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Wedding planner da Protezione civile

Matrimonio col tampone e altre scene del nostro lockdown

Michele Masneri e Andrea Minuz

Sposarsi il giorno prima del nuovo dpcm. Cronache da un bacio in mascherina, con lancio di riso vietato e parenti distanziati. Pacchetto rapido, molecolare o sierologico, il regalo di nozze diventa antivirus

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Questo remake proprio non ci voleva. Siamo qui ad aspettare l’entrata in vigore del Decreto Ristori, mentre nessuno ha più tanta voglia di scherzare. La prima ondata era quasi divertente, abbiamo panificato e polemizzato, ci siamo finti podisti, abbiamo fantasticato su banchi a rotelle, gabbie di plexiglas in spiaggia, separé al ristorante, grigliate abusive in terrazzo. Ora si respira un clima di sorda isteria, di rassegnazione, di incazzatura ampia, radicata, diffusa. Si scivola nel lockdown lentamente, senza neanche l’adrenalina della prima volta, senza quell’aria da fine del mondo e “Invasione degli ultracorpi”, ma come risucchiati in una triste inevitabilità impiegatizia, nel tetro protocollo di errori, inadempienze, fatalità, ritardi, con una chiamata alle armi per “salvare il Natale”.

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Questo remake proprio non ci voleva. Siamo qui ad aspettare l’entrata in vigore del Decreto Ristori, mentre nessuno ha più tanta voglia di scherzare. La prima ondata era quasi divertente, abbiamo panificato e polemizzato, ci siamo finti podisti, abbiamo fantasticato su banchi a rotelle, gabbie di plexiglas in spiaggia, separé al ristorante, grigliate abusive in terrazzo. Ora si respira un clima di sorda isteria, di rassegnazione, di incazzatura ampia, radicata, diffusa. Si scivola nel lockdown lentamente, senza neanche l’adrenalina della prima volta, senza quell’aria da fine del mondo e “Invasione degli ultracorpi”, ma come risucchiati in una triste inevitabilità impiegatizia, nel tetro protocollo di errori, inadempienze, fatalità, ritardi, con una chiamata alle armi per “salvare il Natale”.

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MM: Un Natale sereno, è la promessa. E’ un Conte in versione Malaguti o Nocciolato Balocco. Come “vi garantisco una cosa”, a marzo, quando era in versione Churchill. Non lacrime e sangue, ma “quest’estate andrete in vacanza!”. In effetti in vacanza ci siamo andati, ma non è andata benissimo, diciamo. AM: Una buona definizione di questa fase non più numerabile me l’ha data infatti il tassista romano mentre mi accompagnava a fare il tampone: “è tutto come a marzo ma senza #andràtuttobene” MM: E com’è andata? Io l’ho fatto mercoledì sull’Appia, in un posto segretissimo dove si va senza prenotazione. Ho percorso la Roma livida in motorino, sono arrivato con la sciarpa congelata come Fantozzi a Courmayeur, ma mi hanno preso subito e dato subito il risultato. Una svolta. Certo è molto fastidioso, quando ti va su per il naso. Ma era la prima volta, non ho termini di paragone – ormai c’è tutto un popolo di esperti, che consigliano e danno giudizi sul tampone, c’è quello che non lo senti neanche e quello che “ti entra su fino al cervello”. Sto tampone po’ esse piuma e po’ esse fero. E il tuo?

 

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AM: Io centro diagnostico molto esclusivo, presso stabile signorile, dalle parti dei Parioli. Una dritta: mi dicono “stai tranquillo, vai lì che te lo fanno al volo”. Arrivo alle 8.30. Siamo tutti sul marciapiede di viale Liegi. C’è un ragazzo col giubbotto di renna, molto lampadato, molto pariolino. Smista la fila distribuendo numeretti scritti col pennarello su un pezzo di carta. Vent’anni fa avrebbe fatto il buttafuori all’Hysteria, ora fa il buttadentro al centro diagnostico, ti dà i consigli sulle analisi cliniche (“da’ retta a me, fatte fa er molecolare”). Era una folla molto composta: notai e avvocati di zona arrivati in monopattino, signore democratiche con Repubblica sotto il braccio, giovani influencer di Corso Trieste, molto rifatte, molto bionde, in tuta rosa, scarpe di pelliccia e borsetta di Prada. C’era anche una mini-colonia di filippini probabilmente mandati a fare il tampone dai padroni di casa. I filippini erano in una fila a parte, non si capisce se per segregazione o riunione spontanea. Uno era venuto già vestito da cameriere. Dal primo piano dello stabile si affacciava il dottore, dava istruzioni al buttadentro sull’ordine in cui farci salire. Le influencer si facevano i selfie, caricavano stories, provavano duck-face sugli specchietti dei motorini parcheggiati lì fuori. Era tutto così “zeitgeist”. Ero dentro la versione borghese e cinepanettonica delle code in macchina al centro carni sulla Palmiro Togliatti.

 

MM: Dobbiamo raccontarlo a Vanzina. AM: Per forza. Qui c’è tutta una trilogia già pronta. Dopo “Lockdown all’italiana”, “Tampone ai Parioli” e “Natale su Zoom”. MM: E “le Asintomatiche”, come delle nuove Finte Bionde. Questa volta ne conosciamo tutti, di positivi. Il Covid inopinatamente è arrivato anche a Roma, cosa che nessuno si aspettava, in una città che non è che frema proprio di scambi e di connessioni e di lavoro. Siamo diventati improvvisamente rilevanti? O saranno tutti i pischelli di Roma nord “super spreader” che si sono assembrati tra Cortina e Ibiza. AM: Siamo anche reduci da un matrimonio, il mio, che si è svolto nell’ultima finestra possibile prima del semi-lockdown, dopo estenuanti trattative, domande senza risposta, un fitto carteggio di mail con il Comune di Roma asserragliato in smartworking. E l’esperienza in effetti è stata unica. Alla fine ce l’abbiamo fatta, giusto il giorno prima del Dpcm. Sposi, anzi “congiunti” in un anonimo ufficio di sei metri quadri in via Petroselli: bacio nuziale in mascherina, lancio di riso vietato, parenti e amici rigorosamente all’esterno, ben distanziati, praticamente dispersi sul marciapiede. Grazie al Covid abbiamo realizzato il nostro sogno: un matrimonio agile e scattante come a Las Vegas però sotto casa e coi carciofi alla giudia, che in Nevada non sono proprio buonissimi.

 

MM: Io ho fatto il testimone in questa che è la Petroselli full experience. Ci siamo sposati tra stampanti ad aghi e fax del comune di Roma. Dico “ci”, perché nella concitazione, tra fascia tricolore e mascherina Ffp2, tua moglie ha sbagliato a firmare, ha firmato al posto del testimone, e io al suo, così salterà fuori tra qualche anno che io e te siamo sposati. Altro che legge Zan. AM: Comunque sempre in separazione dei beni. MM: Il matrimonio in tempo di Covid ce lo ricorderemo, come quelli in tempo di guerra dei nonni. L’inserviente mi ha subito gelato: “Non è che mi buttate il riso eh? Che ho appena pulito”, e un altro, siccome non trovavo la sala, mi ha preso per il braccio e sottovoce mi ha detto: “Mi perdoni, ma non è che si tratta di una unione civile?”, con tono cospiratorio. Un cartello dava indicazioni invece sui matrimoni in articulo mortis (primo piano). AM: Siamo stati fortunati, sospinti dalla forza dell’amore ce l’abbiamo fatta, contro Conte-Don Rodrigo e i governatori come i bravi (avevano ragione Sciascia e Arbasino: non si esce mai dai “Promessi sposi”). Pare che le file per chi si vuole sposare ora arrivino al 2023, diciamo che gli impiegati del comune di Roma hanno dato un’interpretazione estensiva al concetto di smart working. Si sono proprio dati.

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MM: Un altro momento che non dimenticherò è stata la lettura della poesia che la gentile funzionaria ha pregato di leggere. Una volta alle nozze in comune era tutto Neruda. Adesso invece ecco un componimento di Erri De Luca. Fa così: “Quando saremo due saremo veglia e sonno / affonderemo nella stessa polpa / come il dente di latte e il suo secondo, saremo due come sono le acque, le dolci e le salate / come i cieli, del giorno e della notte / due come sono i piedi, gli occhi, i reni / come i tempi del battito / i colpi del respiro”. La domanda è: come si diventa poeti ufficiali dell’anagrafe? C’è un concorso? Come funziona il copyright? Pare comunque un bel business. AM: De Luca (poeta, non governatore) avrà vinto il bando del Comune di Roma per “un posto da poeta matrimoniale presso via Petroselli”. E da noi il poeta di Stato a tempo indeterminato non può che essere anche No-Tav. Di lotta e di governo, in rima e in prosa. Però è chiaro che la questione dirimente anche in questa “splendida cornice” è stata quella della ristorazione. Coi distanziamenti e il divieto di assembramenti, il limite dei trenta invitati, poi sceso a sei nei ristoranti, abbiamo dovuto spacchettare tutti gli inviti. Con la lista di nozze su Amazon (consigliatissima!) i regali sono arrivati quasi subito, a quel punto non potevamo più sottrarci. L’organizzazione della festa è diventata un pezzo di teatro dell’assurdo. Altro negoziato estenuante con un celebre albergo della capitale, d’intesa con i rappresentanti sindacali, Federalberghi e il commissariato di zona, per capire tutto il gioco di rimbalzi, scaricabarile e responsabilità legali in caso di denuncia. Ci sarebbe voluta una wedding-planner della Protezione civile. Noi volevamo fare una cosa molto leggera e rilassante, servizio alla francese, camerieri coi cocktail nei vassoi, brindisi e tutti a casa per le 23.00. Macchè. Abbiamo dovuto spacchettare gli inviti e ripiegato su una raffica di cene e pranzi nello stesso albergo, seduti, distanziati, sempre con lo stesso menù, per tre settimane di fila. Dicevamo come tutti e come sempre “non vorremmo fare un matrimonio troppo tradizionale”. Però non osavamo mica immaginare tanto. Non pensavo di finire in questa performance da Biennale d’Arte, un po’ giorno della marmotta, un po’ “El angel exterminador” di Buñuel: la sensazione di rivivere sempre la stessa scena, nello stesso posto, con lo stesso “finger food”. MM: Forse sarà uno di quei cambiamenti introdotti dal Covid che rimarranno nel tempo, come gli anziani che hanno imparato a fare la spesa online. Almeno una settimana di festeggiamenti, per ogni matrimonio spacchettato. Anche per le nozze meno abbienti. Anche il più nullatenente ormai avrà festeggiamenti da Ferragnez in Sicilia o da indiani in Puglia.

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AM: Forse è voluto, avrà ricadute sul Pil, farà parte del decreto Ristori, tutta un’ala del “Mes” per rilanciare i catering. MM: Da notare poi come linguisticamente ci sia stato uno scarto notevole rispetto alla fase 1. L’attesa di tutti non è più per il freddo e tecnicistico “Dpcm” ma, appunto, per i “Ristori”, parola che evoca il Foscolo, come ha scritto Guido Vitiello. “Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte”. Viene in mente anche Ristora, quello delle bevande calde solubili. Comunque una sensazione piacevole, di caldo conforto. AM: Giuseppe Conte entrerà nei libri di storia, come diceva anche lui ai tempi del primo lockdown. Ma anche nelle storie della letteratura italiana, perché incarna alla perfezione tutto il nostro dramma linguistico: gergo aulico-notarile su fondo dialettale-amministrativo. Quella micidiale non-lingua scaturita dalla fusione a freddo tra puntiglio sabaudo e metafisica borbonica, una lingua che danza intorno alle cose, che scivola sopra i fatti con grandi arabeschi, senza mai toccarli, né sfiorarli.

 

MM: Tè Ristora o caffè Borbone? E’ chiaro che quando il gioco si fa duro, l’italiano si butta sul libretto d’opera, sul risorgimentale-romantico (il tormentone del “lombardo-veneto”, ve lo ricordate, nella fase 1?). Adesso ecco il Decreto ristori, senti come suona bene, evoca Adelaide Ristori, attrice umbertina, e una via dei Parioli a lei intitolata. O il conte Ristori di Elisa di Rivombrosa. Evocato tra l’altro da un’intervista di Alessandro Preziosi di qualche giorno fa sul Corriere, a ricordare le sue imprese filmiche. “Subdola e repentina” è poi l’impennata della curva epidemiologica, ha detto non il Conte Ristori, ma proprio Giuseppe Conte, in Senato. AM: Capisci che adesso viene meno il contatto emotivo col paese perché non ci sono i riferimenti “pop” di prima: “Restiamo distanti oggi per abbracciarci più forte domani” era puro Tiziano Ferro con un pizzico di striscione da Curva; “questo governo non lavora col favore delle tenebre” era una citazione da Batman. Ora siamo siamo ai libretti di Giacosa. MM: A questo punto siamo in grado di prevedere i prossimi decreti. “Il lockdown non ci accorda che poche ore”; “Vissi di Dpcm, vissi di tampone”. AM: “Pieno è il paniere, ma fame non ho!”.

 

MM: A proposito di paniere, questa volta la resistenza civile è chiaro che passa dalla tavola. Certo, ci sono gli scalmanati che mettono a ferro e fuoco le vetrine di Gucci, ma la vera rivolta riguarda il cibo. Con la seconda ondata addio lievito madre e penne lisce. Si vuol mangiare fuori, non importa a che ora. AM: C’è la cena antelucana del sindaco di Venezia all’osteria Plip di Mestre. “Questo è la cena di gala delle 5 del mattino”, dice il gestore del locale, David Marchiori, che ha deciso di mettersi in cucina in piena notte per protestare contro le norme del governo. E di aprire non appena consentito dal Dpcm, cioè alle cinque del mattino. Siamo sempre lì: la ristorazione è l’unica cosa seria in questo paese (cit.). Le battaglie civili da noi partono tutte da lì. MM: Mao si sbagliava: In Italia la rivoluzione è un pranzo di gala. AM: Mentre ora si porta il pasto eversivo. A Pesaro, cena in novanta, raccattati con appelli su Facebook, tipo carbonari sotto il dominio austriaco. Entra la polizia e gli avventori hanno continuato a mangiare pizza, urlando e brindando: “unitevi a noi”, “libiamo!”. Il gestore ha di fatto garantito ai clienti la cena fino al dolce, scrive l’Ansa. “Potete arrestarmi”, ha urlato, “ma io non chiuderò mai”. Già pronti gli slogan modulati sul lessico civile dell’antimafia: “potete anche arrestarci ma le nostre idee continueranno a camminare sulla gambe di altri tavoli”. L’irruzione è stata anche seguita in diretta social su un’emittente locale e su profili privati: “Poco prima centinaia di persone, lavoratori e titolari di bar, ristoranti e palestre, erano scesi in piazza del Popolo, per una manifestazione autorizzata dal prefetto, che ha accolto una delegazione dei manifestanti. In altri tempo, lockdown, coprifuoco, cinema, teatri e ristoranti chiusi, erano le basi di ogni buon golpe. Oggi il progetto eversivo della destra è andare a cena fuori in trenta, tenere aperto il locale fino a mezzanotte, allenarsi in palestra di nascosto. É tutto così alla rovescia. D’altro canto, la difesa dei teatri la sta facendo Salvini: “trenta sindaci della Lega terranno aperti i teatri!”

 

MM: L’idea è che siamo andati tutti un po’ in confusione. Tutto sullo stesso piano, in un’isteria collettiva assente nella prima fase. Molto sdegno per i teatri chiusi, laddove nella prima fase erano le librerie (“un attentato alla costituzione”). Baricco dice che i teatri sono come le chiese e le palestre, “sono tutti posti in cui si costruisce la salvezza della gente”, ha scritto. “Sono i luoghi in cui possiamo resistere, esercitare la nostra fermezza morale”. Addirittura? Non sarà un’esagerazione? Avrà dei problemi con gli squat? Persino Veltroni sbrocca. Dopo essersi costruito un fior di credibilità bipartisan ecco che esplode all’improvviso: ma come, le chiese aperte e i teatri chiusi? Tutti luoghi poi notoriamente affollatissimi.

 

AM: Ma qui si apre l’imponente capitolo sull’isteria per l’Arte e la Cultura e la Bellezza che si impossessa dell’italiano solo con la pandemia o la minaccia di qualche novità tecnologica, dalla televisione all’iPhone (e che comunque viene sempre dopo l’isteria per le ferie, saldamente al primo posto). Ecco che all’improvviso pare di vivere in un paese di lettori forti, assidui frequentatori di cinema d’essai, teatri, opera lirica, quando semmai l’unico vero incubo condiviso e inconfessato è lo spettro di un Sanremo tutto su Zoom e un dopofestival in diretta dal San Raffaele, presentato da Zangrillo. Però non c’è niente da fare: chiude un teatro e quel teatro diventa l’ultimo baluardo della Bellezza. Chiude una libreria scalcinata del centro in cui non entrava quasi nessuno e muore la cultura. Adesso c’è questa incontenibile voglia di sala cinematografica che travolge la società civile. Solo che se la metà di quelli che oggi sono indignati andasse al cinema due volte l’anno da mo’ che avevamo risolto i problemi. L’Arte Cinematografica tutta incentrata sulle dolenze degli Autori diventa improvvisamente con la pandemia e il lockdown un “lavoro”, un’“industria”, una “filiera di professioni”, un “volano per il paese”. Durante il resto dell’anno, invece, artistico sprezzo degli incassi e dello spettatore, come la messa in latino con le spalle al pubblico. Se ti azzardi a dire che un film è un “prodotto” si incazzano tutti perché un film, si capisce, è “un’opera”. E’ bello che in questi giorni si sforzino di raccontare lo spettacolo e il cinema come un lavoro, un insieme di professioni, un campo regolato dalla legge della domanda e dell’offerta o quasi. Ma dovrebbero farlo sempre.

 

MM: Però a scendere in piazza, più che i teatranti, sono stati soprattutto personal trainer e cuochi. Al Pantheon, a Roma, cappelli da cuoco bianchi in mezzo a tute degli istruttori di ginnastica. Baristi, camerieri, lavapiatti e cuochi tengono ognuno un cartello con i numeri della crisi, scrive la Repubblica. Arriva Salvini. I ristoratori di “Armando al Pantheon” si tolgono il cappello bianco in segno di protesta. Claudio Gargioli che insieme al fratello Fabrizio gestisce lo storico locale: “Nessuna forza politica deve cavalcare le nostre difficoltà”. Una clamorosa nemesi per il politico che più di tutti aveva sdoganato il cibo nella sua narrazione, con le dirette notturne in cui sgranocchia snack e avanzi dal frigo, con le mille stories su Instagram alle prese con le prelibatezze regionali, coi banchi da sagra dei suoi comizi (non dimenticheremo mai gli assaggi del pomodoro Torpedino, l’anno scorso a Sabaudia, ultimo comizio prima delle dimissioni). AM: Il tema dei ristori, inteso come ristorazione, travolge anche la questione delle famiglie e dei diritti gay. Il Papa passa subito in secondo piano: l’anima mia s’acqueta in Dio solo, ma non trova ristoro.

 

MM: Nella discussione alla Camera per la legge contro l’omotransfobia sfilano tutti i maschioni di Lega e fratelli d’Italia, contrarissimi a che non si possano più vessare gli omosessuali (dove si andrà finire, di questo passo?). Ma dopo una prima giornata di votazioni, ecco il colpo di genio. “Glielo dico io qual è la discriminazione”, salta su l’onorevole Raffaele Trano (già M5s, poi espulso): “è uscita venti minuti fa un’agenzia secondo cui il ristorante della Camera rimarrà aperto, in barba al Dpcm”. Subito sdegno generale. “Così rischiamo di passare per Casta”, gli fa eco il collega Rizzetto (Fratelli d’Italia). “Nessun deputato vi accederà finché anche gli altri ristoranti non verranno… ristorati!”, si ingarbuglia Rizzetto nella foga. AM: Sia fuori che dentro il Palazzo è tutto saltato, è tutto confuso. “Fai il molecolare?”, ti chiedono. Ma una volta c’era la cucina “molecolare”, ora solo il tampone. MM: Ci sono le proposte dei cuochi riflessivi. Massimo Bottura lancia cinque idee concrete per salvare il settore: chiusura serale almeno alle 23. Liquidità in proporzione ai fatturati. Cassa integrazione almeno fino alla stabilizzazione del turismo europeo. Decontribuzione. Abbassamento dell’ Iva al 4 per cento.

 

AM: Il meno celebre Simone Iualè lancia un’iniziativa che definisce “una provocazione”: stanze gratis a chi cena nel suo hotel. Iualè, titolare de La Rosa dei Venti a Monte San Giusto e presidente provinciale degli albergatori, ha deciso di prendere questo provvedimento per permettere alle persone di cenare anche dopo le 18. “Non vedo la differenza tra chi consuma la cena perché alloggia in albergo e chi non può concedersi una cena al ristorante – spiega – entrambi arrivano dall’ambiente esterno. E’ come se il virus navigasse a orari e questo è assurdo”. MM: Ma intanto tu che hai fatto? Il rapido? Il molecolare? Il sierologico? AM: Ho fatto il pacchetto base: “Tampone fuori porta per due”, come le smartbox. Mentre scrivevamo il pezzo mi è arrivata la mail con le parole più belle del mondo, che non sono “ti amo” ma “non si preoccupi, è negativo”.

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