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Beati i guariti, perché di essi è il mondo dopo le 22 (ma chi li vuole?)

Simonetta Sciandivasci

La sdg, società dei guariti, è una risorsa. Ma c’è sfiducia sociale

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Beati i guariti, perché di essi è il mondo dopo le 22, e la vita senza la mascherina, la libertà dall’angoscia. Di essi è il mondo di prima. Hanno sconfitto il virus, si sono immunizzati e anche se non è ancora stato stabilito con precisione per quanto tempo saranno coperti dagli anticorpi, qualche mese di impermeabilità al morbo se lo assicurano al cento per cento. No, va bene, meglio non esagerare con le certezze, ché qua di certo non è rimasto più niente, nemmeno le calcolatrici, peraltro vettori di contagio, con tutti quei tasti pigiati da chicchessia. L’immunità dei guariti è una questione aperta, ma aver contratto il Covid li preserva dal ricascarci almeno per qualche mese: è pacifico, al di là di ogni sospetto e al di qua di ogni tampone. Guarito è meglio che sano, più appealing innanzitutto per una questione di storytelling: vuoi mettere andare a cena con uno sano, che non ha che da dirti quante volte s’è lavato le mani e quante altre ha capito d’essere asintomatico, e invece uscire con un guarito che ti racconta quanta malasanità ha subìto, quanta trincea ha vissuto, com’è stato perdere l’olfatto e il gusto e poi riacquistarli e capire che niente nella vita conta più dei sapori e degli odori, e tu cretina che quando il fruttivendolo ti chiede se vuoi del prezzemolo lo guardi come se ti avesse chiesto come mai non hai figli. Tutte le porte si aprono ai guariti, e loro possono varcarle e uscirne senza bardarsi, possono sostituire i sani e gli ammalati, andare dove chiunque altro si contagerebbe, spingersi oltre il distanziamento sociale, sbattersene delle precauzioni. Possono vivere, vivere davvero.

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Beati i guariti, perché di essi è il mondo dopo le 22, e la vita senza la mascherina, la libertà dall’angoscia. Di essi è il mondo di prima. Hanno sconfitto il virus, si sono immunizzati e anche se non è ancora stato stabilito con precisione per quanto tempo saranno coperti dagli anticorpi, qualche mese di impermeabilità al morbo se lo assicurano al cento per cento. No, va bene, meglio non esagerare con le certezze, ché qua di certo non è rimasto più niente, nemmeno le calcolatrici, peraltro vettori di contagio, con tutti quei tasti pigiati da chicchessia. L’immunità dei guariti è una questione aperta, ma aver contratto il Covid li preserva dal ricascarci almeno per qualche mese: è pacifico, al di là di ogni sospetto e al di qua di ogni tampone. Guarito è meglio che sano, più appealing innanzitutto per una questione di storytelling: vuoi mettere andare a cena con uno sano, che non ha che da dirti quante volte s’è lavato le mani e quante altre ha capito d’essere asintomatico, e invece uscire con un guarito che ti racconta quanta malasanità ha subìto, quanta trincea ha vissuto, com’è stato perdere l’olfatto e il gusto e poi riacquistarli e capire che niente nella vita conta più dei sapori e degli odori, e tu cretina che quando il fruttivendolo ti chiede se vuoi del prezzemolo lo guardi come se ti avesse chiesto come mai non hai figli. Tutte le porte si aprono ai guariti, e loro possono varcarle e uscirne senza bardarsi, possono sostituire i sani e gli ammalati, andare dove chiunque altro si contagerebbe, spingersi oltre il distanziamento sociale, sbattersene delle precauzioni. Possono vivere, vivere davvero.

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Che Milano sia giù di tono lo si capisce dal fatto che a nessun milanese sia ancora venuto in mente di fondare un’agenzia interinale per guariti, che li spedisca a fare i lavori che gli ammalati e i sani non possono o non vogliono più fare, ovverosia tutti, a parte quelli intellettuali, che però come sappiamo non sono lavori veri. E così, mentre su Milano cade una triste e comprensibile nebbia, in uno studio legale romano, mentre si discuteva di chi mandare in udienza a Varese, dove il contagio ha indici rosseggianti, e tutti improvvisamente cominciavano a tossire, come in certe classi di liceo quando la professoressa di latino cerca volontari per leggere le “Bucoliche” in metrica, una socia ha proposto: mandiamoci Ennio (nome di fantasia), che il Covid lo ha avuto a settembre, ed è bello che guarito! Ennio, da dipendente leale e pure fedele, nonché cittadino esemplare e discreto patriota, accettava e subito s’apprestava a prenotare il viaggio su Trenitalia, dove si sarebbe goduto le poltrone distanziate, riparato non dal contagio, ma dal disturbo degli altri, dal loro inferno.

 

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I guariti sono l’unica vera élite di questa pandemia che ci vuole uniti indivisibili vicini ma irraggiungibili, e che è separatista, classista, razzista, sessista, divorzista e pure federalista, e ci ha divisi per censo, stirpe, domicilio, età, professione, irritabilità, e ci ha messi in fila, ci ha chiusi in casa, ha piantato un metro e mezzo tra di noi, tutti noi, inclusi mamme e figli, amati e amanti, maestri e allievi. E, soprattutto, ci ha resi peggiori. Inequivocabilmente peggiori. E infatti la società dei guariti (SDG) che mandi avanti la baracca finché non si trova un vaccino non si può fare, sebbene teorizzata con grande lucidità in quello studio legale romano da un’avvocatessa che è pure mamma e che a questo giornale ha detto: chi può fare da tata ai figli di Totti, se non una guarita? Chi altri può mettere piede a casa di una famiglia dove i genitori sono in isolamento e i figli sono piccoli e indifesi, così indifesi che una di loro si chiama Chanel? La ragione per la quale la SDG non si può fare è che dei guariti non si fida nessuno, sebbene loro sin dai primi mesi di pandemia si siano sottoposti senza remore a prelievi di sangue, di modo che gli scienziati potessero usare il loro plasma per iniettare anticorpi nei pazienti ammalati, sebbene continuino a circolare mascherinati, disinfettati, distanziati, zavorrati dai Dpcm come se fossero uguali agli altri. Nessuno si fida di loro perché della guarigione non c’è certezza, e così succede addirittura che vengono discriminati, emarginati come untori, e allora null’altro possono fare se non unirsi in gruppi d’ascolto e testimonianza (vedasi il gruppo “Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto), dove affidano a status di Facebook struggenti racconti di quando erano malati e di come il vicino li eviti e di come adesso, cazzo, stanno bene, meglio di prima: non hanno bisogno di niente, nemmeno di far finta di essere sani.

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