile, naturalmente. Quello che so e quello che so fare mi piace metterlo a disposizione degli altri, condividerlo. Ho insistito anche per dotare l’istituto di un account TikTok, ma ancora non è molto utilizzato: dobbiamo trovare il linguaggio giusto, la maniera idonea per mantenere il profilo istituzionale”.

 

Hater ne hai? “Ma no, sono un pesce piccolo. E poi c’è ancora una specie di timore nelle persone, quando ti vedono con il camice, dentro un laboratorio. Ed è quasi un miracolo, mi ritengo molto fortunato. Certo, qualche negazionista ogni tanto mi capita di sentirlo: l’altro giorno uno mi ha detto che sono pagato per nascondere la verità. Che ridere”. Come sarà il mondo dopo la pandemia? “Dipende da quello che saremo disposti a cambiare. Penso che lo smartworking e il distanziamento sociale potranno farci bene, che il Recovery fund potrà portarci a pensare un paradigma economico e di sviluppo completamente diverso. Sono tre aspetti che per i ragazzi potrebbero rivelarsi fondamentali, perché mi pare si attaglino perfettamente a un modo di stare al mondo che è già loro. I ventenni e i trentenni di oggi li giudicheremo più avanti, ma credo si possa già dire che almeno una grande virtù la hanno: sono versatili, duttili, aperti al cambiamento”.

 

L’Italia che paese è per un giovane scienziato? “Il paese che è per tutti: il più bello del mondo. Unico. Sta a noi dargli una spinta, liberarlo dalla corruzione e rimediare al decadimento culturale nel quale è precipitato negli ultimi anni. Anche per questo sono felice di usare TikTok come lo uso, a fini divulgativi: so che ispira dei ragazzi, e ne sono fiero, felice”. Per Antonio Dikele, invece, l’Italia è bella quando ci sono i mondiali, perché solo allora si respira l’unione, la fratellanza, la gioia di condividere un obiettivo comune. E l’Europa? “Io mi sento profondamente europeo. Ho sempre viaggiato moltissimo in Europa. E tutte le volte che lo faccio, mi sento italiano perché appena parlo mi riconoscono subito, mi chiedono: italiano? Per loro non c’è dubbio che io lo sia. E allora sono felice”.

 

Marco Martinelli, dottore di ricerca in Biotecnologie molecolari, divulgatore e pure musicista. Su TikTok parla di scienza, fa esperimenti, racconta invenzioni. "I ventenni di oggi li giudicheremo più avanti, ma si può già dire che almeno una grande virtù ce l'hanno: sono versatili, duttili, aperti al cambiamento"

 

Alice Urciolo, 26 anni, romanziera e sceneggiatrice di “Skam”, la serie teen più amata, meglio scritta, meglio recitata, insomma un gioiello, lavora a Roma da anni, e sembra uscita dal 1879. Legge romanzi ottocenteschi, giornali di carta, e ha scritto un romanzo, “Adorazione” (66th and 2nd) che ha un’impostazione tradizionale. “Io fino a 21 anni ho letto e basta. Guardavo pochissimi film, nessuna serie tv. A fare la sceneggiatrice ci sono finita per caso: ho trovato un’inserzione su Facebook, mi sono iscritta a un corso di Rai Fiction, ho superato le prove, ho fatto lo stage, mi hanno tenuta”. Come si fa a scrivere una serie tv così perfetta sugli adolescenti? “Abbiamo lavorato in team. Abbiamo intervistato, per settimane, i ragazzi di alcune scuole di Roma, e abbiamo mantenuto fede al format originale, che prevede di raccontare la vita, il trascorrere del tempo.

 

Abbiamo indugiato su tutto quello che la serialità televisiva evita: i momenti di pausa, quelli che il cinema chiama i momenti morti, le scene senza azione, senza pathos, gli sguardi lunghi, i silenzi tra le persone, le conversazioni che non portano a niente. Non abbiamo mai pensato di fare un affresco generazionale, ma di catturare il tempo”. Sei libera? “Potrei esserlo di più. Sono consapevole dei passi avanti che abbiamo fatto, se penso all’Italia com’era quando ero piccola mi sembra un altro posto. Ma non è ancora sufficiente. E non lo dico perché sogno una vita priva di tabù e conflitti: ma mi tormenta l’idea di tutte le potenzialità che inibiamo.

 

Mi tormenta che l’aspetto fisico possa essere un limite, che i corpi non conformi vengano ancora discriminati, che la famiglia non sia ancora considerata da tutti un istituto che ciascuno può definire. Mi sono chiesta spesso se alcune battaglie delle mie coetanee non siano pura retorica e mi sono sempre risposta, alla fine, che non possiamo pensare che costruire un mondo più inclusivo sia un disincentivo alla crescita delle persone”. Sei felice? “Dipende da cosa significa. So che della vita mi interessa la ricerca. E che sono riuscita a fare un lavoro che mi consente quella ricerca”. In mezzo a “Mancarsi”, i Coma Cose cantano: “Ci hanno dato il piombo, ci hanno dato il fango, ci hanno chiesto quando diventate grandi?”. Speriamo non domani.

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