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“Manifesto per riabitare l’Italia”, una guida per (ri)prendere coscienza di chi siamo

Alfonso Berardinelli

Abbiamo smarrito l'identità dei luoghi e di noi stessi. Adesso dobbiamo rincontrare il nostro Paese e conoscerlo lì dove viviamo, immaginando la nostra storia come un processo in atto. Un libro

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È abitabile l’Italia? Leggendo qua e là, mi rigiro fra le mani da qualche tempo un libro di Donzelli che attira l’attenzione già con il suo titolo: “Manifesto per riabitare l’Italia”, a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli. Un tascabile, denso libro enciclopedico sui problemi (non sopporto il neologismo “criticità”) sociali e politici italiani, oggi acuiti dalla drammatica crisi sanitaria. Incuriosisce nel titolo il termine “manifesto”, perché esprime un’ambizione militante e propositiva ispirata da un senso di urgenza straordinaria che dovrebbe coinvolgere tanto il lettore singolo che tutta l’opinione pubblica. Non meno interessante è quel “riabitare” in cui si concentra l’ottica dell’analisi, della prognosi, della diagnosi e anche della necessaria terapia. Se il problema è quello di riabitare l’Italia, evidentemente si pensa che ora non la stiamo davvero abitando, non ne siamo più capaci: l’identità dei luoghi è deperita o cancellata e la consapevolezza che ne abbiamo è carente, distratta, inoperante. Non sappiamo più dove siamo, se la casa in cui ci troviamo è la nostra e forse, come in certi incubi, non siamo neppure del tutto certi di essere chi siamo.

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È abitabile l’Italia? Leggendo qua e là, mi rigiro fra le mani da qualche tempo un libro di Donzelli che attira l’attenzione già con il suo titolo: “Manifesto per riabitare l’Italia”, a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli. Un tascabile, denso libro enciclopedico sui problemi (non sopporto il neologismo “criticità”) sociali e politici italiani, oggi acuiti dalla drammatica crisi sanitaria. Incuriosisce nel titolo il termine “manifesto”, perché esprime un’ambizione militante e propositiva ispirata da un senso di urgenza straordinaria che dovrebbe coinvolgere tanto il lettore singolo che tutta l’opinione pubblica. Non meno interessante è quel “riabitare” in cui si concentra l’ottica dell’analisi, della prognosi, della diagnosi e anche della necessaria terapia. Se il problema è quello di riabitare l’Italia, evidentemente si pensa che ora non la stiamo davvero abitando, non ne siamo più capaci: l’identità dei luoghi è deperita o cancellata e la consapevolezza che ne abbiamo è carente, distratta, inoperante. Non sappiamo più dove siamo, se la casa in cui ci troviamo è la nostra e forse, come in certi incubi, non siamo neppure del tutto certi di essere chi siamo.

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Il titolo offre perciò una proposta di possibili luoghi comuni interpretativi in cui riconoscerci, presupponendo che questo riconoscimento di noi stessi l’abbiamo perduto. L’Italia, uno dei paesi del mondo più famosi per la propria felice abitabilità e bellezza, è stata dunque resa inabitabile da forze incontrollate, se non oscure, sfuggite alla coscienza comune. Quali sono queste forze e quali gli effetti negativi della loro azione? Il termine non è molto presente nel libro, ma è chiaro che la globalizzazione sembra proprio essere agli autori il brutto fantasma, o meglio la devastante ondata economico-culturale che in pochi decenni ci ha strappato di mano la nostra Italia. Un’Italia che non era certo perfetta, se si pensa che concluse la sua storia con gli “anni di piombo”. Ma era pur sempre, ancora, l’Italia della Democrazia cristiana e del Partito comunista, della Fiat e della Rai, di una letteratura italiana riconoscibilmente italiana e di una chiesa cattolica molto italocentrica. La globalizzazione, in fondo, non è mai stata propizia all’Italia. La nostra industria non ha retto all’urto, la famosa “nuova classe operaia” emersa con il boom economico perdeva la sua compattezza identitaria e per la prima volta nella storia avevamo una middle class dominante, capace di colonizzare, per mentalità e cultura, anche chi ne era fuori. La cosiddetta rivoluzione informatica ha fatto il resto. E quando lo spazio fisico, geografico e sociale impallidisce di fronte allo spazio virtuale e comunicativo, allora chi sa più dove abita?

 

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Simpatizzo per il manifesto di Donzelli, anche se, da letterato e non solo, lo avrei preferito meno gergale, più semplice e diretto: oggi comunque per farsi ascoltare da politici e scienziati sociali, da professori e studenti universitari, una certa gergalità è inevitabile, seduce e si presta a essere riusata. Più che di globalizzazione, si parla del suo presupposto: “Un modello di sviluppo lineare e progressivo di cui si era nutrito il Novecento” e la superiorità attribuita alle “politiche avulse dai contesti, cieche ai luoghi”. La proposta è perciò quella di aprire gli occhi ai luoghi, “invertire lo sguardo” e “decostruire le immagini stereotipate che distorcono senso comune, consapevolezze collettive, programmi di studio e di ricerca, dibattito pubblico, scelte politiche”: come si vede, l’impresa non è da poco. Mi auguro che il manifesto abbia successo, ma non mi fido dei suoi destinatari, anche perché troppi, eterogenei e quasi sempre occupati a fare e pensare altro. Oltre che un supplemento delle parole chiave più utili per dialogare sviluppando i temi proposti (da Acqua, Boschi, Comunità, Disuguaglianze, a Fragilità territoriali, Migranti, Patrimonio, Scuola, Terra) il manifesto è seguito da cinque commenti. Mi ha coinvolto soprattutto quello di Tomaso Montanari che, da storico dell’arte e critico dei “grandi eventi”, fa proposte minimali ma concrete e praticabili da tutti.

 

Per “riabitare” l’Italia, secondo Montanari, bisogna saper camminare nei luoghi in cui viviamo dedicandoci “a visitare luoghi culturali gratuiti presenti nei nostri itinerari quotidiani”. E’ la cosa che in un paese stratificato come l’Italia insegna meglio a capire il rapporto e la compresenza di presente e passato. Lo ha spiegato Carlo Levi: “Forse è proprio questo il primo dei caratteri che distinguono l’Italia: quello di essere il paese dove si realizza, in modo più tipico e diffuso e permanente, la contemporaneità dei tempi. Tutto è avvenuto, tutto è nel presente […] Il macellaio del ghetto di Roma è installato nella cornice di marmo dell’ingresso sacro a una qualche divinità pagana; il ristorante dove uso cenare ha i tavoli tra l’‘opus reticulatum’ e i rocchi di colonne del Teatro di Pompeo, all’incirca là dove Cesare cadde”.


Sapere che il passato è presente fra noi nello spazio fisico in cui viviamo ci aiuta a evadere dalla dittatura del presente perché, dice Montanari, “la leggibilità della stratificazione storica genera consapevolezza dell’alterità del passato e dunque la possibilità di costruire un futuro diverso dal presente”. Azzardo a mia volta una formula: per riabitare l’Italia bisogna saperla incontrare e conoscerla lì dove viviamo, immaginando la nostra storia come un processo in atto. Chi darà ai nostri politici, alla politica di cui sono responsabili e vittime, una tale immaginazione? Ma devo dirlo: io stesso questa Italia non ho saputo incontrarla. 

 

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