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Il foglio del weekend

I comizi della vagina

Simonetta Sciandivasci

S’avanza un femminismo pop che infiocchetta, colora, esagera, mescola le ondate e spesso non si accorge di fare il medesimo gioco del nemico. Cioè di mercificare il corpo della donna

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Quando la compita e angelica Evelyn, una fantastica Katy Bates tutta da pizzicare e sposare, si decide a partecipare a una seduta d’autocoscienza femminista, su pressione della sua migliore amica che vuole aiutarla a essere più aggressiva e sexy e libera, ci va come al solito suo: piena di fiocchi, colletti, merletti. Sotto il vestito da Sbrodolina, indossa persino un bustino. Quella che oggi chiameremmo coach, principia la riunione dicendo “Bene, oggi esploreremo le nostre vagine, inginocchiatevi e prendete lo specchio” ed Evelyn, con grande imbarazzo, si inginocchia ma non riesce a sganciare il bustino e lo dice a voce alta, “non riesco a sfilarmi il bustino”, e tutte ridono, e allora lei scappa via. Scappa via con un senso di liberazione che tutte le donne che hanno visto quel film – “Pomodori verdi fritti”, una di quelle commedie americane femministe senza averne l’aria dove a essere politico, più che il corpo, era la possibilità di prenderlo poco sul serio – non hanno mai dimenticato.

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Quando la compita e angelica Evelyn, una fantastica Katy Bates tutta da pizzicare e sposare, si decide a partecipare a una seduta d’autocoscienza femminista, su pressione della sua migliore amica che vuole aiutarla a essere più aggressiva e sexy e libera, ci va come al solito suo: piena di fiocchi, colletti, merletti. Sotto il vestito da Sbrodolina, indossa persino un bustino. Quella che oggi chiameremmo coach, principia la riunione dicendo “Bene, oggi esploreremo le nostre vagine, inginocchiatevi e prendete lo specchio” ed Evelyn, con grande imbarazzo, si inginocchia ma non riesce a sganciare il bustino e lo dice a voce alta, “non riesco a sfilarmi il bustino”, e tutte ridono, e allora lei scappa via. Scappa via con un senso di liberazione che tutte le donne che hanno visto quel film – “Pomodori verdi fritti”, una di quelle commedie americane femministe senza averne l’aria dove a essere politico, più che il corpo, era la possibilità di prenderlo poco sul serio – non hanno mai dimenticato.

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Erano gli anni Novanta. Precisamente, era il 1991 e pochi anni dopo, nel 1996, Eve Ensler debuttava con “I monologhi della Vagina” in un teatro off Broadway, leggendo e recitando le storie di donne che raccontavano dei propri corpi, e di quello che subivano, del recinto, spesso violento, in cui le relegavano, ma pure del cielo in cui erano capaci di farle volare. Quel libro diventò presto leggendario, e dire che sulla quarta di copertina dell’ultima ristampa, riveduta e aggiornata, uscita meno di un paio d’anni fa (in Italia per Il Saggiatore), c’è una nota di Ensler che dice: la prima volta che salii sul palco ero certa che mi avrebbero sparato. Non accadde, naturalmente, e anzi le donne da allora in poi la cercarono, circondarono, imitarono, e quello spettacolo divenne un format e anche un modo di incontro, di discussione, di dibattito sul femminile, che disseppellì e rimodulò un’esperienza che le femministe degli anni Settanta avevano intrapreso: parlare di sé partendo dal corpo, il punto cruciale della differenza.

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Una frase epica, poi epicamente ripetuta, condita, battuta, ribattuta che riassumeva il senso del libro era questa: “Noi, donne di ogni genere e tipo, ciascuna di noi e le nostre vagine, non verremo mai più messe a tacere”. Vent’anni e passa dopo, succede che un femminismo di nuova ondata, la quarta, l’intersezionale, comincia a rivolgersi in modo più attento e sistematico anche alle “donne di ogni genere e tipo”, alle non cisgender, e la vagina diventa nuovamente centrale, cruciale, punto di partenza per la lotta. Concomitante a questo processo c’è anche l’affermarsi di un femminismo mainstream, pop, che usa una narrazione efficace e semplice, talvolta semplicistica e quindi irritante, che infiocchetta, colora, esagera, mente, sbugiarda, mescola le ondate, i crismi, i femminismi, le teorie, le pratiche, e spesso non s’accorge di fare il medesimo gioco del nemico, e cioè di mercificare (scusate la parola), stereotipare, omologare e, soprattutto, di produrre odiosi feticismi. La vagina è uno di quei feticismi, ed è il più problematico e, per paradossale che possa sembrare, il più inchiodante.

 

Nei giorni scorsi s’è parlato assai (ma assai nel senso di troppo) di uno spot Nuvenia per assorbenti che più che uno spot sembrava un manifesto politico. E questo è il primo problema, ed è uno degli inghippi intellettuali del nostro tempo: facciamo politica per spot, emancipazione per spot, teoria e prassi per spot. Combattiamo la propaganda con il propagandismo, lo stereotipo con altri stereotipi. L’arma che riteniamo più appropriata per debellare modelli che non ci piacciono è quella che i modelli li produce: la pubblicità. Lo spot della Nuvenia ha persino un titolo, Viva la Vulva, una cosa che se la dici negli spogliatoi maschili è sessista e volgare, crimine culturale, mentre se la premetti in un clippino ben fatto e sfavillante di donne per le donne con le donne, finalizzato a vendere un prodotto, è pietra miliare, forse persino fondativa di una nuova liberazione, simbolo pacificante e sorridente di una femminilità nuova, di un femminile senza macchie e paura e vergogna, che reclama le mestruazioni e tutto ciò che gira intorno a esse come esplicitazione massima della specificità delle donne.

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Nello spot Nuvenia tutto è vagina: i pompelmi, i portamonete (a esser vecchie e streghe ci sarebbe da rilevare che è un elogio della prostituzione, punto che il femminismo lo spacca in due, anzi in tre, anzi in tremila), le conchiglie, le pesche, i cappellini. E gli assorbenti cantano e ballano, macchiati di liquido rosso e non del “rassicurante, irreale blu” cui eravamo abituati, e che secondo certe letture era uno dei molti modi di rifiutare la vera natura delle donne, un sottile rimprovero, una perpetrazione gentile di uno stigma atavico, quello che in certe società e culture ritiene che la donna sia creatura impura perché sanguina. Nuvenia non ha fatto niente di male, anzi: ha recepito un messaggio e un’istanza, quella che chiede che le donne siano rappresentate così come sono, e che vengano liberate dai tabù sul corpo anche e soprattutto nella narrazione pop, mirata o meno che sia alla vendita di prodotti. E’ stata però interessante la reazione: da una parte lo sdegno, effettivamente patetico, dall’altra (più numerosa) l’acclamazione da comizio, come se quello spot sancisse finalmente, una volta per tutte, cos’è una donna e come la si racconta. Luciana Littizzetto, domenica scorsa, ha detto: è questa la libertà per cui brighiamo, questa di dirci simpatiche vagine parlanti?

 

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Chi trovava (e trova ancora) liberatoria la fuga di Evelyn da quella riunione sulle proprie vagine, davanti allo spot Nuvenia s’è chiesta non tanto se non sia controproducente, controfemminista, controindicato e insomma un pochino fesso e un pochino maschile, sentirsi libere a partire dalla libertà di rappresentazione della vagina, bensì: quando ci sbarazzeremo di tutto questo corpo, che fine ha fatto la rivoluzione del fluid, come accidenti è possibile che mentre reclamiamo di venire accettate per come pensiamo e lavoriamo e amiamo e produciamo, ci sentiamo profondamente comprese e accolte e abbracciate e raccontate solo e soltanto se facciamo ostensione del corpo, delle sue funzioni, dei suoi pesi, delle sue misure, dei suoi appuntamenti? Siamo certe che mostrare in tv un assorbente pieno di sangue che balla e se la spassa tra le gambe di una modella curvy sia un modo per accettare e capire e dire la verità sull’identità femminile? Siamo certe poi che questa operazione non tolga problematicità a quel sangue? “Le mestruazioni sono una cosa seria”, scrisse Igiaba Sciego su Internazionale, quando Pippo Civati depositò in Parlamento un provvedimento per abbattere l’Iva al 22 per cento sugli assorbenti.

 

Libere dal “tabù mestruale”, ammesso che qualcuna lo senta davvero, ammesso che a liberarci potrà essere uno spot pubblicitario, cosa avremo guadagnato? Accadrà che smetteremo di sentire quel non proprio inibente imbarazzo che sentiamo ancora nel pronunciare in pubblico la parola “mestruazioni”? E poi, che patente avremo guadagnato? Non staremo di nuovo affidando al corpo una crucialità eccessiva? Non dovremmo agire al contrario e non per relegarlo, ma per farlo agire in modo armonico e non condizionante insieme all’altra parte, quella incorporea, di noi? Emily Ratajkowski, che di fare la modella e basta non ne vuole sapere, e allora fa la femen, però la fa da casa, dal divano, e così non getta il corpo nella lotta e però lo getta nel dibattito (un corpo perfetto, naturalmente), ha appena fatto sapere a tutti di essere incinta e lo ha fatto fotografandosi nuda e più nuda del solito, con un fare serio e sacrale, gioioso e mistico, che è un altro vizio del nostro tempo. Reclamiamo la libertà di scegliere di non fare figli, diciamo che siamo stufe di essere sottoposte a interrogazioni parlamentari private tutte le volte che incontriamo parenti o amici di provincia che anziché domandarci quanto guadagniamo ci domandano quando faremo un figlio, e però accogliamo la narrazione delle maternità degli altri come fosse cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare.

 

Ratajkowski a settembre ha pubblicato un longform sul New Yorker parecchio interessante, nel quale raccontava le molestie che ha subito da un fotografo e soprattutto il modo in cui le agenzie, i giornali, i social network, le persone manipolano e stravolgono la sua immagine, e a quell’immagine manipolata fanno in modo di ricondurre qualsiasi cosa lei dica, faccia, indossi. E si chiedeva: chi fa il mio mestiere può davvero gestire il proprio corpo? Basta la consapevolezza di sé per non finire nel tritacarne che è la comunicazione ridotta a condivisione? Poche settimane dopo, ha annunciato di aspettare un bambino e lo ha fatto come se il mondo fosse una sala parto e ha voluto specificare che non indagherà sul sesso del nascituro, perché tanto è un dato che conoscerà ai suoi diciotto anni, tenendo così felice la parte di umanità che crede che il genere sessuale sia un’invenzione socio culturale. E’ l’esemplificazione perfetta dei due estremi tra i quali ci muoviamo tutti: una madre che non crede al genere sessuale, magnifica la propria gravidanza e la usa per una proclamazione culturale e, in fondo, politica. Ashley Graham fa qualcosa di molto simile, e anche più meritevole, aiutata dal suo aspetto: non l’abbiamo mai vista più nuda come da quando ha partorito e, prima ancora, durante tutta la gravidanza. Graham è una delle modelle curvy più famose al mondo, ed è bellissima, superbamente bella, e dopo aver portato avanti il manifesto dell’inclusione, sulle copertine e sulle passerelle, dei “corpi non conformi”, sta intestandosi anche la nouvelle vague del realismo materno: mostra quanto è difficile allattare, odioso ritrovarsi la camicetta sporca di latte, affascinante cambiare pannolini, emozionante contarsi le smagliature. Non c’è posizione ginecologica in cui Graham non si sia mostrata, nuda o seminuda, su Instagram.

 

E noi lì a mettere cuori, noi del child free, noi del fluid, noi del chissenefrega se è maschio femmina, noi della Zeta, dell’X e dell’Omega, noi che l’età non esiste, la fatica non esiste, il tempo non esiste, le misure non esistono, i pesi non esistono, ossessionati come nessuno mai da bilancia, salute, sport, dieta, mutande, età, noi che non crediamo a niente, e non guardiamo la tv, ma vogliamo che in tv ci siano spot rivoluzionari. Nuvenia come “Noi e il nostro Corpo”, un libro che negli anni Settanta disse alle donne come funzionavano; Tena Lady come “Le nostre anime di notte”, il romanzo splendido di Kent Haruf sull’amore che sboccia quando si è più prossimi alla morte che alla vita. Il corpo è un palo ed è un feticcio, è la casa e lo specchio dell’ego: uscirne è impossibile. Sono sacri e rappresentanti e rappresentativi i gesti che il corpo ci fa fare, i pezzi che lo compongono, persino le malattie che lo indeboliscono. La letteratura sulla malattia, per ora, è il prodotto più interessante che da questa nostra immersione nel corpo arriva e non ha niente a che fare con l’audiovisivo di Instagram e delle sue modelle.

 

Questa settimana è arrivato nelle librerie italiane il premio Pulitzer del 2020, si chiama “Non morire”, lo ha scritto una poetessa e saggista, Anne Boyer. Racconta cos’è successo all’autrice dopo che le è stato diagnosticato un cancro al seno. Jonathan Lethem lo ha definitivo “il tentativo di un corpo di trovare una lingua per dirci ciò che sa”. E questo sì che interessante, e ci interpella tutti, come esseri umani, fatti di sangue, e carne, e stelle, fatti di vita e morte, e che per cercarsi e definirsi alzano lo sguardo, non lo abbassano insieme alle mutande, che saremo libere e liberi davvero quando smetteremo di trasformare in fatti di principio. Forse.

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