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Che cosa resta del maschio

Uomini che dicono di no

Simonetta Sciandivasci

La guerra dei sessi ha prodotto un maschilismo separatista, che non ha niente a che fare con il patriarcato e non sempre odia le donne: semplicemente le rifiuta. Letteratura, cronaca, social network: indagine sui nuovi maschi, spiazzati, confusi, soli

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Erano gli anni Novanta e Martin Amis cominciava uno dei suoi romanzi migliori, “L’informazione”, così: “Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere… Passa rasente sulla nave del pianto, con i radar delle lacrime e le sonde dei singhiozzi, e li scoprirai. Le donne – e possono essere mogli, amanti, muse, macilente, pingui nutrici, ossessioni, divoratrici, ex, nemesi – si svegliano, si girano verso questi uomini e domandano, con femminile bisogno di sapere: ‘Che cosa c’è?’. E gli uomini dicono: ‘Niente. No, non è niente davvero. Solo un sogno triste’”. Il libro raccontava la storia dell’amicizia tra uno scrittore di successo e uno d’insuccesso, e lo faceva come si faceva tutto in quegli anni: dal centro, o se preferite dal cuore, non dal contesto. Era una storia intima, umana e feroce. Lucidissima.

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Erano gli anni Novanta e Martin Amis cominciava uno dei suoi romanzi migliori, “L’informazione”, così: “Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere… Passa rasente sulla nave del pianto, con i radar delle lacrime e le sonde dei singhiozzi, e li scoprirai. Le donne – e possono essere mogli, amanti, muse, macilente, pingui nutrici, ossessioni, divoratrici, ex, nemesi – si svegliano, si girano verso questi uomini e domandano, con femminile bisogno di sapere: ‘Che cosa c’è?’. E gli uomini dicono: ‘Niente. No, non è niente davvero. Solo un sogno triste’”. Il libro raccontava la storia dell’amicizia tra uno scrittore di successo e uno d’insuccesso, e lo faceva come si faceva tutto in quegli anni: dal centro, o se preferite dal cuore, non dal contesto. Era una storia intima, umana e feroce. Lucidissima.

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La negazione della sofferenza maschile tanto da parte dei maschi quanto da parte della società intorno a loro non era, allora, discussa come adesso, non era un fatto socio-politico, né un dato socio-culturale: a nessuno sarebbe saltato in mente di leggere quell’incipit e, come usa dire e fare adesso, tematizzarlo, ricondurlo all’ora di tutti. Oggi quelle righe si offrono a una lettura molto spessa, qualcosa che sta dentro un’obiezione che ha fatto nascere un movimento d’opposizione al femminismo e ai femminismi e che dice: a essere sottomessi al patriarcato ci sono anche gli uomini. Anzi, i maschi.

 

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Nel quarto di secolo che ci separa da quel romanzo di Amis sono accadute molte cose, soprattutto negli ultimi tre anni: il #MeToo, lo smascheramento della molestia sessuale non solo come abuso di potere ma come sistema di potere, la fine (meglio: la proclamazione della fine) dell’idea che quel sistema conti sul benestare delle donne, la massimizzazione delle colpe, l’individuazione dell’incistamento e della sistematizzazione patriarcale e dei suoi affluenti (il sessismo e la misoginia, sopra tutti) non semplicemente nella suddivisione del lavoro, nelle disuguaglianze economiche e d’opportunità tra donne e uomini ma pure nel linguaggio, nei gesti, nell’analisi dei fatti, della giustizia, della cronaca, degli articoli di giornale, delle copertine, dei titoli dei libri, del riconoscimento delle competenze, delle relazioni, perfino dei tentativi di porre rimedio.

 

Martin Amis negli anni Novanta scriveva di "uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente"

 

S’è smesso di parlare di uomini e s’è preso a parlare di maschi. Alla virilità s’è associato un aggettivo qualificativo inscindibile: tossica. S’è preso a discutere di educazione e rieducazione del maschio. Sono aumentate le pene per molestatori, stalker, picchiatori, ma è aumentata anche la sensibilità sul tema educativo: s’è cominciato a pensare a istituzionalizzare una educazione sentimentale che fosse rivolta ai bambini e che insegnasse loro a dominare e poi espungere le induzioni al maschilismo e alla perpetrazione del patriarcato, alla violenza psicologica, alla prepotenza, al possesso dell’altro. Tutto questo ha generato uno scontro costante, indomabile, a volte ben argomentato e pacato, a volte iroso e infruttuoso che ha preso le sembianze di un processo. Dal 2017 in poi, chi ha voluto semplificare questa serie di trasformazioni, idee, rivolte, cambiamenti o intossicazioni dello sguardo ha detto: essere maschio è diventato una colpa.

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Alcune donne hanno chiesto che gli uomini le affiancassero, che riconoscessero di essere portatori, a volte sani a volte no, di una tossicità endemica perché soltanto con la loro collaborazione si sarebbe potuto procedere a estirparla. Alcuni uomini si sono detti femministi. Alcune donne hanno creduto che fosse importante rendere il femminismo universale, visione di mondo, strumento di giustizia sociale, e per farlo hanno ritenuto che l’accesso alle sue lotte dovesse diventare fluido.

 

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Gli esiti li valuteremo più avanti, il magma è ancora caldo, le eruzioni da venire sono ancora moltissime, la guerra dei sessi è diventata una guerra di mondi e di idee di mondo tutte assolutamente affascinanti, incluse quelle più fantasiose che auspicano o addirittura promettono un nuovo ordine biologico. Se negli anni Settanta uno degli slogan del femminismo (all’epoca era il femminismo della differenza) era: “La rivoluzione femminista sarà l’unica rivoluzione che non spargerà sangue, ma vita”, il femminismo ecologista che non è di nuovo conio ma che sta adesso prendendo piede anche fuori dalle università, promette ancora vita, e lo fa perché crede nella moltiplicazione dei generi, e persino nella possibilità che l’uomo instauri parentele con il regno animale (si legga Donna Haraway). Di mezzo, tra le molte cose successe negli ultimi anni, c’è stata anche la perdita di centralità del sesso che però, per una specie di paradosso, non ha diminuito la sacralità del corpo, che da dato identitario è diventato questione identitaria. Di tutto questo, che è una mole gigantesca di teorie, ricerche, scoperte, nascite, emancipazioni, istanze, urgenze, necessità, si ha contezza.

 

La negazione della sofferenza maschile non era discussa come adesso, non era un fatto socio-politico, né un dato socio-culturale

 

Una contezza imprecisa e semplificata, perché impreciso e inadeguato è il linguaggio in cui lo si comunica, ma perlomeno si sa che il problema esiste. Al centro del dibattito pubblico e politico la questione dei diritti delle donne e della strutturalità del patriarcato è stata posta: non ne consegue che quei diritti vengono garantiti né che il patriarcato venga realmente e concretamente preso a picconate, ma almeno il primo piano è garantito. Quello di cui non ci si cura, e che viene fuori ogni tanto, in qualche articolo di giornale molto laterale, e che forse è difficile da immaginare, è che in questi anni la risposta a questo processo è stata parecchio più diversificata di quello che s’immagina. La crisi del maschio è stata sbolognata come un tic culturale e, soprattutto, almeno nei termini più generali che però sono quelli che alimentano la sensibilità comune, è stata reindirizzata alle donne: è stato formulato un pensiero basilare e greve secondo il quale alle donne manca l’uomo forte, virile, decisionista, capace di dosare l’animalità e redistribuirla in pochi piacevoli momenti, capace di osare, rischiare, progettare, offrirsi.

 

Non ci si è resi conto che, invece, ai margini di questa narrazione corrente, di questa lotta per la rielaborazione di un nuovo ordine mondiale, accadeva qualcosa di più cupo, e certamente connesso con quel senso di abbandono e incertezza in cui si sono ritrovati a sprofondare i nuovi deboli, che sono i forti per procura (nelle società occidentali: tutti tranne bambini, anziani, malati). Così come venivano proclamati il progressismo, l’unione dei popoli, il mondo confederato, la bellezza del super lavoro, l’invincibilità della forza di volontà, la produttività, la demonizzazione del fallimento, disperdendo di fatto le comunità e lasciando l’essere umano solo a badare alla solitudine che ne conseguiva, i maschi si sono ritrovati in un cono d’ombra. Certi maschi. Che tipo di impatto la ridiscussione del mondo portata avanti dalle donne abbia avuto nelle vite degli uomini è qualcosa di cui si hanno conoscenza minime, superficiali, spesso ideologiche e forzate.

 

Il processo, il cono d'ombra, la virilità "tossica", "l'animale da domare". E, dall'altro lato, il fenomeno sottovalutato dei "celibi involontari", che si danno appuntamento su internet

 

Esiste uno spazio non maggioritario ma in crescita dove gli uomini maturano la loro reazione a un processo che non li include o, se li include, lo fa a patto che si adeguino e rispondano a un canone. Non vedendosi riconosciuta, la sofferenza maschile, ovverosia la sofferenza che provoca negli uomini il ruolo che ci si aspetta che essi ricoprano, è finita in uno spazio di radicalizzazione più o meno clandestino, secondo un processo piuttosto simile a quello al quale assistemmo dopo l’Undici settembre, quando moltissimi ragazzi occidentali si convertirono all’islam e fecero del jihad un progetto di vita, della loro vita, perché cercavano un senso, uno scopo, perché la realtà li respingeva e non perché li considerasse tossici, ma perché li considerava, di fatto, superflui. L’attenzione su quegli uomini che piangono di notte e poi dicono Niente, così come sul fatto che quel dolore possa avere a che fare con il mondo così come lo stiamo costruendo e pensando, e le relazioni, così come le stiamo istruendo e informando, è quasi del tutto spenta.

 

Francesco Piccolo, parlando del suo libro “L’animale che mi porto dentro” (che ha un titolo piuttosto eloquente e in più ha avuto molto successo: è inutile dilungarsi sulla storia), una volta ha detto che “ha risposto a una richiesta precisa delle donne: gli uomini devono raccontarsi. Il problema è che ci sono alcune donne che dicono che gli uomini devono raccontarsi ed essere così come loro desiderano che siano gli uomini”. Come si desidera che siano gli uomini? Femministi, complici, cordiali, gentili, pacati, accorti, equi? Forse, ma prima di tutto si desidera che riconoscano in loro stessi quella tossicità che nuoce alle donne e che quindi soltanto le donne possono decidere come annientare. Non ci si è posti il problema di come questo, in fin dei conti, rappresentasse un sopruso, o potesse essere recepito come un sopruso.

 

Ci si è limitati a rintracciare la virilità come colpa, un po’ culturale e un po’ biologica, all’interno dei numeri sulla violenza sulle donne, dei sondaggi scolastici sulle relazioni con amiche e fidanzate e insegnanti (sondaggi avvilenti che alla fine hanno sempre mostrato la stessa cosa: i ragazzini vedevano nelle loro compagne le più brave in tutto, e però immaginavano un ruolo del tutto tradizionale all’interno della famiglia che si sarebbero costruiti un giorno). Il fenomeno degli incel è stato fortemente sottovalutato e non perché non se ne sia parlato, non sia stato discusso e affrontato, ma perché si è trascurato di rintracciarne le radici proprio nella relazione guerresca che sin da subito, tra maschi e femmine, si instaura in questo nostro tempo, una relazione che parte da presupposti precisi: i maschi sono animali da domare, le donne sono fiori da far finalmente fiorire. La profondità di analisi che ha portato all’individuazione dello zampino patriarcale praticamente in tutto è mancata allo studio degli incel (letteralmente, celibe involontario), i ragazzi che si danno appuntamento su internet per denigrare le donne, organizzare delle missioni punitive, per la maggior parte virtuali, per vendicarsi delle ragazze che li rifiutano.

 

Che tipo di impatto la ridiscussione del mondo portata avanti dalle donne abbia avuto nelle vite degli uomini è qualcosa di cui si hanno conoscenze minime, spesso forzate. Non vedendosi riconosciuta, la sofferenza maschile è finita in uno spazio di radicalizzazione più o meno clandestino

 

Due anni fa, a Toronto, uno studente venticinquenne uccise dieci persone, otto delle quali erano donne, poco dopo aver scritto su Facebook: “La ribellione incel è cominciata!”, promettendo di annientare tutte le donne non disposte a fare sesso a comando e pure tutti gli uomini che non erano mai stati rifiutati. Si proclamò incel anche Nikolas Cruz, il diciannovenne che quell’anno, a San Valentino, uccise 17 persone nella scuola che frequentava e che lo aveva espulso. Adam Kirsch scrisse sul New York Times che Michel Houellebecq aveva prefigurato gli incel, essendosi concentrato sui postumi della rivoluzione sessuale e sui modi in cui aveva finito con l’intrecciarsi con il capitalismo, instaurando una società che oltre a incoraggiare la soddisfazione del desiderio, la imponeva, così che non riuscire a fare sesso produceva una frustrazione gigantesca e inibente, perché significava non essere all’altezza di uno società intera e del suo potere più grande: trasformare un tabù in un obbligo. Gli incel quindi intercettavano un male coessenziale alla nostra società e, per sottrarglisi, diventavano dei mostri (di difficile individuazione: Slate fece notare in quel periodo che era molto difficile distinguere tra quelli che semplicemente facevano i bulli sui social e quelli che, invece, incitavano allo stupro).

 

Lo sguardo su questo fenomeno, che non è mai scomparso ma che si è forse attenuato perché si è ramificato e diffuso in molti altri canali, assumendo sembianze diverse, è stato ed è corto: assimilarlo alla misoginia e al patriarcato è un errore. In quelle stragi e in quella follia c’era un’indicazione precisa: ci s’ammattisce anche a esser maschi, anche sui maschi la pressione è insostenibile, anche i maschi vengono valutati in base alla redditività del loro corpo e della loro avvenenza. La matrice era tutt’altro che antica: come mai ha fatto dispiegare meno sirene di quelle che fa dispiegare il bullismo di Matteo Salvini? Ma gli incel sono soltanto una parte, e anche la più esposta, di un universo maschile più o meno spaventoso e preoccupante che, forte dell’indifferenza riservata a quello che gli uomini non dicono e che spesso lasciano che le donne dicano al posto loro, costruisce la sua opposizione, il suo antagonismo, la sua alternativa.

 

 

La scorsa estate un’inchiesta del Guardian incredibilmente non ripresa da quasi nessuno ha tirato fuori un movimento di uomini che, più o meno sugli stessi presupposti degli incel, si incontrano e si supportano con un obiettivo preciso: disintossicarsi dalle donne, imparare a farne a meno, voltare le spalle alla società, isolarsi per sempre da tutto e tutti. L’incel si vendica di un suo desiderio che non viene soddisfatto perché ritiene che i canoni sociali non consentano di giudicarlo appetibile e lo fa prendendosi con la violenza qualcosa che ritiene che gli spetti di diritto. Fa tutt’altro il maschio del Mgtow movement (Man going their own way, uomini che vanno per conto loro), une delle decine di corpuscoli che compongono la cosiddetta “mansphere” e cioè gli spazi virtuali di uomini per gli uomini dove non si parla di barba e capelli ma di femministe e “mondo femminilizzato” e ci si consiglia su come farsi giustizia da sé.

 

 

Come si desidera che siano gli uomini? Prima di tutto si desidera che riconoscano in loro stessi quella tossicità che nuoce alle donne e che quindi solo le donne possono decidere come annientare. Non ci si è posti il problema di come questo rappresentasse un sopruso, o potesse essere recepito come un sopruso

 

L’uomo che va per conto suo si purifica dalle donne, a volte paga una prostituta ma soltanto al principio del suo cammino iniziatico che è ben articolato e consiste in una serie di step ben ragionati (tutti consultabili sul sito internet mgtow.com, che già in home promette un cambiamento mondiale, con toni intergalattici da film di Spielberg; conta 33.000 membri ma è collegato a decine di altri siti “amici” che, insieme, hanno centinaia di milioni di visualizzazioni, visite, utenti). Una sezione del sito si chiama “RedPill” e affronta un tema caro all’Mra (Men’s rights activism), il movimento dei diritti maschili, controverso, variegato e malamente raccontato e anche per questo facilmente (troppo facilmente) associato ad altri movimenti maschilisti che propalano la cultura dello stupro. La pillola rossa sarebbe il cambiamento di prospettiva, il rovesciamento dello sguardo: l’Mra sostiene che la nostra sia una società fortemente femminilizzata, dove esiste una visione unilaterale della relazione tra uomini e donne, responsabile del manicheismo in base al quale le donne subiscono e gli uomini agiscono, gli uomini usurpano e le donne lavorano in triplo.

 

Secondo l’Mra, invece, la società si rivale sugli uomini così come sulle donne, ma mentre le donne possono sperare nell’ascolto, in strutture dedicate alla loro accoglienza, i maschi che subiscano violenze, che si ritrovino soli e senza un soldo (spesso dopo sanguinosissime guerre matrimoniali e divorzili), che soffrano di depressione sono praticamente abbandonati a loro stessi. Per l’Mra la maggior parte di noi ha ingerito la pillola blu e quindi non s’accorge che la maggior parte dei morti sul lavoro sono uomini, la maggior parte dei suicidi sono uomini, la maggior parte dei divorzi finisce col togliere a un uomo casa, figli, affetti, tutto: niente di tutto questo viene preso in considerazione dalla stampa come un problema endemico al pari del sessismo che spunta le opportunità delle donne, le svilisce, complica le loro vite.

 

Il dialogo tra movimenti femministi e Mra è stato ben descritto in un documentario del 2015, curato da un’attivista femminista, Cassie Jaye: da una parte c’erano questi omoni molto brutti e goffi che sfilavano, pochi e isolati, per le strade con dei cartelli che chiedevano attenzione, e dall’altra donne che gli si precipitavano addosso impedendo loro di manifestare e accusandoli di essere degli stupratori. Tra una parte e l’altra, c’era un pregiudizio insormontabile, una diffidenza ormai cicatrizzata, immobile, fissata. Jaye, che prima di incontrare gli uomini dell’Mra era una militante femminista, in quel documentario che poi diventò un Ted, raccolse anche le testimonianze di donne che si erano avvicinate all’Mra, una delle quali le disse: “Un movimento attento al linguaggio come quello femminista, non pensa alle implicazioni che ha chiamare la forza di tutte le oppressioni con una parola che significa uomini?”. Intendeva, naturalmente, patriarcato.

 

Gli incel e quelli che si incontrano per aiutarsi a imparare a fare a meno delle donne. Gli "uomini che vanno per conto loro" e il movimento dei diritti maschili. Le provocazioni di chi mostra quanto è divertente essere uomini gretti, grezzi, grevi, brutali, come Tia Fisio, con centomila seguaci su Instagram

 

Tutto questo, però, rappresenta un passato dal quale gli uomini che vanno per conto loro muovono i propri passi. Una cosa frequente che si legge nei forum dove si incontrano è che, dopo aver assunto la pillola rossa (appunto: aver cambiato prospettiva, essersi messi a osservare le discriminazioni da un punto di vista anche maschile), si sono sentiti soli, dilaniati, persi per sempre, finché non hanno incontrato il Movimento, si sono uniti agli altri, si sono sentiti finalmente capiti, sostenuti, amati e soprattutto, per la prima volta, non si sono sentiti usati, ma sono ritornati in possesso di sé. “L’uomo moderno preserva e protegge la propria sovranità sopra ogni altra cosa”, si legge su questo sito-manifesto che tocca punte di ridicolo esilaranti (Abbiamo trovato il segreto dell’universo!), infantili (La mia ragazza è incinta e adesso che faccio!), inquietanti (Lottiamo insieme per instillare la mascolinità in tutti!).

 

 

Il quarto e ultimo stadio del percorso di avvicinamento e coronamento della filosofia di vita degli Mgtow si chiama “rifiuto sociale”: chi ci arriva e lo persegue, si allontana dalla società che vede in lui soltanto un polletto da spennare, smette di pagare le tasse, si trasferisce in un non specificato altrove, fa perdere di sé ogni traccia, e non è chiaro se si dedichi all’eremitaggio o vada a vivere in una qualche bizzarra comune dove le donne e il sesso non sono nemmeno un ricordo. È maschilismo? Certo, ma non solo. Di certo, è qualcosa di inedito. Se il maschilismo classico prevede l’assoggettamento della donna, questa nuova forma di separatismo vede nella donna non un nemico da dominare, ma qualcuno con cui evitare ogni conflitto, qualcuno al quale lasciare la guida di tutto per potersela squagliare.

 

Ci sono i maschi che riconoscono di portarsi un animale dentro, e sono stufi che quell’animale li tenga in scacco, si rubi tutto, anche il caffè, anche la presentabilità, e riconoscono di essere parte di un problema più grande, e di doverlo disinnescare cominciando a vedere come vedono le donne, e allora si iscrivono ai campi estivi o workshop che propongono corsi intensivi di purificazione dall’induzione sessista e “manhood-confirming adventures” in cui si ritrovano – lo aveva raccontato Barrett Swanson su Harper’s Magazine – a fare yoga, a sentirsi svegliare da una voce che dice loro “State rinascendo, rivenite al mondo come neonati, tutto è nuovo” e a sentirsi chiedere di abbandonarsi tra le braccia della grande madre. Ci sono maschi che mentono, e fanno di sì con la testa quando le donne chiedono aiuto, o s’incazzano, o dicono le loro condizioni: escono poi dalla porta e non tornano più. Ci sono maschi che si radicalizzano su Facebook e su YouTube e pensano di venirti a menare con i loro amici perché non ci sei andata a cena. Li conosciamo, li spremiamo, li analizziamo come fossero errori.

 

La filosofia degli Mgtow: se il maschilismo classico prevede l'assoggettamento della donna, questa nuova forma di separatismo vede nella donna non un nemico da dominare, ma qualcuno con cui evitare ogni conflitto, qualcuno al quale lasciare la guida di tutto per potersela squagliare

 

Poi ci sono quelli che non stanno nelle nostre bollicine, e però stanno in quelle dei ragazzini e delle ragazzine, e vivono dentro un Grande Fratello orripilante e autoprodotto, una specie di antro dal quale trasmettono le loro provocazioni e mostrano quanto è divertente essere uomini gretti, grezzi, grevi, brutali. Tia Fisio è un fisioterapista palestratissimo che su Instagram ha oltre centomila seguaci: si riprende mentre rutta, fa i pesi, annusa le tette della sua donna e le dice che puzza. Lei non parla mai e sta sempre al suo gioco. A modo suo e nel suo universo, è un influencer. Poi ci sono i microinfuencer, quelli come Luca Vivi Felice, che spiegano alle ragazzine e pure a certe adulte che conosciamo tutti, che se i maschi non le richiamano è colpa loro che s’illudono, e che ai maschi dell’amore non frega un diavolo di niente, e che devono farsene una ragione ed evitare di frignare (e saluti e baci ai disperati e disperanti tentativi di immettere le sfumature e le complessità e le raffinatezze e problematizzare il consenso e il piacere e il godimento).

 

Poi ci sono i separatisti, uomini che si sentono disprezzati, rifiutati, abbandonati, e cercano di costruirsi un mondo a parte, di isolarsi, e scelgono di rinunciare a partecipare alla costruzione del mondo nuovo, di non fare né la guerra e né la pace dei sessi. Sono i nuovi maschi che piangono di notte e poi dicono che non è niente. Il sette ottobre, molte donne e molti uomini scrivono su Twitter che Matteo Salvini è uno squadrista misogino sessista, che è necessario fermarlo, e per farlo in fondo ci vuole poco, basta condannarlo sui social network, perché è lì che incita all’odio, semplifica, mistifica, insulta, mente.

 

Poche ore prima, l’ex ministro dell’Interno aveva pubblicato una frase, scontornata arbitrariamente, della scrittrice Michela Murgia – “Salvini? Ha il muso unto di porchetta” –, con tanto di foto di lei, aggiungendo soltanto: “All’odio e agli insulti rispondiamo con uno scintillante sorriso”. E succede quello che succede sempre, i seguaci di Salvini prendono a insultare Murgia, qualcuno le indirizza persino la foto di un manganello, lei chiede l’intervento della Digos, si dibatte a lungo dell’urgenza di contrastare l’odio in rete, di come quell’odio si riversi sempre e sempre di più contro le donne, di come non si debba lasciarlo agire incontrastato, di quanto sia importante non sottovalutarlo, minimizzarlo, insomma di come non si possa né si debba rispondere con un sorriso. È uno schema di polarizzazione che si ripete con un’alta frequenza, senza che cambi mai niente: e come potrebbe.

 

Esiste un maschilismo che è indotto, un altro che è portante, un altro che è nascente, un altro che è morente. Esiste il maschilismo dei modi gentili, esistono i soft boy, quelli che sono sempre dalla parte delle donne e pensano di poterla spiegare e descrivere loro, quella parte, forse perché hanno capito che è una parte che funziona, cattura, rende migliori agli occhi degli altri. Esiste il maschilismo dei femministi, perché è sempre esistito. Sono tutti affluenti, rami, braccia del patriarcato. In ciascuno di essi esiste un dolore sordo che non viene ascoltato, e al quale si assegna una cura svogliata, sempre la stessa perché non ci si prende la briga di indagare l’origine del male. Salvini è un sessista, Floris è un sessista, nostro padre è un sessista, quello che ci guarda le tette e per questo trova appropriato darci del tu è un maschilista (e un poveraccio): e tutto questo viene affermato con la gravità necessaria a far percepire la vastità del problema che rappresenta. Tuttavia, non ci si è resi ancora bene conto di come questa denuncia abbia creato una vergogna e pure una segregazione, una rabbia e una resa, una ferita e una vendetta.

 

Esiste il maschilismo dei femministi, perché è sempre esistito. Sono tutti affluenti, rami, braccia del patriarcato. In ciascuno di essi esiste un dolore sordo che non viene ascoltato, e al quale si assegna una cura svogliata, sempre la stessa perché non ci si prende la briga di indagare l’origine del male

 

Alcuni uomini si sentono usati, maltrattati e sacrificabili e non dicono adesso ve la facciamo vedere noi, ma dicono: se siamo soltanto questo, fate a meno di noi. Questo non manda in allarme nessuno, strappa qualche risata, fa dire parole come patetici, stronzi, facce di bronzo. Un incel preoccupa assai meno di un cretino qualsiasi di Facebook che viene sotto la tua bacheca a scriverti che Armine Harutyunyan, la modella armena di Gucci, è un mostro e tu pensi sia tuo dovere rispondergli e spiegargli in cosa sbaglia non a pensare che lei sia brutta ma a doverlo dire.

 

La mattina del sette ottobre, mentre in certe bolle e bollicine si esprimeva solidarietà a Michela Murgia e disprezzo a Matteo Salvini, uomini e donne soli ascoltavano la canzone di Francesco Bianconi, mandandosela reciprocamente come fosse un video porno, una storia proibita, e dicendosi ma vuoi vedere che domani gli suoneranno in testa hashtag indignati, lo rimprovereranno di ridurre e sminuire le donne, e di ridurre e sminuire pure gli uomini (Francesco Piccolo sempre quella volta ha detto: il vero problema è che gli uomini non ammettono di essere elementari, però lo sono). La canzone di Bianconi fa così:

 

“Io lo so che son venuto dalla fica e so che lì voglio tornare, per avere l’illusione e l’impressione di inventare un tempo buono e un fiore rosso, una preghiera contro il male, per dimenticare ogni mio giorno e ogni notte della storia e il dolore di arrivare alla tua fica, per scordare i tuoi problemi, i tuoi vestiti, le tue borse e il tuo tremare, per dimenticare tutto ciò che alla tua fica fa contorno, ai tuoi stivali, il tuo ragazzo, il tuo mascara, le parole, perché io vivo come fossi un animale, perché io vivo perché sono un animale”. C’è qui il separatismo animale, ed è un maschilismo decisamente migliore. Terreno e mistico.

 


 

Simonetta Sciandivasci, nata a Tricarico nel 1985 e cresciuta tra Matera e Ferrandina, ora vive a Roma, senza patente. Scrive sul Foglio, è redattrice di Nuovi Argomenti.

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