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La tinta che cola sul volto. Giuliani come Dirk Bogarde

Fabiana Giacomotti

Quello che abbiamo visto al tiggì non è solo l'ex sindaco di New York che denuncia brogli contro Trump con la goccia scura del colorante per capelli che gli cola dalla basetta. Ciò che abbiamo visto è Gustav Von Aschenbach in Morte a Venezia

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No, quello che vedevamo l’altro giorno al tiggì non era solo Rudy Giuliani che denunciava brogli contro il suo assistito Donald Trump con la goccia scura della tinta che gli colava dalla basetta. Ciò che vedevamo era Gustav Von Aschenbach portato a braccia lungo la spiaggia del Lido, morente e vestito di bianco come fosse già stato avvolto nel sudario. La memoria ci riconsegnava, nella fotografia opalescente di Pasqualino De Santis, Dirk Bogarde con la tinta all’acqua dei capelli, nerofumo, che gli cola lungo la faccia, attivata dal sudore della malattia, orrenda maschera di morte, e il sorriso immoto di Tadzio, le sue forme efebiche “chiamami col mio nome”, il candore splendido della sua giovinezza contro la patetica decadenza biologica in technicolor del suo maturo ammiratore. La morte a Venezia.

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No, quello che vedevamo l’altro giorno al tiggì non era solo Rudy Giuliani che denunciava brogli contro il suo assistito Donald Trump con la goccia scura della tinta che gli colava dalla basetta. Ciò che vedevamo era Gustav Von Aschenbach portato a braccia lungo la spiaggia del Lido, morente e vestito di bianco come fosse già stato avvolto nel sudario. La memoria ci riconsegnava, nella fotografia opalescente di Pasqualino De Santis, Dirk Bogarde con la tinta all’acqua dei capelli, nerofumo, che gli cola lungo la faccia, attivata dal sudore della malattia, orrenda maschera di morte, e il sorriso immoto di Tadzio, le sue forme efebiche “chiamami col mio nome”, il candore splendido della sua giovinezza contro la patetica decadenza biologica in technicolor del suo maturo ammiratore. La morte a Venezia.

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L’altro giorno pensavamo a tutto questo mentre il volto scavato di Giuliani si contorceva in una smorfia di disprezzo contro gli avversari del presidente uscente e quella goccia gli si infilava nelle rughe accelerando la discesa verso il monto, rischiando di infilarglisi in bocca e questo no, questo sarebbe stato troppo, troppo simbolico, troppo grottesco. Guardavamo inorriditi, impietositi, e ci tornava in mente il racconto che ci fece Piero Tosi dell’infinita pazienza di Bogarde mentre si sottoponeva allo stesso scempio che ora sfigurava Giuliani per compiacere Luchino Visconti che voleva racchiudere sul volto dell’attore i segni del disfacimento morale di un’intera società. Polvere alla polvere, trucco al trucco.

 

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Chissà chi ha suggerito a Giuliani di usare quelle matite per il ritocco immediato prima di andare davanti alle telecamere, chi l’ha spinto ad assecondare la voce di Mefistofele, a correre dietro a un’altra Margherita, a un altro Tadzio, alla giovinezza eterna, deponendo ai loro piedi tutto il resto, compreso il nostro ricordo del suo straordinario coraggio dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Chissà chi è stato il “figaro ciarliero” che gli ha venduto lo specifico a poco prezzo, la tinta del miracolo e della vergogna, perché sapete, succede così sempre. Mefistofele non ha la palandrana delle messinscene ottocentesche di Gounod; talvolta, più spesso, porta forbici e pettine nel taschino o esibisce fialette di acido ialuronico. “Nel suo caso, signor mio, si ha diritto al proprio colore naturale: se permette, glielo restituirò immediatamente.”

 

Thomas Mann sapeva, perché aveva subito quella seduzione a sua volta, e ne covava tante altre che nemmeno osava confessare a se stesso. Sapeva che in un uomo, la tinta dei capelli non è solo vanità, non è solo ostinazione contro giovinezza che sì fugge tuttavia, ma denuncia insicurezze più profonde, e proprio per questo più ridicole. L’uomo che si tinge i capelli (e non lo fa da ieri; qualche mese fa, alla mostra dedicata al Canova a palazzo Braschi, il celebre ritratto di Xavier Fabre di Vittorio Alfieri esposto ad altezza d’uomo ne rendeva evidente la ricrescita bianca e tutta l’inutilità di voler passare alla storia per la propria intransigenza) gode di una stampa infinitamente peggiore rispetto a quella che tocca alle finte bionde, alle ottantenni con la tinta viola del celebre e inutilissimo “antigiallo”, alle madame Verdurin con i posticci e alle signorotte austeniane con le file di ricci di canapa che sbucano al di sotto della cuffia.

 

Prima di José Saramago e delle storie dell’assedio di Lisbona, con lo scambio eterosessuale di corpi e di tinte per capelli fra vecchi amanti, era difficile che un uomo confessasse di passarsi una dose generosa di tonalizzante prima di recarsi in ufficio, o di farsi l’henné prima di andare in conferenza stampa. Lo è anche adesso. La donna che si tinge i capelli non inquieta, anche quando è ridicola e eccessiva e il nerofumo dell’attaccatura incide le rughe come ferite. La si guarda con pietà, si tende a comprendere, si passa oltre. Nell’uomo che si tinge i capelli c’è invece sempre qualcosa di disfatto, di pietoso, di insidioso. Attraverso la tinta trasuda il senso di sconfitta dell’anima e dell’incapacità di governarne i desideri e dunque, inevitabilmente, una condanna morale che non tocca affatto le donne alle quali, in apparenza, tuttora non si domanda coerenza e propositi tutti d’un pezzo. La donna è mobile, l’uomo granitico come il Commendatore del don Giovanni; il sessismo si esprime anche attraverso uno shampoo riflessante, che è la definizione con cui i parrucchieri tingono le chiome dei propri clienti, in genere dai quarant’anni anni in su.

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“Valorizzante”, “riflessante”, tutte metafore per non pronunciare mai l’orrendo sostantivo di “tinta”. Tre uomini su dieci, secondo le ultime ricerche in Italia, ricorrono alla tinta, e la maggioranza di questi tre odia la sola idea che lo si riconosca come tale. Nessun uomo, in apparenza, si tinge mai, tanto meno un uomo di potere. La canizie è affascinante solo su bellissime facce intelligenti e volitive: lo era su Leonard Bernstein, su Arturo Toscanini, su Giorgio Strehler, su certi alti militari. Agli altri ruba autorevolezza, simpatia, consenso: invecchia le parole e i pensieri, guardate Beppe Grillo.

  

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E allora, ecco i tappi di sughero bruciati della leggenda di Pavarotti, i cachet riflessanti con i tempi di posa, che a dispetto delle rassicurazioni, dei “prende benissimo, dottore”, non prende mai come dovrebbe, perché quello bianco è un capello senza pigmenti, e nei dna caucasici reagisce come può. Generalmente, diventando rosso, anzi arancio. Silvio Berlusconi, Donald Trump, l’Alfieri che fortissimamente volle. Chi osa il nero, sfida anche le convenzioni, e lo sa, perché la tinta si sparge uniformemente anche sulla calotta cranica, dando vita a un effetto parrucca che svanisce solo al momento della nuova seduta. Noi donne li vediamo, questi ostinati dottor Faust, questi von Aschenbach senza il suo stesso genio letterario, destreggiarsi malamente fra prodotti e fiale irrobustenti, ostentando indifferenza. Osserviamo, per nulla complici. Del peccato di vanità che si ostinano da millenni  buttarci sulle spalle, quella ricrescita è una vendetta. La nostra. 

 

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