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(Non) state a casa

Dal focolare al focolaio

Simonetta Sciandivasci

La famiglia è il luogo dove volevamo tornare, ma la pandemia vorrebbe proibirla. Prove di sopravvivenza

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Il focolaio è la famiglia. Proibirla non si può – non ci sono le condizioni: non abbiamo abbastanza alberghi – e allora si deve andare in direzione contraria, e naturalmente anche ostinata, perché serve ostinazione per perseverare nel paradosso, e difenderla, proteggerla, trattarla con i guanti, starle accanto ma non addosso, come si fa con i neonati in incubatrice. “La maggior parte dei contagi avviene in casa” e “state a casa” erano le due cose che si dicevano all’inizio della pandemia, e nessuno badava troppo al fatto che stridessero, perché l’altalena tra fuori e dentro era molto ridotta, si stava in lockdown, e abbracciare un figlio o una sorella sul divano, alla sera, guardando “Piazza Pulita”, era una delle poche cose sane da fare. O almeno così sembrava. Ora è diverso. Molto diverso. Ora usciamo, ceniamo fuori, incontriamo gli altri, andiamo a lavorare, facciamo tutto o quasi tutto in presenza, con il virus che è tra noi, e certo ci mascheriniamo, disinfettiamo, detergiamo, ma non è comunque sufficiente, e da insufficientemente protetti torniamo a casa, con addosso la possibilità di infettare o d’essere infettati. Tutto ciò che di nuovo ci è proibito, cui stiamo imparando a rinunciare e a disabituarci è un sacrificio che facciamo anche e soprattutto per tutelare il pericolo più grande: la famiglia. Non possiamo sconfiggerla, né eliminarla: dobbiamo contenerla. La detersione perfetta non esiste, ma se pure esistesse non sarebbe sufficiente: potremmo aver contratto il virus in ufficio, e allora lavarci le mani prima di accarezzare un figlio non servirebbe a niente, se poi a quella figlia leggiamo, standole a mezzo metro di distanza, magari tenendola in braccio, le favole della buonanotte per bambine ribelli – peraltro sconsigliatissime in questi mesi in cui l’obbedienza è virtù capitale, salvavita mondiale. Non era mai successo prima che in maniera tanto forte la familiarità mostrasse la sua croce e la sua delizia, la sua ambiguità di fondo, lo spago con cui lega il bene al male che ci fa.

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Il focolaio è la famiglia. Proibirla non si può – non ci sono le condizioni: non abbiamo abbastanza alberghi – e allora si deve andare in direzione contraria, e naturalmente anche ostinata, perché serve ostinazione per perseverare nel paradosso, e difenderla, proteggerla, trattarla con i guanti, starle accanto ma non addosso, come si fa con i neonati in incubatrice. “La maggior parte dei contagi avviene in casa” e “state a casa” erano le due cose che si dicevano all’inizio della pandemia, e nessuno badava troppo al fatto che stridessero, perché l’altalena tra fuori e dentro era molto ridotta, si stava in lockdown, e abbracciare un figlio o una sorella sul divano, alla sera, guardando “Piazza Pulita”, era una delle poche cose sane da fare. O almeno così sembrava. Ora è diverso. Molto diverso. Ora usciamo, ceniamo fuori, incontriamo gli altri, andiamo a lavorare, facciamo tutto o quasi tutto in presenza, con il virus che è tra noi, e certo ci mascheriniamo, disinfettiamo, detergiamo, ma non è comunque sufficiente, e da insufficientemente protetti torniamo a casa, con addosso la possibilità di infettare o d’essere infettati. Tutto ciò che di nuovo ci è proibito, cui stiamo imparando a rinunciare e a disabituarci è un sacrificio che facciamo anche e soprattutto per tutelare il pericolo più grande: la famiglia. Non possiamo sconfiggerla, né eliminarla: dobbiamo contenerla. La detersione perfetta non esiste, ma se pure esistesse non sarebbe sufficiente: potremmo aver contratto il virus in ufficio, e allora lavarci le mani prima di accarezzare un figlio non servirebbe a niente, se poi a quella figlia leggiamo, standole a mezzo metro di distanza, magari tenendola in braccio, le favole della buonanotte per bambine ribelli – peraltro sconsigliatissime in questi mesi in cui l’obbedienza è virtù capitale, salvavita mondiale. Non era mai successo prima che in maniera tanto forte la familiarità mostrasse la sua croce e la sua delizia, la sua ambiguità di fondo, lo spago con cui lega il bene al male che ci fa.

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La fase uno e la fase due del primo lockdown ci erano sembrate il trionfo della famiglia, e s’era letto pressoché dappertutto che la quarantena ci aveva riportati agli anni Cinquanta, e che a più di qualcuno non era dispiaciuto accorgersi d’avere un figlio, riscoprire la moglie, il marito, la conversazione domestica, il piacere di stare a tavola a pranzo anziché in palestra o in fila alle Poste, la bontà del pane fatto in casa: il focolare. Che a più di qualcuno era finalmente parso chiaro che l’amante è più una fatica che un piacere, un bene superfluo più che un bene rifugio, un taglio auspicabile e possibile senza troppe conseguenze: praticamente, una sigaretta. Le foto dell’estate dalle case di campagna e al mare e dagli zii e con i cugini al posto degli amici hanno raccontato perfettamente che la ragione per la quale siamo un paese di fedifraghi (o diversificatori, come dice Vittorio Feltri) è che stiamo bene seduti in riva al fosso, nel giardino di famiglia. Ci piace tornare a casa, trovarci qualcuno di rassicurante, gli affetti stabili e gli oggetti consueti, gli orari identici a partiture, gli acquari vuoti, le fioriere piene, le foto di quando eravamo piccoli incorniciate come fossimo persone di successo, gli album, i diplomi, ogni traccia magnificata e scontornata dalla sua ovvietà.

 

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Non che siano mancati gli appelli di chi, invece, la famiglia tradizionale non ce l’ha e non la vuole, perché ne ha un’altra, più stretta come la foglia e larga come la via, e allora ha preteso riconoscimenti e tutele. E in fondo questo è, la famiglia alla quale adesso torniamo, sospettosi e spaventati, e alla quale dedichiamo tutti i nuovi sforzi di contenimento del contagio, le nuove norme, i nuovi dubbi: una famiglia allargata. Tutti abbiamo un acquisito invisibile, che ci condiziona sia che c’è sia che non c’è: il virus. Lo portiamo a casa, lo discutiamo, lo temiamo, lo avvertiamo. Ci tiene lontani durante la stessa cena, la stessa notte, lo stesso bicchiere di vino in balcone, lo stesso arrivederci, lo stesso cesso – dice il Corriere di usarne due, specie se in casa ci sono anziani, e chi ne ha soltanto uno, di bagno, è bene che lo pulisca prima e dopo l’uso proprio e degli altri, è bene che disponga di salviettine usa e getta per gli ospiti, i bambini, i vecchi. Il Covid entra in famiglia di soppiatto, attaccato attaccante, e trasforma il tempo in un turno, l’ordine in un presidio, la libertà in una tutela, la casa in un albergo. Torniamo a casa e non possiamo più lasciarci andare e tutto quello che nelle otto ore in ufficio abbiamo trattenuto non ci viene rimborsato: tutti i vai al diavolo che non abbiamo detto, le mani che non abbiamo stretto, i caffè che non abbiamo condiviso ci restano in gola. E’ proibito sfogarsi, è imprudente abbassare l’allerta, è pericoloso sentirsi a casa. Non siamo più a casa: siamo nel focolaio. E’ un passaggio epocale: all’atto pratico è l’istituzionalizzazione della diffidenza verso il focolare domestico, la decretazione ufficiale della sua tossicità.

 

Come ci sveglieremo, tra sei mesi, dopo averne trascorsi chissà quanti a disinfettarci le mani prima di fare zapping, a metterci la mascherina dopo aver preso il caffè, a rinunciare al divano, a raccomandare figli mariti nipoti genitori di uscire il meno possibile, rendendoci sempre più conto, nel profondo del nostro cuore, laddove siamo bestie feroci, che senza appendici, senza consanguinei, la trafila staliniana ci sarebbe stata risparmiata? Come potremo non odiare il fratello che non ha evitato di andare a fare judo e s’è preso il Covid, il papà che s’è infettato perché ha fatto la sauna (era così necessario farla, papà, e poi che cazzo ci fa in una sauna a sessant’anni, dove credi di essere, in un film di Ozpetek?), la nonna che è positiva anche se non è mai uscita di casa e dalla stanza nella quale abbiamo dovuto isolarla non fa che ripeterlo, che non sa e non si spiega e non s’è mossa di casa, in un dialetto che ci sembra improvvisamente diverso, quella lingua bizzarra che parlano tutti i ricoverati quando il Tg1 va a intervistarli per un caso di malasanità, una specie di esperanto abruzzese? Ci sarà sempre qualche infetto che negherà, mentirà, ometterà. E ci sarà sempre qualche X Files, qualcuno che il virus lo ha preso in modo inspiegabile, come l’unica signora che non mangia la mousse al salmone che ammazza tutti gli altri ne “Il senso della vita” dei Monty Python e però muore avvelenata come tutti gli altri. E la conclusione intima ed efferata, odiosa e indicibile, l’idea che ci faremo tutti, è che la colpa è della famiglia. Zio Franco è un untore, nonna Carla è di troppo, Mario ha sposato una stronza, mamma è un’irresponsabile, papà è gay e se loro non ci fossero il mondo avrebbe un focolaio in meno e una persona felice o almeno spensierata in più: io. Tornerà mai la spensieratezza? I millennial sono scomparsi troppo presto, seppelliti con le loro ambasce e la loro iella dalla produttività spregiudicata dei loro successori della Gen Z, che sulle macerie ereditate anziché piangere si son messi a fare mini video con i quali fatturano più di un amministratore delegato: sono riusciti a essere spensierati pur venendo da decenni, fratelli, genitori impensieriti. E però adesso ai loro vent’anni il virus toglie comunque quella conquista, quel diritto che avrebbe dovuto essere garantito, dato per assodato. Torneranno, almeno loro, spensierati? Ci scorteranno, in questa seconda ondata complicata e stancante come un supplementare contro l’Uruguay, di modo da pensare ancora che andrà tutto bene, ora che non potremo più pensare alla famiglia come nido, tana, culla?

Come arriveremo all’epifania, se davvero trascorreremo il Natale in lockdown e non potremo fare quello che facciamo tutti gli anni, e cioè andare a bere vodka alle tombolate degli amici, e fumare e ascoltare le orrende storie dei parenti degli altri, così smorzando quelle dei nostri? Come faremo senza detonatori? Come sopporteremo questo 25 dicembre che annuncia di valere per tre? Il virus che continuamente muta perché continuamente ci fa sbattere contro la nostra incapacità di accettarlo, contro la nostra illusione di averlo sconfitto, contro la nostra idea che il contagio riguardi solo gli infettati mentre riguarda soprattutto i sani: questo virus che dicevamo familista, oggi della famiglia sembra il veleno, o almeno il coach di resistenza, uno di quegli allenatori che paghiamo per sfiancarci e per farci capire cosa fa per noi, fin dove possiamo arrivare, spingerci, osare. Lo stress test che ci aspetta è spaventoso, ma naturalmente non cruciale. Non c’è niente di cruciale. Vincerà lo status quo come ha sempre vinto lo status quo: perdendo ma rimanendo, ricompattandosi, più o meno mescolato a nuove forze. Passerà un Natale affollato e distanziato e ci ritroveremo a osservare il vuoto come passanti – Bernardo Secchi, in “Un progetto per l’urbanistica” ha scritto che “all’occhio del passante, il vuoto appare come un disegno ininterrotto”. Beati i possessori di corridoio: lì avranno lo spazio per detergersi, separarsi, isolarsi, svestirsi, pensare, calmarsi, distinguere il vuoto, prendersela con il fuori e non con il dentro, capire che non è colpa della famiglia così come non è colpa dei cinesi, dei pipistrelli, dei vicini, delle discoteche.

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Paolo Giordano, in uno salto tra una fase e l’altra della quarantena aveva scritto sul Corriere della Sera: “Non voglio dimenticarmi che l’origine della pandemia non è in un esperimento militare segreto, ma nel nostro rapporto compromesso con l’ambiente e la natura, nella distruzione delle foreste, nella sventatezza dei nostri consumi”. E poi, anche: “Non voglio dimenticarmi che non sono stato né eroico né stabile né lungimirante nel tenere insieme la mia famiglia. Che quando ce n’è stato bisogno non ho saputo tirare su il morale di nessuno, e neppure il mio”.

 

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Ceneremo per settimane con genitori e figli, e al massimo tra genitori e figli d’altri, e dallo stesso tavolo del salotto dal quale abbiamo già visto il mondo arretrare e fermarsi, vedremo ancora il mondo arretrare e fermarsi, e ci arrabbieremo coi governanti e il tempo e Dio, e infine con noi stessi. E la nostra famiglia sarà lì ad ascoltare, infetta o infettata, sopravvissuta e sopravvivente, fuori moda e fuori posto, ma presente, ad assicurarci il bene più prezioso: il sollievo. Come in “Quello che rimane” di Paula Fox, che è un romanzo dove tutto accade in una cena in famiglia, quando Sophie, che sembra Amleto, ed è un personaggio “morbosamente autocosciente” (così ha scritto Franzen, che di Fox è un appassionato), smette di chiedersi senso e origine delle cose e dice “Se ho la rabbia, sono uguale a tutto quello che c’è fuori” e in quel momento ottiene non una rivelazione, ma un sollievo. Questo sollievo avremo a Natale, dalla vita costretta nell’unico focolaio che non possiamo evitare né distruggere: la famiglia. La famiglia servirà al sollievo finale, perché la famiglia è quello che rimane, il paese che ci aspetta dopo che lo abbiamo abbandonato, sia che ci vada bene sia che ci vada male. Quando Emilie, la mamma di Fanny e Alexander (In “Fanny e Alexander” di Bergman), dopo molti mesi di vedovanza, decide di sposare il vescovo, che la porta a vivere in un palazzo austero e terribile, con una zia allettata e mostruosa, una madre senza cuore, una sorella gelosa, tre inservienti pazze e una cuoca rinsecchita, lo fa perché ha bisogno di sentire Dio, di sentire il dolore, e quindi poi il piacere: cerca la distinzione tra le cose. Lei e i suoi figli arrivano da una famiglia di attori e teatranti, di goduriosi, di adulteri impuniti e felici, di carnose inservienti amate come figlie e compagne, una famiglia che non ha mai cercato di separare realtà e finzione, sapendole creazioni umane. E’ una fuga insensata, un abbandono della vita colorata e felice, che il vescovo pretende sia repentino e violento: niente vestiti, giocattoli, storie dalla vita di prima. Emilie, Fanny e Alexander entrano in una nuova famiglia e accettano nella loro questo vescovo implacabile ostinato e violento, estremo, ottuso, radicale, che ogni giorno impone loro di ringraziare Dio per “poter vivere in un’atmofera di purezza e austerità”. Il palazzo vescovile è una casa a prova di Covid. Si vive distanti, distanziati, senza baciarsi, senza giocare, senza parlarsi. Si cena con il brodo, i cucchiai sembrano sempre vuoti. Una famiglia incolore tenta d’allargarsi e accogliere, per spegnerlo e domarlo, un prisma. Quel prisma che sono Emilie e i suoi due figli, però, ha una luce che pretende di rifulgere e che quindi li fa scappare e tornare a casa, nell’altra, la prima, la sola, la vera, dove ci sono tutti quei ciccioni amorali nottambuli eccessivi pazzi scalmanati. Che riaprono le braccia. E fingono che non sia successo niente e dicono, nella parola di uno di loro, pazzo di gioia per essere appena diventato padre della figlia della sua amante, con il benestare di sua moglie: “Dobbiamo essere capaci di afferrare il mondo e la realtà così da poter protestare contro la loro monotonia, con chiara coscienza. Restiamo felici mentre siamo felici”. Emilie torna nella sua famiglia larga, che pure aveva accolto il vescovo, il nuovo elemento purificatore: dopo avergli ceduto, Emilie lo abbandona e lo annienta con il fuoco (muore carbonizzato, puro purissimo) perché lui è il virus.

 

Una famiglia focolaio era quello che ci voleva, finalmente, per salvarci dall’orrida noia del focolare, del virus, del vescovo.

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