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La mia droga ero io

Simonetta Sciandivasci

Gli anni Ottanta, quelli in cui non dovevamo dare un senso a ogni cosa. Lo sfacelo e la vita. Un ex spacciatore racconta lo sballo senza maschera

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Quasi trent’anni fa, un film che finì sulla bocca di tutti cominciava con un ragazzetto nervoso e dinoccolato, con la faccia di destra e i vestiti di sinistra anarchica, che correva, preoccupato e divertito. Lo rincorrevano due tizi in abito da assicuratori, mentre la sua voce fuori campo ci elencava le cose, tutte uguali e più o meno orrende, che noialtri borghesi sceglievamo per darci un senso e un ordine. La vita, prima di tutto. E poi un lavoro, la carriera, il mutuo a interesse fisso, la prima casa, il fai da te, marcire in un ospizio. Finito l’elenco, diceva: “Perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. Il film era “Trainspotting”, arrivava da un libro di Irvine Welsh, il ragazzetto era Ewan McGregor, Mark Renton. Era il 1996, un anno di una decade della quale abbiamo ripreso, rianimato, ritinteggiato e sacralizzato tutto, le felpe, il post punk, i Csi, le dott. Martens, i rapper bianchi, i cartoni animati, tranne quella cosa precisa che diceva Renton: al diavolo lo scopo, evviva la consunzione. Chi è cresciuto in quegli anni lo sa: ci si sprecava moltissimo. Lo si faceva per godere dello sfacelo, per sottrarsi alla felicità, che cominciava la sua trasfigurazione da diritto a dovere, e pure perché non c’era di meglio da fare che giocarsi tutto, rischiare, andare al massimo. Lo si faceva perché non aveva senso, e di cose senza senso si aveva una gran fame: perseguirle era la sola ribellione possibile.

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Quasi trent’anni fa, un film che finì sulla bocca di tutti cominciava con un ragazzetto nervoso e dinoccolato, con la faccia di destra e i vestiti di sinistra anarchica, che correva, preoccupato e divertito. Lo rincorrevano due tizi in abito da assicuratori, mentre la sua voce fuori campo ci elencava le cose, tutte uguali e più o meno orrende, che noialtri borghesi sceglievamo per darci un senso e un ordine. La vita, prima di tutto. E poi un lavoro, la carriera, il mutuo a interesse fisso, la prima casa, il fai da te, marcire in un ospizio. Finito l’elenco, diceva: “Perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. Il film era “Trainspotting”, arrivava da un libro di Irvine Welsh, il ragazzetto era Ewan McGregor, Mark Renton. Era il 1996, un anno di una decade della quale abbiamo ripreso, rianimato, ritinteggiato e sacralizzato tutto, le felpe, il post punk, i Csi, le dott. Martens, i rapper bianchi, i cartoni animati, tranne quella cosa precisa che diceva Renton: al diavolo lo scopo, evviva la consunzione. Chi è cresciuto in quegli anni lo sa: ci si sprecava moltissimo. Lo si faceva per godere dello sfacelo, per sottrarsi alla felicità, che cominciava la sua trasfigurazione da diritto a dovere, e pure perché non c’era di meglio da fare che giocarsi tutto, rischiare, andare al massimo. Lo si faceva perché non aveva senso, e di cose senza senso si aveva una gran fame: perseguirle era la sola ribellione possibile.

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Trent’anni più tardi, il senso è il padrone delle vite di tutti: influencer e anarchici, neosocialisti e neoliberali, solitari e poliamorosi, genitori e monofamilisti, rigoristi e sballati, leaver e remainer, salutari e malconci. Mark Renton è per noi impensabile. Noi abbiamo Massimo Pericolo, rapper, che ha la denuncia negli occhi, e ci addossa tutte le storture del mondo, e dice con una sofferenza che ci chiama in causa che non va a votare perché non si sente rappresentato: Mark Renton neppure ci pensava a votare, non voleva essere rappresentato, voleva starsene ai margini di tutto a farsi una pera, a scegliere di non scegliere, a incantarsi della superficie liscia delle cose, del caos. Mark Renton non era arrabbiato e non chiedeva riscatto: voleva essere lasciato in pace a marcire. Era un nichilista? No. La sua era una strana forma di realismo: parliamoci chiaro, signori, non è che dobbiamo tutti eccellere, non c’è bisogno di tutti, io della vita non me ne voglio far niente. Noi rovesciamo dittature culturali, modelli, ruoli, generi, età, parole, scuole, corpi. Non vogliamo fare e disfare: vogliamo fare e rifare. Non rincorriamo più il destino, che s’è fatto capitalista e ottimista e perfezionista e stachanovista come molte altre cose, quasi tutte. Rincorriamo il significato profondo, l’autentico, la purezza illudendoci che stia lì, in quella ricerca, la più alta forma di libertà che possiamo esercitare; illudendoci che ciascuno di noi vale tantissimo e che è impossibile che siamo precipitati senza ragione su un cumulo di gas e detriti imbelliti dal sole, su un “pianeta chiamato terra anche se come noi è quasi soltanto acqua”. Per noi, in questo tempo ribellista e non ribelle, il progressismo è conservazione e tutela di un’idea vincente dell’essere umano: teleologica, finalista, necessaria. L’uomo non è accidente ma capolavoro. L’uomo è salvezza. L’uomo è l’America. Lo pensano anche le post femministe più hardcore, quelle che rivendicano il diritto a fare schifo, ritenendolo una via d’accesso privilegiata alla libertà d’espressione e non un modo di sottrarsi al funzionalismo asfissiante che abbiamo introiettato prima del patriarcato e del quale è impalcatura. La conseguenza più enorme di questo processo è l’espunzione del male dall’agire dell’uomo. I crimini più orrendi sono sempre “bestialità” commesse da “animali” non solo perché in quel modo possiamo creare dei mostri contro i quali sacramentare, rispetto ai quali sentirci retti, puliti, migliori, ma pure perché l’animale risponde a un istinto, e quindi quello che fa non è insensato: gli è utile per vivere e sopravvivere. Preferiamo la bestialità al nulla, che rifuggiamo come fosse un altro nome della morte, che neghiamo come ragazzini. Scegliere di non scegliere per noi è inconcepibile: noi che viviamo per raccontarla e la raccontiamo per viverla, non ammettiamo punti morti, siamo sceneggiatori con obbligo di suspence. Di suspence siamo così bisognosi che ci rintaniamo interi fine settimana per assumerne in grandi quantità guardando serie tv. E’ una dipendenza legale e collettiva: vogliamo assistere a molti finali, mentre non andiamo da nessuna parte. Non facciamo niente per niente: facciamo tutto per tutto. Tutto è approdo, risultato, esito, cura. Anche la droga, che lenisce il fallimento inevitabile cui espone questo modo d’intendere la vita, questo improntarla all’unità di produzione, oppure è responsabile del male che facciamo.

 

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L’Italia è sommersa dall’eroina, come il resto del mondo, e chi cerca di sgominare gli spacciatori sa dove trovarli: nei posti dove vivono o vanno a nascondersi quelli più sfortunati, quelli che non ce la fanno. Droga rima con disagio, sballo rima con abbandono. Noi Mark Renton lo manderemmo dallo psicoterapeuta per cavargli un motivo, o dieci, o cento; lo faremmo risalire a un qualche trauma pregresso; ci metteremmo in ascolto del suo cuore; gli estenderemmo la misericordia che s’estende a chi ha avuto un grande dolore. Non crediamo al fatto che la vita, per qualcuno, possa non valere lo sforzo della dieta, della manutenzione, dello sport, del tenersi alla larga dagli eccessi. Diamo una lettura fosca di chi si droga perché la droga è, da almeno un decennio, l’anestesia dei disperati, la ricerca del pieno, l’appiglio. I ragazzi di Trainspotting si drogavano esortati da una specie di vuoto, di rivolta fatta di un fuoco senza vampe deciso a consumarsi.

 

L’anno scorso, Sperling&Kupfer ha pubblicato un libro di Marco Ubertini, “33”, che racconta bene come in quegli anni (i Novanta, verso la fine) i ragazzini, specie i più attrezzati, quelli di estrazione sociale alta, cominciavano a rimanere soli: iniziavano a non funzionare le famiglie e le comunità e le persone, e loro erano “abbandonati al presente”, che avevano in mano ma che si mostrava anche immutabile. I ragazzini presero a drogarsi per stare in compagnia, per lenire una ferita e poi dimenticarla, non più per avere tutto amando tutto. Fu un decennio ibrido: c’erano i Mark Renton e c’erano gli Ubertini, i carnefici e le vittime, i cannibali e i divorati, gli affamati e gli inappetenti. Passava sulla loro pelle l’ultimo decennio che ammise la dispersione di sé senza farne né un fatto sociologico, né di resistenza: era un’eredità degli anni Ottanta. Se nei Novanta drogarsi dava “un senso di appartenenza, di unione” a ragazzini trasparenti in casa e ininfluenti fuori, negli Ottanta era un modo per allungare le braccia e rubare il frutto proibito, per costeggiare il burrone a bordo di una macchina di lusso, era un fatto di fame, di potere, di desiderio. Non aveva niente a che fare con la vita medicamentosa che abbiamo in mente oggi, né con la rivalsa, né con la risalita dall’abisso, con la valorizzazione di sé, con il “perseguitare gli adulti che ci ignorano con la nostra firma”. Gli spacciatori erano invitati illustri di feste esclusive, erano dei Weinstein senza la fissa del sesso perché avevano la fissa dell’ero, che il sesso te lo leva dalla testa, erano dei simpatici figli di puttana egoisti ma non crudeli, megalomani, provinciali, criminali, certo, però non assassini. Avevano avuto vent’anni a Bologna negli anni Settanta, e allora in città c’erano Andrea Pazienza e i pusher che vendevano fumo ed erba in piazza Maggiore, e si spostavano in Vespa.

 

Nick Fibonacci (nome fittizio), il protagonista di “Io Ero”, appena uscito per Mondadori, per tutti gli anni Ottanta e i primi Novanta ha fatto due cose: spacciare e drogarsi. In questo libro ha raccontato come ha iniziato, quanto gli è piaciuto, il paradiso, l’inferno, la subordinazione, gli amici, la solitudine, il carcere. E quanto s’è divertito – anche in carcere, dove ha conosciuto un barese che non aveva mai visto uno spazzolino in vita sua. Per anni, il suo solo pensiero è stato: come rendo indimenticabile questa serata? E mai, mai e poi mai è stato: dovrei forse cercarmi un lavoro? Alle prime pagine si legge: “Sono stato splendido e lurido, senza che ci fosse davvero un’intenzione di splendore o dissoluzione. C’era la droga e c’ero io”. All’ultima si legge: “Ho solo cercato di volare alto, inseguire lo sballo e la vita, di definirmi in un modo diverso rispetto a quello che mi sarebbe, forse, toccato in sorte. Ho cercato di fottere il banco proprio perché non era previsto che uno come me ce la potesse fare. E che tutta questa voglia di vita si sia trasformata in morte è stato solo un incidente di percorso: io, e tutti quelli che ho lambito, la vita l’abbiamo amata e sfidata, provocata, negata e poi inseguita. Senza mai capirla veramente”. In mezzo, scorrono 160 pagine cristalline, mai postribolari, mai risentite, mai lamentose, che della droga raccontano lo sballo e dello sballo raccontano la scomparsa del sé che regalava. La scomparsa, non l’annientamento. E’ un racconto senza analisi, cornici, vanghe, spie, cartine. L’eroina e la cocaina possono essere due obiettivi puri, non mezzi per raggiungerne altri, si può decidere di perseguirli pur essendo ragazzini senza velleità, frustrazioni, rimossi, pur venendo da una famiglia borghese, con familiari attenti che se non indagano enormi bizzarrie come un disoccupato appena ventenne che torna a casa in spider anziché in vespa non è per abiura della funzione genitoriale ma per fiducia. Fibonacci non sperpera i suoi anni migliori: li arricchisce, li sfida, ma certamente non li protegge. Ha vent’anni nell’ultimo decennio della storia contemporanea in cui averli ha equivalso a non pagare le conseguenze delle proprie azioni e il punk era dietro l’angolo a ricordare che la vita è sfacelo, perché opporsi? Un punto della relazione che un tossicodipendente e un pusher instaurano (instauravano?) con la droga e che Fibonacci illumina in modo interessante è la disponibilità di entrambi a farsi strumento: è in questo che sta la scomparsa di sé, la rinuncia all’ego prodromica alla rinuncia al significato.

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“Quando sei un tossico e sei un pusher, ti entrano fiumi di soldi, che sono soltanto un anticipo di quelli che ti arriveranno, e solo una parte di quanto dovrai pagare per avere altra roba. Tu sei un tramite, sei l’operaio che mette una goccia d’olio in un meccanismo in cui i soldi sono un ingranaggio. Fondamentale, ma per te solo strumentale”. Il denaro ha valore perché serve a comprare altra droga: la droga è l’inizio e la fine di tutto, il movente, il regime, l’orizzonte, l’alfa e l’omega. La droga è lo scopo. Non è l’ingresso, ma la festa. Aldous Huxley scrisse che la maggior parte degli uomini ha bisogno di paradisi artificiali perché conduce una vita talmente miserabile che trascendere sé stessi è assai più che un desiderio: è un bisogno. La storia di Fibonacci è la storia di un uomo che aggredisce l’ordinarietà cui è destinato sniffando cocaina e vendendola ad altri ordinari che si rifiutano di vivere ordinariamente. Per lui della vita conta la parte che si consuma e non quella che si preserva. Conta il sudore, non la ghiandola. Conta il tentativo, non il ricordo – “Forse ballammo con Bianca Jagger, forse limonammo con Brigitte Bardot. Non lo sapremo mai”. Tutto questo rimane invalso anche quando dall’eroina si passa alla cocaina (pieni anni Novanta), che diventa immediatamente “trasversale, come le Marlboro”, e che aumenta il potere di influenza degli spacciatori – “le donne si spogliavano prima ancora che glielo chiedessi, prima che lo pensassi”. Entra il Fibonacci in discoteca e tutti sono più contenti, sanno che è arrivata l’energia e che la useranno per godere di più, non per potenziare la performance.

 

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Per noi la vita è un interesse che matura: non possiamo capire quella forma di dissipazione, non riusciamo a coglierne il vitalismo, ne rintracciamo soltanto il negativo e lo chiamiamo impulso autodistruttivo. A noi la felicità non riesce. Il Florent di “Serotonina” di Houellebecq prende antidepressivi e psicofarmaci perché sa che non avrà mai più un’erezione e che la felicità per gli occidentali è finita e per loro non c’è che depressione e decadimento. Il John Serf di “Money” di Martin Amis (romanzo del 1984) tira cocaina perché gli piace (anche per stare in piedi e sopportare gli Stati Uniti, certo), perché gli mette il mondo in mano, perché disabilita le sue cattive intenzioni e fa di lui, dell’omone grasso e malato che è, un fallito innocuo. Nessun festino di Self o di Fibonacci sarebbe finito in un orrido omicidio, in uno stupro, in un’aggressione, in ore e ore di tortura. Perché della droga non si servono per accettare o negare, includere o escludere, riscaldare o riscaldarsi, vivere o morire, sostenere la famiglia, aiutare la mamma abbandonata dal papà, come fanno (o dicono di fare) tutti i nostri rapper. 

 

Nel 2016, Luca Varani, ventitré anni, fu trovato morto dopo essere stato seviziato da Marco Prato e Manuel Foffo, strafatti: leggemmo che la droga li aveva armati. Poche settimane fa due ragazze inglesi sono state violentate a Pisticci da un “branco di animali” (così ha scritto Repubblica), probabilmente strafatti anche loro: abbiamo letto che la droga e il branco li hanno armati. Per noi tutto è mezzo o scopo: è una visione che ci serve a evitare di fare i conti con la possibilità che vivere non sia altro che un incidente di percorso, un fatterello insignificante che ha la stessa valenza del volo di un insetto. C’è stato un tempo in cui riuscivamo a sopportare che ci si drogava per drogarsi, si viveva per vivere, si amava per amare, si ammazzava per ammazzare. Adesso non ci riusciamo, vogliamo sapere tutti i perché, ne inventiamo tantissimi, e quando la realtà non regge quell’invenzione, cerchiamo un paradiso artificiale in cui ambientarla.

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