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Il foglio del weekend

La Napoli velata

Antonio Pascale

Una volta era la nebbia, oggi sono lacrimogeni, bombe carta e frustrazioni. La città che si scopre per coprirsi

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Di sicuro sarà effetto della suggestione, oggi, a Napoli c’è sole e anche la nebbia. Colpa del fumo, prima di tutto, si vede, si sente ancora il puzzo, effetto delle proteste delle scorse notti, e cioè fuochi, lacrimogeni, bombe carta. Ma è anche una nebbia speciale, una specie di condensa, un prodotto della raffinazione: rabbia e frustrazione e disagi. I discorsi delle persone, per esempio. Si mischiano tante cose, a parte i negazionisti, tipo i tamponi sono farlocchi, il nuovo ordine mondiale, a che servono le mascherine, però la stanchezza c’è, va avanti per contraddizioni, abbiamo il Pascale, uno dei migliori ospedali al mondo e pure la pandemia. Abbiamo votato in massa per De Luca e mo quello non ci fa muovere. Nebbia, ovvero angoscia, l’inverno nemmeno è iniziato e io ristoratore, guida turistica, personal trainer, tassista, io e voi che creiamo ricchezza e anche il famoso un indotto, ecco, noi come ci arriviamo non dico alla primavera, ma a dopodomani?

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Di sicuro sarà effetto della suggestione, oggi, a Napoli c’è sole e anche la nebbia. Colpa del fumo, prima di tutto, si vede, si sente ancora il puzzo, effetto delle proteste delle scorse notti, e cioè fuochi, lacrimogeni, bombe carta. Ma è anche una nebbia speciale, una specie di condensa, un prodotto della raffinazione: rabbia e frustrazione e disagi. I discorsi delle persone, per esempio. Si mischiano tante cose, a parte i negazionisti, tipo i tamponi sono farlocchi, il nuovo ordine mondiale, a che servono le mascherine, però la stanchezza c’è, va avanti per contraddizioni, abbiamo il Pascale, uno dei migliori ospedali al mondo e pure la pandemia. Abbiamo votato in massa per De Luca e mo quello non ci fa muovere. Nebbia, ovvero angoscia, l’inverno nemmeno è iniziato e io ristoratore, guida turistica, personal trainer, tassista, io e voi che creiamo ricchezza e anche il famoso un indotto, ecco, noi come ci arriviamo non dico alla primavera, ma a dopodomani?

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Napoli avvolta dalla nebbia, velata, sembra, almeno per ora, sfuggire ai classici punti cardinali, al solito immaginario. Voi dite? Ma quali sono? Allora, biografia in poche righe: nato (per accidente) a Napoli (1966) vissuto prima a Caserta (fino al 1989, suppergiù con vari rientri) poi a Roma, dove attualmente lavoro (Mipaf). Scrivo queste righe da 30 anni ormai, soprattutto quando mi chiedono (per festival o altro) la mia bio per le brochure. In genere, dopo l’invio della suddetta, la gentile persona che mi contatta per addetta alla logistica mi dice: allora, le propongo le seguenti opzioni: treno Napoli/Milano… E io la fermo: no no, abito a Roma, cioè, sono nato per accidente a Napoli, vissuto a Caserta e poi… cioè, l’ho scritto pure nella bio. Le mi dice: ah, sì, ho letto, appunto, pensavo che abitasse a Napoli.

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Nonostante scriva queste righe da 30 anni, specificando le dinamiche della mia vita, sono 30 anni che mi propongono viaggi con partenza e rientri da Napoli. Nasci a Napoli, dunque vivi e rientri a Napoli. L’aneddotica c’entra: sono punti cardinali classici. Napoli ti assorbe. Si prende la parola. Blocca i tuoi movimenti. Se sei nato (nel mio caso poi per accidente) a Napoli sei rubricato come scrittore napoletano, residente, cioè confinato a Napoli, per sempre. Ma Napoli è anche un paradosso: sono di Caserta, ho scritto un libro su Caserta, anche se si trovano ancora recensioni (di critici blasonati) che parlano di un libro che racconta il territorio napoletano. Poi ho scritto davvero un libro su Napoli (una guida, perché conosco bene la città), molto criticato perché scritto da un non napoletano. Il fatto è che Napoli è una città su cui grava un immaginario vecchio di 200 anni, così noto, così comune, così raccontato che invece di svelare copre.

 

La narrazione generalista di facciata presenta un vasto campionario, ognuno porta via con sé il tessuto che più gli aggrada: sono i punti cardinali del solito immaginario, fanno parte del percorso, del gioco. Però, forse è colpa o merito di questa nebbia odierna, ma c’è un punto cardinale poco raccontato. L’antropologo Bernard Arcand, nel libro “Il giaguaro e il formichiere” (Garzanti), racconta un’abitudine dei Tuareg. Si scoprono il viso quando incontrano sconosciuti, ma si coprono quando incontrano persone intime. La logica è la seguente: sei uno sconosciuto, quindi anche che se ti offro il mio viso non riuscirai mai a capire quello che penso. Al contrario, se sei un amico potrai interpretare bene i segni del mio volto, per questo lo copro. Quindi Napoli è un tuareg che svela il volto al pubblico generalista ma lo nasconde agli stessi napoletani (indipendentemente dalle mascherine).

 

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Prendi il saggio di Pier Paolo Pasolini, “Gennariello”. Si sostiene che i napoletani siano tanto simpatici, una tribù passata attraverso la modernità senza subire contaminazioni, e che ogni cosa che lì avviene sia frutto di uno scambio di antichissimo sapere: se ti rubano un portafoglio, anche quello è scambio di sapere. A lui era successo, aveva scoperto il furto e fatto amicizia col ladro. La storia ha il suo tono magico, ma pensateci: se il portafoglio ve lo rubano a Milano, siete oggetto di violenza, se vi capita a Napoli siete oggetto di scambio di antichissimo sapere – giusto per precisare, il canale satellitare National Geographic ha trasmesso la serie “truffato a”, dove si raccontano i modi di truffare o derubare i turisti nelle grandi città, Mumbai, Buenos Aires, New Orleans, Città del Messico, New York, Roma, Milano e naturalmente Napoli.

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Ho visto le innumerevoli strategie per distrarre, ingannare e far piangere poveri turisti, per non parlare delle vecchiette, ma nessuno, nessuno scrittore, filosofo ragiona sui furti come elemento di scambio di sapere. Comunque, di storie così ne trovate a iosa. Napoli è ubertosa in questo senso. Dall’oro di Napoli di Marotta, alle storie della buonanima di De Crescenzo, fino agli aneddoti di ogni giorno, al teatro perenne: se cercate un caratterista, un personaggio buffo che fa da spalla, un attore per scherzi a parte, pescate pure a Napoli, comunque pescate pescate bene. Anni fa, nel 1992, venne edito da Cronopio un libro di interviste intitolato, appunto, “La città porosa”. Filosofi registi e altri discutevano di categorie – sociologiche, urbanistiche, antropologiche – facendole rimare con la porosità. Dire Napoli – leggevo – significava declinare concetti in ragione della sua porosità: alto e basso, friabile, verticale, orizzontale.

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Napoli, dunque, era accogliente, profonda, superficiale, cangiante. A Napoli nessuna cosa procederebbe in linea retta, anche gli incroci formavano angoli acuti o ottusi, in ogni caso non retti, ciò significava sia che potevi pensare a Napoli come avamposto poroso del Mediterraneo, cioè capace di filtrare (e purificare) uomini e cose, sia che in città potevi passare pure con il semaforo rosso perché l’incidenza dell’angolo (acuto o ottuso) ti permetteva di controllare chi veniva alla tua destra o sinistra. Solo a Napoli si produce un numero spropositato di metafore. La metafora poi crea un effetto calamita, richiama la tua attenzione su un particolare e quel particolare diventa brand, si rafforza. Gomorra è un brand, per esempio, i protagonisti vestono bene e parlano anche meglio, a volte sembrano protagonisti di una tragedia classica.

 

Quel brand serve a coprire le sgrammaticature e la povertà linguistica e certi corpi afflitti, sofferenti e gli effetti su larga scala di quella violenza. Il problema è che con questi miti a raffica, poi è chiaro che le persone non leggono le sfumature. Le sfumature servono a individuare i movimenti e il movimento è essenziale per capire una città, l’immobilità invece condanna: Napoli sembra condannata dal continuo e medesimo suo racconto: si scopre per coprire. Quindi, nella sostanza, se oggi che sono immerso nella nebbia, un turista mi chiedesse consigli sulla città, io direi di dimenticare Napoli per vedere Napoli. Approfittare cinicamente della nebbia per mettere il velo a Napoli, fatela tacere: dateci, per carità, un luogo silenzioso. Un aiuto può venire dall’alto, da Castel Sant’Elmo, o dai margini, la zona flegrea. Se a Castel Sant’Elmo andate di prima mattina, non troverete nessuno (qualche sparuto turista).

 

Prendete l’ascensore, ultimo piano verso la piazza d’armi, cioè la terrazza, uscite e, attenzione, sarete investiti da una luce bellissima. Se con voi c’è un bambino, probabile che a bocca aperta dica: che bella questa città. Io vi consiglierei davvero di fermarvi qui. Davanti alla dichiarazione ingenua e spontanea del vostro bambino, tornate indietro, sì. Se non volete tornare indietro, e visto che ci siete, percorrete in senso orario le mura di Castel Sant’Elmo. Sotto di voi c’è tutta Napoli. Vedrete tutto, ogni cosa immersa nella luce. Il mare di fronte a voi e la speculazione edilizia dietro di voi, sulle colline dell’Arenella, dei Camaldoli, del Vomero. Le case meravigliose con vista golfo e quelle in ombra, quelle dove il sole entra anche di notte, quelle dove il sole non entra mai, umide, posticce, budelli. Fate il giro delle mura. Vedrete il parco Virgiliano e l’aeroporto di Capodichino, la stazione marittima, Capri, Ischia.

 

C’è silenzio, nessuna narrazione pronta all’uso, solo rumore ovattato in lontananza. Non siete più a Napoli, eppure avete visto con una sola panoramica tutta Napoli. Socchiudete gli occhi, respirate, entrerete in uno stato cogitabondo, meditativo, il nunc, il mancato, l’abbandono. Godetevi il momento, poi andate via. Se proprio lo desiderate, scendete per la Pedamentina di San Martino, 414 scalini, giù fino a Spaccanapoli. Ma una volta in centro, non fermatevi troppo, tanto è tutto già noto e svelato, fate così, mirate ai margini, verso la zona flegrea appunto: qui, ai margini, c’è la storia del mondo, e di Napoli. 39 mila anni fa un’eruzione del super vulcano dei campi Flegrei oscurò l’intera Europa. Il super vulcano dei Campi Flegrei (ora silente e che calpestate e ammirate) produsse 150 chilometri cubi di magma (ma sono stime ottimistiche).

 

Le ceneri si spinsero fino a oriente, oltre ai Balcani, si intrufolarono in Russia e comunque questo strato spesso molti centimetri oscurò il sole e l’Europa precipitò in una era glaciale, probabilmente il colpo di grazia per i nostri non così lontani parenti, i Neanderthal. Se siamo ancora qui è perché abbiamo sopportato i ghiacci dell’Europa (forse la vegetazione rimase sterile e l’acqua si avvelenò assorbendo cenere), abbiamo trovato rimedi, svernando a nord-ovest, almeno fino a 18 mila anni fa, quando le temperature si alzarono e ci siamo dati da fare con le popolazioni dei Balcani, mischiando i nostri geni. Poi, 29 mila anni fa, arrivò un’altra eruzione, di portata un po’ minore, ma fatto sta che questi eventi sono visibili in ogni angolo della città: la faccia coperta che non si vuole mostrare agli intimi. Napoli è stata edificata con le rocce laviche, solidificate (materia dei Draghi Sepolti, per citare il bel libro di Sabrina Mugnos).

 

La prima eruzione produsse la ignimbrite, termine tecnico difficile da ricordare e pronunciare, meglio tufo grigio napoletano che per la compattazione di più strati assume una colorazione che sfuma dal grigio al crema. La varietà del tufo grigio, detto piperno, ha una tessitura caratterizzata da “fiamme” (nella pratica ha consistenza e spessore e resiste alla mutevolezza degli agenti atmosferici). Riveste il Maschio Angioino, l’ingresso del Parco Virgiliano, la chiesa del Gesù Nuovo, i portali del centro storico, il chiostro di San Marcellino, nonché Spaccanapoli, quartieri spagnoli e Forcella. In molti angoli, sulle facciate delle chiese e dei palazzi antichi e non solo, con un po’ di attenzione riconoscerete il piperno. La seconda eruzione ha buttato fuori, invece, il tufo giallo napoletano. Date un’occhiata alle colline di Posillipo e Camaldoli, ai monti di San Severino e all’acropoli di Cuma, e infine è il substrato su cui poggia l’intera città, tutto insomma si fonda sul tufo giallo.

 

E però. Però questa roccia, per le caratteristiche fisiche, è sensibile all’erosione e alla disgregazione, dunque via via che Napoli sorgeva, le sue fondamenta si dissolvevano, il sopra cresce, il sotto scompare, sopra si accumulano storie e miti, sotto si accumula il vuoto. A proposito di vuoto e pieno. Lasciate perdere Napoli, salite sul Vesuvio, questa bocca scura spalancata verso il cielo, larga mezzo chilometro e profonda 300 metri, una enorme voragine, con pendici così densamente abitate (nel giro di dieci chilometri ci sono tanti paesi, strade, costruzioni elementari, cioè pennate in eternit e complesse baracche), che una volta un astronauta annotò sul diario di bordo: siamo rimasti stupiti nel vedere la quantità di luci sul Vesuvio, ma non è un vulcano ancora attivo? Ma le pendici sono anche fertilissime: del resto è uno dei motivi per cui le persone non lasciano questa terra, anche nel ricordo del tempo che fu.

 

Più avanti c’è quel che resta del miglio d’oro, ville, aranceti e limoneti e fantastici terrazzamenti. Certo l’umore degli abitanti va dal realismo (nel caso di eruzione, i famosi flussi piroclastici, nel giro di pochi minuti, con una velocità di 200, 250 km/h, potrebbero raggiungere il mare e sommergere tutto) al fatalismo (ci sono decine di riti protettivi e processioni particolari, oltre a San Gennaro, ovvio). Però, se quassù ci fosse un tuareg, in presenza del Vesuvio si coprirebbe il viso. Non fa niente se il vulcano non è una persona, è comunque una presenza intima, ancestrale. Un tuareg si coprirebbe il viso per non far vedere che ha paura, quindi niente sbruffoneria e storie e aneddoti. Forse sarà la suggestione di questi giorni, ma qui e ora, davanti a questa bocca spalancata, siamo tutti Tuareg, quelli nati a Napoli e non, casertani ed eventuali marziani: quale posto più adatto per capire che la vita è sotto il peso di una costante instabilità?

 

C’è la Sars-Covid-19 è vero, ma da sempre le placche si muovono, lentamente, a piccole dosi (ma è questo che rende un sistema instabile), difficile capire come e quando arriverà il terremoto: dovremmo ammettere la nostra paura e affratellarci, fare amicizia, invece raccontiamo storie, aneddoti, litighiamo, giudichiamo, spariamo opinioni perché ci piace il ruolo di Masaniello che sa dove andare. Non lo sappiamo, e dal Vesuvio si vede che non vediamo niente, se non il vuoto. Sembra un sentimento specifico, limitato, e invece tocca la nostra intera vita, l’Italia, l’Europa, il Mondo, il sistema solare, l’universo: e mannaggia credo di aver concluso con altra metafora napoletana.

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