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Il foglio del weekend

L’ultimo giorno da Harvey Weinstein

Simonetta Sciandivasci

Emma Cline si è calata nell’abisso di Weinstein per raccontare come in un romanzo la sua vita da mostro

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Harvey. Quello. Il ciccione. Il maiale. Il nemico. Lo stupratore. Il male. Emma Cline ha scritto un libro sul suo ultimo giorno prima del processo, l’ultima cena con la figlia e la nipote, a casa di un amico perché lui non ne aveva più una, l’ultimo bagno in una vasca non sua, l’ultimo vestito ben stirato, le ultime telefonate, l’ultima chiacchierata, e tutte le cose che ha fatto nelle 24 ore prima di finire in prigione, condannato a 23 anni, colpevole di stupro di primo e terzo grado nei confronti di due donne, due delle decine e decine di altre che lo hanno accusato di tutto, molestie, sevizie, ricatti, traumi, abusi.

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Harvey. Quello. Il ciccione. Il maiale. Il nemico. Lo stupratore. Il male. Emma Cline ha scritto un libro sul suo ultimo giorno prima del processo, l’ultima cena con la figlia e la nipote, a casa di un amico perché lui non ne aveva più una, l’ultimo bagno in una vasca non sua, l’ultimo vestito ben stirato, le ultime telefonate, l’ultima chiacchierata, e tutte le cose che ha fatto nelle 24 ore prima di finire in prigione, condannato a 23 anni, colpevole di stupro di primo e terzo grado nei confronti di due donne, due delle decine e decine di altre che lo hanno accusato di tutto, molestie, sevizie, ricatti, traumi, abusi.

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Prima di questo libro, Cline ne aveva scritto un altro sulla setta di Charles Manson, “Le ragazze”. Aveva 26 anni. Ora ne ha pochi di più, è un’autrice molto amata, stimata, seria. Il titolo originale di questo suo lavoro su Weinstein è “White Noise”, Rumore Bianco, il titolo del romanzo di Don De Lillo che Weinstein, nella sua storia, vagheggia di trasporre in un film, e chi lo sa se è vero, perché questo non si capisce mai: se l’incontro tra lui e lo scrittore avvenga o sia soltanto una speranza, un’allucinazione, una bugia, un pensiero per tenersi impegnato, una forma di resistenza. 

  
Emma Cline ha immaginato Weinstein come una donna immagina un ex marito, con quel sentimento svuotato che arriva anni dopo il divorzio, dopo l’odio, la rabbia, la guerra, e come una ex moglie fa con un ex marito, lo ha soltanto guardato, guardato a fondo, notando tutto, trovandolo in tutto, nei pantaloni, nel dopobarba, nel numero di volte (inutili) che chiede scusa, nelle parole che si fa sfuggire e in quelle che riesce a non dire, in quello che mangia, in quello che beve. Paola Jacobbi ha scritto su Marie Claire che di Weinstein non ci importa più niente e forse è vero, ed è la ragione per cui lo sguardo di Cline è tanto limpido, tanto onesto e libero, come se maneggiasse una storia di mille anni fa, un sopruso razziale i cui protagonisti, vittime e carnefici, sono morti da secoli e sono diventati film, murales, adesivi nelle conversazioni su WhatsApp, parabole, persino aggettivi. 

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Solamente che non sono passati secoli, bensì anni, e dal processo solo pochi mesi: è stato a gennaio del 2020 che Weinstein è entrato in tribunale ed è stato a febbraio 2020 che è stato condannato ed è stato a marzo 2020 che è entrato in cella e s’è preso il Covid e le stesse che hanno brindato quando è andato in galera, hanno brindato quando è stata data la notizia del contagio. Weinstein è stato sconfitto e non appena ha cominciato a scontare la sua pena, il mondo, inclusa l’America, ha ammesso di avere il coronavirus, d’essersi ammalato di qualcosa da non sottovalutare, di dover badare a come respirava, si lavava, parlava con gli altri, abbracciava, toccava. L’Occidente chiude a chiave il persecutore delle donne, quello che ha creduto che coi corpi si potesse fare qualsiasi cosa, e immediatamente dopo un virus fa un salto di specie e attacca gli uomini e ne ammazza a migliaia e il solo modo di fermarlo è il noli me tangere. 

  
E’ stato questo a rimpicciolire quell’uomo che per due anni ha incarnato il male dei mali, il nemico pubblico numero uno, lo specchio dell’Occidente che collassa, il volto del patriarcato da distruggere? Oppure la sua irrilevanza è parte della pena che sconta? E’ irrilevante o lontano, Harvey Weinstein? Cos’ha da dirci, adesso, il romanzo delle sue ultime ore da uomo libero? Com’è successo che è diventato, improvvisamente, da uomo del sistema inattaccabile, da punta dell’iceberg, da pericolo pubblico, da padre padrino, a protagonista di una serie tv che non guarderemmo?
Se questo libro fosse uscito soltanto sei mesi fa, non saremmo probabilmente riusciti a perdonargli lo sconto che fa al mostro, trasformandolo in una maschera da levare per vedere l’uomo, un ex bambino che nella vasca si vergogna di insaponarsi “l’uccello moscio che non reagiva”, e poi si scaccola, e poi mangia cioccolatini alla menta anziché bere o drogarsi o fumare. Non gli avremmo perdonato l’assenza di condanna, e l’avremmo probabilmente confusa con il perdono, persino con una inaccettabile revisione della colpa. 

  
Una cosa importante che Emma Cline fa è raccontare lo stupore con cui Harvey Weinstein pensa a quello che gli sta succedendo, a come sia incapace di riconoscere il male che ha commesso perché è incapace di vederlo, alla fiducia ubriaca che ripone nel fatto che tutto andrà liscio perché lui conosce l’America, e l’America non sta nel New York Times ma nel giurato numero 5, “quello dal viso rubicondo che incrociava le braccia ogni volta che sul banco dei testimoni saliva una donna, uno cui sembrava dar fastidio che l’avessero sottratto a un lavoro onesto per prendere parte a quella pagliacciata”, l’America ha bisogno di Weinstein e dei suoi film, e lui lo sa, e lo pensa, e lo dice a sua figlia, che va a trovarlo insieme a sua nipote, le dice: tanta gente è dalla mia parte anche se non lo dice, ma ce n’è anche tanta che lo dice, sai che mi mandano tanti fiori, e messaggi, e torte. Una cosa che facciamo tutti, Emma Clina la fa fare anche a lui, e anche questo non glielo avremmo perdonato, sei mesi fa, il rendercelo così vicino: ogni mattina, cerca il suo nome su Google, sui giornali, legge cosa scrivono di lui i giornalisti e cosa i lettori, non si ferma fino a che non trova il commento di qualcuno che dice esattamente come la pensa anche lui, e cioè che quelle donne lo hanno voluto, cercato, persino sfruttato. Noi facciamo quella ricerca per controllare la nostra reputazione, Weinstein lo fa per trovare buone ragioni per credere che il processo gli restituirà la libertà, perché lui ha molto ancora da fare, e niente è imperdonabile, se Polanski che ha violentato una minorenne può ancora fare film e ricevere premi, perché lui non dovrebbe, lui che non ha mai toccato una minorenne? 

 
L’ultimo giorno da uomo libero, Weinstein fa colazione con un succo, ha “l’adrenalina che gli illumina il cervello”, va a farsi le infiltrazioni contro i dolori lancinanti che ha alla schiena e che però non gliela fanno piegare, anche se gli avvocati gli dicono di camminare più sbilenco che può, perché impietosire la giuria è importante, anche loro illusi che l’America sia ancora un paese pronto a fare uno sconto a un uomo che ha certamente sbagliato, ma lo ha fatto nell’esercizio dei suoi prodigi, un uomo che incarna il sale del paese, che s’è fatto da solo, e che col il suo sangue polacco e la sua istruzione statunitense ha costruito un impero pieno di balconi dai quali ha fatto affacciare tutte, tutti, chiedendo in cambio d’essere amato, talvolta coccolato.  

 
Ma lui era il coccolatore maximo, l’amante supremo, il gigante buono, lui sistemava tutti e anche l’ultimo giorno da uomo libero ha cercato di sistemare una donna: così ha immaginato Emma Cline, facendolo immaginare facile e possibile, persino ovvio, anche a noi. Weinstein va a fare la sua seduta di infiltrazioni e ad assisterlo c’è una giovane infermiera e lui si informa subito sulle sue vacanze, le cose che ha visto nel mondo, e trova che niente sia alla sua altezza, che lui può darle di più, che lei non merita di fare iniezioni in uno studiolo del Connecticut: la assumerà lui, la porterà in città, le farà vedere cosa significa essere vista e ammirata. 

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Il mondo che è finito in galera con Weinstein è quello in cui gli uomini hanno creduto per anni che fare il bene di una donna significasse darle una passerella, premiarla, obbligare tutti a vederla come loro la vedevano, obbligare lei a mostrarsi come loro la desideravano. Un mondo che non ha distinto il sogno dal sopruso, l’abnegazione dalla prepotenza, l’illusione dall’abuso. E’ così lontano? E’ così sconfitto? 

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Nel 2016, gli Stati Uniti hanno votato un presidente che diceva di prendere le donne per la fica, e i giornalisti che tirarono fuori il video in cui lo diceva si convinsero che tanto sarebbe bastato a sconfiggerlo, perché era sessista, e già allora il sessismo era il peggior crimine culturale che chiunque potesse commettere, e perché gli americani erano esigenti in fatto d’etichetta e buon gusto e compostezza e scandali sessuali. Quattro funesti anni dopo, quel presidente prende ancora un numero di voti impressionante. Dove sta l’America? La domanda di fondo di questo lavoro di Emma Cline è questa: dove sta l’America, nel perdono o nella condanna, nel mostro o nella maschera, nel tribunale o nella prigione, nella paura o nell’ammirazione? 

 
Prima di questo libro, a fare di Weinstein un soggetto letterario, e specificatamente drammaturgico, ci ha pensato David Mamet, che l’anno scorso ha portato a teatro la pièce “Bitter Wheat”, tuttavia accusata di “voler provocare senza aver capito niente del #metoo” (così scrisse Vanity Fair). Mamet ha scelto la farsa, Cline ha scelto il diario. Un diario dei sogni, di quelli che lo psicoterapeuta a un certo punto chiede ai propri pazienti d’impegnarsi a tenere per alcune settimane, o forse per sempre, perché anche i sogni e gli incubi sono vita, dicono la verità, dicono come sono le cose che ci succedono, e perché. 

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Ciò che è importante, in questo Harvey, non è che è fatto di bene e male, di luce e ombra, che costringe a ripensare a qualcosa che abbiamo chiuso e sigillato come se non potesse più interrogare il nostro tempo. E’ importante che non sappia vedere cos’ha fatto, che lo sminuisca ogni minuto, che non lo ritenga sufficiente per annientare la sua vita, che non accetti l’idea che il mondo possa immaginare di fare a meno di lui, tanto che lui continua a immaginare di fare cose per il mondo: il capro espiatorio, il nonno, un film da un Don De Lillo. 

 
E’ un bambino ed è un vecchio sovrappeso. Sente gli acciacchi, si strafà di Vicodin come il dottor House, e tenta di ripulirsi come John Self di Money: il suo corpo gli sfugge e gli è nemico sempre, anche senza una donna davanti a metterlo in difficoltà, a farlo sentire in dovere di conquistarla, a obbligarlo a mettersi al riparo dalla possibilità che lei lo rifiuti. Crede che per fare il genitore attento basti non rispondere al telefono che vibra tutto il tempo mentre sua figlia e sua nipote gli stanno davanti per l’ultima volta in un salotto senza polizia, che per esser pulito basti scusarsi per le parolacce, che l’innocenza sia un punto di arrivo e mai di partenza. 

 
Esagera, compra, adesca. L’adescamento è la sola forma di relazione che conosce. Quando sua figlia gli dice che deve tornare a casa, dopo l’ultima cena prima del processo, e lui solo in quel momento ammette che dal giorno dopo potranno essere separati per sempre, lui le dice di restare per il dolce, il caffè, l’ammazzacaffè, di restare a dormire, di andare con lui a vedere un film in una sala al piano di sopra piena di caramelle, dove tutto è in formato super. Lo ha fatto per tutta la vita: ha offerto il di più, l’irresistibile, il boccone migliore, il privilegio superfluo, il lucore. A perseguitarlo non è il pentimento per aver violentato senza accorgersene o accorgendosene e credendo che la cosa non avrebbe lasciato ferite, non è il pensiero di aver mandato tutto all’aria e aver perso il suo impero e la considerazione di tutti per farsi considerare da tutti dio. A perseguitarlo è una domanda infantile: perché, anziché amarmi, mi schifano? 

 
Ha avuto un mondo di donne addosso, prima nude e poi armate. Una donna lo ha difeso e una donna ha capito, al posto suo, che lui non può capire. 

 
Il processo a Weinstein è questo romanzo. Finisce senza sentenza. Finisce con due uomini che chissà se capiscono quanto sono maschi nello starsene “a tarda ora, in una buia notte d’inverno, a riflettere su quello che avrebbe portato il nuovo giorno”. 
 

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