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Napoli, la città in zona gialla nei numeri e rossa nei fatti

Francesco Palmieri

L’emergenza Covid conferma che è la città meno aritmetica d’Italia. La classifica tracciata con l’ultimo dpcm ha fatto della Campania una regione della fascia di rischio più bassa; invece la realtà quotidiana del capoluogo le restituisce una tinta che va dal rosso scarlatto al paonazzo

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Senza sorprese l’emergenza Covid assevera che Napoli, per antico destino, è la città meno aritmetica d’Italia. La classifica tracciata secondo i ventuno parametri fissati con l’ultimo dpcm ha fatto della Campania una regione “gialla”, ossia della fascia di rischio più bassa; invece la realtà quotidiana del capoluogo, che è assai diversa da quella di Benevento o Avellino, le restituisce una tinta che va dal rosso scarlatto al paonazzo (con una coloritura di vergogna ancora non attribuibile precisamente). Forse per eccessiva dimestichezza con una numerologia qualitativa tutta sua, che riporta più alla sfera cabalistica della Smorfia che alla statistica epidemiologica contemporanea, Napoli sta rappresentando in questi giorni uno spiazzante mistero.

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Senza sorprese l’emergenza Covid assevera che Napoli, per antico destino, è la città meno aritmetica d’Italia. La classifica tracciata secondo i ventuno parametri fissati con l’ultimo dpcm ha fatto della Campania una regione “gialla”, ossia della fascia di rischio più bassa; invece la realtà quotidiana del capoluogo, che è assai diversa da quella di Benevento o Avellino, le restituisce una tinta che va dal rosso scarlatto al paonazzo (con una coloritura di vergogna ancora non attribuibile precisamente). Forse per eccessiva dimestichezza con una numerologia qualitativa tutta sua, che riporta più alla sfera cabalistica della Smorfia che alla statistica epidemiologica contemporanea, Napoli sta rappresentando in questi giorni uno spiazzante mistero.

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Napoli, “gialla” per quota di riempimento dei posti di degenza e di terapia intensiva. Ma “rossa” per afflussi ospedalieri drammatizzati nelle scene più tristi: un paziente in attesa che muore nel bagno del Pronto soccorso all’ospedale Cardarelli; infermieri che assistono con bombole d’ossigeno i contagiati del coronavirus accodati nelle loro automobili; ambulanze introvabili o insufficienti per le urgenze del 118; carenza di personale sanitario nelle rianimazioni.

  
Eppure i numeri racconterebbero una dimensione parallela che vira verso i gialli del pantone: per esempio, che i posti letto di terapia intensiva disponibili nella regione erano l’11 novembre 590, di cui 181 occupati, e quelli di degenza 3.160 (2.077 occupati). E che ieri, per lievitazione repentina, i posti di terapia intensiva sono saliti a 656 (192 occupati) mentre i pazienti in degenza ordinaria sono diminuiti a 1.944. Sempre nelle ventiquattr’ore. Sono numeri in portentosa variazione rispetto al primo di questo mese, quando i letti delle terapie intensive erano 227 (170 occupati) e quelli per le degenze 1.500.

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Sebbene Napoli si sia prestata molto spesso a fare da set cinematografico o teatrale a opere di successo, è arduo ritenere – nella città meno aritmetica d’Italia – che le emergenze viste e filmate, vissute e riferite, siano frutto dell’enfasi partenopea. E che invece le cifre aggiornate quotidianamente sul portale della regione Campania raccontino una verità da mosaico.

 
Se un marziano in mascherina o un più modesto ingegner Cazzaniga arrivassero oggi, con una navicella o il Frecciarossa a Napoli, assistendo alle file davanti all’ospedale Cotugno e al Cardarelli si domanderebbero come mai il governatore campano Vincenzo De Luca non chieda a mani giunte il lockdown. Quel che invocava (“chiusura totale”) il 23 ottobre scorso, in una situazione che i numeri – sono sempre loro – fotografavano molto meno drammatica. Chi adesso si aspettava un’adlocutio urgente via Facebook, ha potuto registrare nelle ore più recenti solo l’auspicio di un altro De Luca, non Vincenzo ma Erri lo scrittore, il quale è contrario alla “chiusura totale” e confida nella capacità di comportamento dei napoletani.

  
Si fida poco di loro, però, il De Luca governatore, il quale ha sfornato nei mesi scorsi non meno boutade che posti di terapia intensiva (i lanciafiamme, i cinghialoni, il fratacchione, allauìn e altri assidui suggerimenti a Crozza): nel suo asperrimo conflitto con il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, continua a invocare la chiusura del lungomare e la diradazione delle vie del centro, ovvero lo svuotamento del presepe dai pastori. Il governo per parte sua promette “un segnale” dello stato con l’invio dei militari, forse per il timore di nuovi disordini di piazza, secondo schemi che Napoli ha ripetutamente conosciuto da tempi immemorabili e vicereali.

   
Ma chi gestisce il bancolotto, e chi estrae i numeri, nemmeno questa volta è la popolazione napoletana: tutt’al più se li va a giocare, puntando sulla sorte più che sui viceré e tampoco sui governatori. Fosse ancora vivo Nanni Loy, avrebbe scritto un corsivo straordinario. Per ricordare che lui sì, queste cose le aveva capite in anticipo scrivendo e dirigendo Mi manda Picone, dove raccontò la storia di un operaio napoletano che si diede fuoco e morì oppure no, perché si dissolse con l’ambulanza che l’aveva soccorso né si riuscì a capire in quale ospedale lo portò e se ce lo portò. Anzi probabilmente alla fine Picone era vivo, era una sorta di Gatto di Schrödinger, il paradosso della città dove per dire che uno è pazzo si dice, guarda un po’, che “ha dato ‘e nummere”.

 
Non ci si poteva illudere che il Covid, tra le tante cose che ha cambiato, riuscisse anche a cambiare quest’antica e così poco aritmetica storia di Napoli.

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