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Com’è buia la notte

Simonetta Sciandivasci

A casa prima del tramonto. E per decreto l’oscurità perde il suo fascino. Gli amori, i tradimenti, perfino gli incubi, ora hanno tutta la luce del mondo

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La notte è chiusa, non ci inghiotte più. Non ci nasconde, non ci libera, non ci diverte, non ci trasfigura, non ci disgrega. E’ fatta per tornare a casa e rimanerci, per metterci in sicurezza, per farci accendere la luce, ricompattarci, attaccarci al nucleo. Non appartiene più agli amanti e alla lussuria, come in quella canzone di Patti Smith che cantano anche i bambini, le nonne, i vedovi, tu – because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust (sì, certi cantano “to us”, a noi, ed è bello lo stesso, forse anche più bello). Adesso, la notte appartiene alle regole, al focolare, al domicilio, agli affini, ai coniugi. Si sta dentro dal tramonto all’alba e fuori dall’alba al tramonto, ammesso che si disponga di un certificato che attesti un’esigenza indifferibile, una necessità inconfutabile, un’urgenza irrimandabile. Ci incontriamo di giorno, alla luce del sole, in piena trasparenza, come prima del virus il mondo di sotto voleva che si mostrasse il mondo di sopra. Al buio non facciamo nient’altro che rintanarci, dopo esserci ben disinfettati, lavati, purificati dall’assedio invisibile che è diventata l’aria. Così vogliono i decreti e pure gli appelli al buonsenso, al civismo, alla responsabilità personale: se proprio dovete incontrarvi, fatelo nelle ore anti meridiane, non toccatevi, non assembratevi, mantenete la distanza sociale di sicurezza, parlatevi al telefono. Non conta che sia in zona rossa, arancione, o gialla – per comodità abbiamo subito preso a dirci rossi, gialli, arancioni; Natalia Aspesi ha scritto l’altro giorno: “Tu sei gialla? Io rossa, dici che è molto diverso? Ho letto e riletto ma non ho capito bene. La televisione l’ho spenta perché ti viene voglia di prenderli a schiaffi”.

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La notte è chiusa, non ci inghiotte più. Non ci nasconde, non ci libera, non ci diverte, non ci trasfigura, non ci disgrega. E’ fatta per tornare a casa e rimanerci, per metterci in sicurezza, per farci accendere la luce, ricompattarci, attaccarci al nucleo. Non appartiene più agli amanti e alla lussuria, come in quella canzone di Patti Smith che cantano anche i bambini, le nonne, i vedovi, tu – because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust (sì, certi cantano “to us”, a noi, ed è bello lo stesso, forse anche più bello). Adesso, la notte appartiene alle regole, al focolare, al domicilio, agli affini, ai coniugi. Si sta dentro dal tramonto all’alba e fuori dall’alba al tramonto, ammesso che si disponga di un certificato che attesti un’esigenza indifferibile, una necessità inconfutabile, un’urgenza irrimandabile. Ci incontriamo di giorno, alla luce del sole, in piena trasparenza, come prima del virus il mondo di sotto voleva che si mostrasse il mondo di sopra. Al buio non facciamo nient’altro che rintanarci, dopo esserci ben disinfettati, lavati, purificati dall’assedio invisibile che è diventata l’aria. Così vogliono i decreti e pure gli appelli al buonsenso, al civismo, alla responsabilità personale: se proprio dovete incontrarvi, fatelo nelle ore anti meridiane, non toccatevi, non assembratevi, mantenete la distanza sociale di sicurezza, parlatevi al telefono. Non conta che sia in zona rossa, arancione, o gialla – per comodità abbiamo subito preso a dirci rossi, gialli, arancioni; Natalia Aspesi ha scritto l’altro giorno: “Tu sei gialla? Io rossa, dici che è molto diverso? Ho letto e riletto ma non ho capito bene. La televisione l’ho spenta perché ti viene voglia di prenderli a schiaffi”.

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Ovunque, qualsiasi sia la latitudine, la longitudine, l’RT, si ha un coprifuoco da rispettare. Un coprifuoco come in guerra, come dopo gli attentati islamici che credevamo sarebbero stati la cosa peggiore che avremmo visto in questo secolo nuovo e già mezzo morto, e che il futuro ce lo facevano immaginare denuclearizzato e spento, fluido e desertificato, svuotato, anonimo, smarrito, con tutto da rifare, le colonne sgretolate, il grande spettacolo delle macerie sotto casa e sopra tutto. A marzo del 2017, Vasco Brondi pubblicava un disco, “Terra”, con dentro un pezzo che si chiamava “Coprifuoco” che lui raccontava di aver scritto ripensando a un viaggio a Mostar, in Bosnia, perché lì si era reso conto che, una volta frantumate, le cose sono indistinguibili; una volta crollati, i minareti e i campanili sono identici, identicamente ed eternamente friabili. Quella canzone disegnava il dopodomani così come pensavamo sarebbe stato, e faceva così: “Chiuderai gli occhi per vedere fuori, l’inverno più mite degli ultimi diecimila anni, quei quattro alberi, i tuoi santi protettori e tua madre, madonna degli affanni, e dove c’era un minareto o un campanile, c’è un albero in fiore tra le rovine, ci siamo noi due accecati dal sole, mentre cerchi di spiegare cos’è che ci ha fatto inventare la torre Eiffel, le guerre di religione, la stazione spaziale internazionale, le armi di distruzione di massa, le canzoni d’amore”. Ora è diverso. La pandemia ha cambiato tutto, anche lo scenario dell’apocalisse, anche l’apocalisse stessa: ci ha suggerito (ricordato?) che la fine del mondo non coinciderà con la fine dell’umanità, e anziché in un crollo, in un vortice, in un’inondazione, potrà manifestarsi in un contagio, un alito di vento. Le strade deserte, le città svuotate come quelle del Far West ma senza polvere, con le persone scomparse anziché estinte: sono queste le immagini che, adesso, associamo alla distopia. Sono scomparsi i crolli, sono scomparse le macerie, non ci son più le ombre. Le foto delle città di notte non sono cambiate, ma quelle di giorno sì: è il nitore, con il suo rumore bianco, a rappresentarci il pericolo. La fine del giorno ha la luce e il colore di un giorno interminabile, che è quello nel quale viviamo, perché ci incontriamo prima che sia notte, e perché la nostra vita s’è fatta meccanica, ripetitiva, automatica. L’imprevisto è scomparso, tutto è regolarizzato, prenotato, tracciato – tranne il tracciamento, quello è saltato: qualche paradosso è rimasto in piedi, a segnalare che siamo ancora vivi. E’ alle creature dell’ombra che il folklore, le favole, le fiabe, le canzoni, le commedie romantiche, i romanzi hanno sempre affidato l’imprevisto. E’ di notte che si viene posseduti dagli spiriti malvagi e assaliti da quelli dispettosi (il monachicchio e il maranchino), di notte si diventa lupi mannari, vampiri, spie. Di notte si esce fuori di sé, almeno dal sé convenzionale, e si vaga liberi e sfrenati, ubriachi, dissennati, tirando mattina, a volte mascherati, senza la zavorra dell’identità.

 

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Era di notte che si tenevano le orge, che Dioniso entrava e usciva nel corpo e nella mete delle ragazze, dei ragazzi, delle bestie, scambiandone le nature, usandone i corpi come palcoscenici. Di giorno, invece, si facevano i sacrifici e le esecuzioni, di modo che tutti vedessero, testimoniassero, apprendessero. Al buio della cecità stavano Tiresia l’indovino e la dea Fortuna. Alla luce stanno i conti e la meritocrazia (per chi ci crede, per chi l’insegue). Non c’è rimasto che stare al sole. Sui balconi, come nel primo lockdown, quello duro, e in pausa pranzo adesso, nel lockdown ammorbidito. Siamo alunni del sole, inchiodati alla società dell’evidenza che tanto avevamo sognato, idealizzato, invocato e voluto. Il sole però è un pessimo maestro: acceca, e quindi insuperbisce. E’ al sole che Icaro s’illude di potersi avvicinare, ed è il sole che gli scioglie la cera delle ali, facendolo precipitare giù, e morire. La scomparsa della notte dalle nostre vite è un fatto così spaventoso che non lo abbiamo ancora messo a fuoco se non nei termini più banali: la sospensione della mondanità. Certo, c’è anche quella, ma c’è prima di tutto la scomparsa dell’ombra, l’impossibilità di calarsi nel buio, di attraversarlo. Abbiamo tentato di salvare le favole per bambini da questa estromissione che si è sostanziata nell’assottigliamento dei cattivi, nell’espunzione dell’irregolarità, del disturbo, della morte, della paura, e adesso è dalla nostra vita quotidiana che, per decreto, sparisce il buio, e ci tocca scegliere tra noi e lui – noi, naturalmente: dobbiamo scegliere noi stessi. Proprio adesso che cominciavamo ad accettare il lato oscuro delle cose, delle storie, delle vite, risvegliandoci dal sonno degli hashtag, succede qualcosa che ci costringe a vivere dentro la luce: del giorno, delle analisi, dei numeri, della verificabilità. Portiamo continuamente all’evidenza quello che succede nel nostro corpo: se vai in zona rossa e torni in zona gialla, devi farti un tampone; se vai a lavoro in posto pieno di persone, devi farti un tampone; se vai in ospedale, devi farti un tampone. Non c’è più modo di ignorare, e nemmeno di mentire, e nemmeno di dividersi, di vivere scissi tra ruolo e vocazione, tra sogno e ambizione, tra desiderio e voglia. Tutto è diventato univoco, perché tutte le cose sono esposte. I teatri, i luoghi del sogno e del doppio, sono chiusi. A teatro, ha detto una volta Gabriele Lavia, cioè che è più difficile fare non sono le luci, ma le ombre. Noi che cercavamo disperatamente la complessità, siamo costretti alla facilità. Quest’impero della luce è l’ultima delle cose che abbiamo voluto ottusamente e che il Covid ci ha sbattuto in faccia, in forma di contropartita.

 

Alcuni anni fa, lo studio Nbbj progettò per Londra un complesso di due grattacieli che non facevano ombra: quando il primo ne creava una, l’altro ci rifletteva sopra la luce del sole. La ragione era semplice: si voleva contrastare il rabbuiarsi delle strade, risparmiare l’energia necessaria a illuminarla artificialmente. Non era immaginabile il mondo di ora, con la notte che non si posa su anima viva, che si ferma fuori dal balconi, s’arresta a piano terra. Dai palazzi non si vede più nessun marito o nessuna moglie sgattaiolare via, né al mattino presto s’incontrano quelle donne che hanno dormito fuori, e si sono rivestite con l’abito della sera, quella donne che erano uno dei momenti di trascurabile felicità di Francesco Piccolo, e che a tutti i posti, anche i paesi irpini, davano un senso metropolitano di peccato, interruzione della norma, segreto: vita, sale.

 

Agli amanti è preclusa la notte. Non che prima fosse poi troppo diverso: gli sposati adulteri il sesso lo facevano negli alberghi vicino alle stazioni durante la pausa pranzo anche prima del coprifuoco. I colleghi che tradiscono le mogli e i mariti li riconoscete (li riconoscevate) sempre da un dettaglio: il portapenne pieno di penne di alberghi della città in cui vivono (chi va in albergo nella città in cui vive, se non qualcuno che debba fare qualcosa che non può fare a casa sua?). Ma gli alberghi sono chiusi, o troppo tristi, col personale dimezzato, il frigobar senza niente, le zanzare morte nel bidet, la polvere: nessuno ci va più. L’amante lo incontriamo a pranzo, in una tavola calda terrificante che è persino più squallida di quei ristoranti di periferia dove, quando la notte non era troppo piccola per noi, i fuggiaschi delle unioni civili andavano a mangiare dopo aver scopato, per dimostrarsi vicendevolmente che non avevano scopato e basta, no: loro si erano amati.

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Evitiamo la tavola calda, allora, e asportiamo una pizza e un amante: ed eccoci che, con lui o con lei, camminiamo dove prima, con lui o con lei, non avremmo mai camminato, alla luce del sole, in centro, con una pizza che sa di supplì che sa di patatine in una mano, e una coca-cola nell’altra, la birra no perché poi si torna in ufficio, ovverosia a casa, e non vorremmo puzzare d’alcol mentre nostra figlia fa le equazioni sul nostro stramaledetto pc, seguita da nostra madre in videochiamata, nostro marito in smartpresenza, e noi oltre che infedeli pure ubriache.

 

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Bevete coca-cola, ché per il vino c’è tutta la notte. Il vino lo beviamo in casa, i bistrot e le osterie e i bar e i locali e gli angolini notturni chiudono prima che sia notte, quindi non aprono mai, che senso avrebbe, chi lo vuole un prosecco alle 17.30, che accidenti te ne fai di una vodka in corpo prima delle undici di sera, quando non hai niente da nascondere, e nemmeno niente da esibire. Tutti compriamo alcolici, ci fotografiamo con un bicchiere accanto al pc, ai fornelli, al bagnoschiuma: il vino è diventato una cura domestica, serve a sopportare, non a cancellare, o sfrenare. L’alcol non è più coraggio liquido: è un angelo custode. Non prendiamo più dal calice degli altri, dalla bottiglia degli altri, dal piatto degli altri. Non lecchiamo nemmeno dal cono degli altri. Non ci servono più il gelato nel cono: solo in coppetta, con sopra un copri coppetta che sembra una mascherina. Lo mangiamo da soli, il gelato, anche se è quasi inverno, ma è un quasi inverno mite, un autunno temperato, una stagione unica che dura da marzo. Gli amici li vediamo a colazione, come le madri dei compagni di scuola, o come le ex compagne di scuola: è presto, non è successo ancora niente, non abbiamo niente di cui parlare, non abbiamo notti da confessare, non ci sono più i pettegolezzi, ci sono soltanto bollettini, paure, ansie, litigi familiari, eventi annullati. Per la prima volta, gli amici non ci sembrano indifferibili. Ci sorprendiamo a pensare, mentre li guardiamo alla luce delle 9 del mattino, che non li vedevamo alle nove del mattino da quando tornavamo dalle serate in discoteca a vent’anni, e chi ce lo dice che loro non abbiano mai smesso di fare quella vita promiscua, e chi ce lo dice che non stiano frequentando chissà chi, e che non siano infetti? Ci sorprendiamo a dire agli amici, la volta dopo, al secondo o terzo o decimo invito a colazione, che siamo contatto di contatto, in fila per un tampone, scusami tanto, non vorrei esporti a un pericolo, magari ci vediamo su Zoom – una frase improvvisamente così antica, o forse solo demodè.

 

I colleghi li incontriamo a merenda, poco prima che tutto chiuda, così possiamo scappare con una scusa che è una scusa ma è anche la verità: chiude tutto, perdonami, continuiamo domani, dopo, nel 2021, tanto per ora cosa vuoi programmare, i soldi sono finiti. A casa non invitiamo più nessuno, a meno che non ci abiti vicino e non sia motorizzato: a meno che il ritorno a casa non gli sia facile e agevole. L’amico di sesso è bandito, perché l’amico di sesso potrebbe usare la scusa del coprifuoco per fermarsi a dormire da te e così in men che non si dica, quasi quasi a tua insaputa, entro Natale, ti ritrovi fidanzata con una manica di disoccupati con i quali, nel mondo di prima, eri felice di chiacchierare e fare sesso, e nel tuo bagno ci sono sei spazzolini, ciascuno di un amico occasionale diverso, ciascuno convinto di avere con te una relazione stabile. La vuoi, tu, una relazione stabile, in questo mondo assolato e desolato? No che non la vuoi, ma dirlo adesso ti sembra così orribile, e triste, e pericoloso, metti che il lockdown dura un altro anno, un altro lustro, un altro decennio, che cosa farai, resterai da sola in casa a guardare i gatti che guardano nel sole?

 

Il governo belga ha previsto per decreto che ciascun cittadino usufruisca di un coccolatore di professione, uno che ti venga a casa e ti dia quell’affetto mercenario ma patriottico necessario a non rotolare nella depressione e a non cedere all’idea che tutto questo non finirà mai e allora tanto vale tirare su famiglia in quarantena con il primo barista disoccupato che passa. La notte non è più tormento perché nessuno agisce in ombra, e allora a nessuno serve il sollievo. La vita ha perso il buio, la luce ha perso l’antagonista, il domani ha perso la miccia, l’alba ha perso lo stupore. Quando la notte sta per finire, ha scritto Emily Dickinson, è il momento di “preparare le fossette alle guance e stupirci di aver dato importanza a quella vecchia mezzanotte già dileguata che ci spaventò”. A noi, adesso, fa più paura il mezzogiorno.

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