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Fuga da Zagarhollywood

Michele Masneri

La ridente località dei Castelli, una specie di Palm Springs romana, è la location di una fiction nella fiction. Gabriel Garko, la setta, “Profondo Rosso” e l’ex parrucchiere agente che ora lavora a Malta. Un reportage

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A questa storia manca naturalmente il finale, come la lettera nel film che tutti citano: Ultimo tango a Zagarol. Si chiama infatti così, senza la o, appunto, e questa è la prima sorpresa. Zagarolo, ridente località dei Castelli romani (anche se tecnicamente sarebbero Monti Prenestini), ritiro di divi dalla Dolce Vita in giù, rivive in questi giorni di fama nazionale perché epicentro dell’Ares-gate, cosiddetto: da anni infatti ospita la factory di Alberto Tarallo, cioè la Ares, società di produzione e compound creativo che ha formato negli anni l’immaginario mélo-impiegatizio nostro; serie e film come “Il bello delle donne”, “L’onore e il rispetto”, “Il sangue e la rosa”, tutte qui concepite, con protagonista Gabriel Garko, in Zagarolo residente (Zagarolo è il nostro album di famiglia).

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A questa storia manca naturalmente il finale, come la lettera nel film che tutti citano: Ultimo tango a Zagarol. Si chiama infatti così, senza la o, appunto, e questa è la prima sorpresa. Zagarolo, ridente località dei Castelli romani (anche se tecnicamente sarebbero Monti Prenestini), ritiro di divi dalla Dolce Vita in giù, rivive in questi giorni di fama nazionale perché epicentro dell’Ares-gate, cosiddetto: da anni infatti ospita la factory di Alberto Tarallo, cioè la Ares, società di produzione e compound creativo che ha formato negli anni l’immaginario mélo-impiegatizio nostro; serie e film come “Il bello delle donne”, “L’onore e il rispetto”, “Il sangue e la rosa”, tutte qui concepite, con protagonista Gabriel Garko, in Zagarolo residente (Zagarolo è il nostro album di famiglia).

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Compound casa-e-bottega, con attori registi e sceneggiatori che vivono lì dentro: e tutto era noto, solo che ultimamente si è detto, o almeno insufflato, l’indicibile: che il compound fosse invece una specie di setta, con pressioni psicologiche e mali di vivere e tutto. La storia è risaputa, e comunque riassumibile per sommi capi: dentro la casa del Grande Fratello Vip, l’attrice non proprio da Oscar Adua del Vesco, storica fidanzata di Gabriel Garko, e inquilina del compound taralliano, confida in favore di telecamera a un altro semifamoso e pure lui ex inquilino, Massimiliano Morra, in un’alba come si vuole livida, che i due avrebbero in comune una conoscenza con un certo personaggio “luciferino”. Anzi “Lucifero in persona”. Si pensa dunque a Tarallo, il protagonista di questa storia: già parrucchiere, visagista, agente di dive, e non molto diabolico, in apparenza. Misterioso produttore di tutte queste serie, e gestore del villone molto Sunset Boulevard con bungalow intitolati a classici d’epoca, c’è quella “Eva contro Eva”, e quella “Viale del Tramonto”, come racconta chi c’è stato. Lì hanno vissuto e creato Garko ed Eva Grimaldi, la Del Vesco, Manuela Arcuri, e tanti altri della nouvelle vague zagarolese. Adesso però con queste rivelazioni cambia tutto.

 

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Cos’è Zagarolo veramente? Una Neverland amatriciana? Abbiamo un Charles Manson ai Castelli? Interrogativi bestiali. Salta fuori persino una canzone della Del Vesco: “Sei sei sei” (dunque naturalmente diabolica). E si apprende che nel compound è stato scritto Profondo rosso di Dario Argento. Saremo nel pieno della paranoia? Tutti complottisti, Q-Anon a Zagarolo? Comunque, da qui si è irrorato al paese davvero tanto immaginario, prodotto da Tarallo e sceneggiato da Teo Losito, il suo fidanzato morto suicida l’anno scorso. L’estetica tarallesca dai Castelli Romani si è insufflata nella società italiana incolpevole tramite il corpo di Gabriel Garko: altro protagonista di questa storia, belloccione torinese, sceso giù fin nella capitale, partito col cinema e arrivato con le fiction Mediaset a tormentare i cuori di signore e signori. Infine incastellato a Zagarolo – ha comprato un casone confinante con quello di Tarallo, e alleva cavalli (seconda parte del coming out oggi, sabato, a Verissimo).

 

Secondo il critico Rocco Moccagatta, il corpo di Garko tarallizzato è il “corpo del desiderio femminile da rivestire di volta in volta come un Big Jim/Barbie (perfido nazista, prete tormentato, mafioso faccia d’angelo, su su fino allo sfregio supremo, addirittura il latin lover per antonomasia del cinema, Rodolfo Valentino)”. Col corpo di Garko Losito, lo sceneggiatore o showrunner di questa saga, “ha potuto frequentare generi ormai proibiti alla produzione cinematografica italiana: il mafia movie (L’onore e il rispetto), il giallo all’italiana (Io ti assolvo) e para-argentiano (Caldo criminale), il thriller (Viso d’angelo), lo storico-papalino-risorgimentale alla Magni (Il sangue e la rosa), il war movie screziato di neorealismo (Il peccato e la vergogna), tutti condotti oltre il punto di non ritorno dell’eccesso irredimibile del mélo”.

 

Tarallo e Losito, coppia nell’arte e nella vita, andando a stare a Zagarolo, e portandosi appresso questi talenti, allevati a chilometro zero nel compound, forse si saranno cullati in una nostalgia di show business dei tempi che furono: “La casa di Tarallo apparteneva a Bernardino Zapponi, lo sceneggiatore di Fellini e di Alberto Sordi, di Monicelli e di Risi (suo il soggetto del Marchese del Grillo, tra i tanti)”, mi dice Marco Giusti, cinéphile. “Altre case: quella di Garko era di Litrico, il sarto, che glie l’ha venduta. Ursula Andress invece vive accanto, nella vecchia casa di Angelo Frontoni, fotografo celebre per il suo bianco e nero”. “Accanto a lei Umberto Orsini e Rossella Falk. Oggi abita a Zagarolo anche la Arcuri. E poi ci stava Angelo Infanti, che era proprio nato a Zagarolo”. In più, a Zagarolo vive il re dei paparazzi, Umberto Pizzi. Insomma, è davvero la nostra Palm Springs, una Palm Springs romana, un buen retiro di celebrità nascoste a un’ora da Roma. E forse vige la regola aurea di Palm Springs: un posto pensato per essere a un’ora dagli studios, essere sempre reperibili, e poter fare delle cose che in città è meglio non si vedano (tra le palme molti divi costretti dal perbenismo losangelino a sposarsi con improbabili signore, e viceversa, potevano finalmente gettare la maschera).

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E protagonista di questo luogo misterioso fino ad ora è Alberto Tarallo, Liberace romano: ex attore, ex parrucchiere e visagista, agente di cantanti; aveva esordito con ruoli da travestito negli anni Settanta; si esibì per un certo tempo glorioso all’Alibi (empireo gay romano); poi nei Novanta un grande salto di qualità: la produzione di quelle fiction tanto vituperate nell’ufficialità ma ugualmente apprezzate, magari senza dichiararlo, da utenze variegate. “Le prime erano di livello più alto, c’erano Ponzi e Samperi come registi, che erano bravi, poi franano nel trash. E comunque è un trash che piaceva molto. Di certo erano più belle di quelle Rai, con quel camp”, dice sempre Giusti. “Sono state le prime serie televisive in cui c’erano dei personaggi gay, effettivamente, e oggi in qualunque produzione Rai c’è un personaggio omosessuale, ma allora c’erano solo loro”, mi dice Francesco Vezzoli. “Il Bello delle donne, saga da fotoromanzo con un salone di bellezza in balia di drammi sentimentali di provincia, era molto avanti”. Recensione d’epoca di Silvia Fumarola: “Tra Donne di Cukor e Donne sull’orlo di una crisi di nervi di Almodovar il passo non è breve, ma le citazioni si sprecano sul set di Il bello delle donne, risposta Mediaset a Commesse. RaiUno aveva aperto una boutique, Canale 5 inaugura un salone di parrucchiere elegante, con le gigantografie delle dive appese alle pareti, dove si muovono dieci inquiete signore tradite dai mariti, innamorate di omosessuali, ignorate dalla famiglia, mantenute da ricchi macellai”.

 

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Anche una rappresentazione dell’omosessualità all’avanguardia: “In Caterina e le sue figlie, altra fiction di culto di Tarallo-Losito, Iva Zanicchi alias Liliana è la migliore amica della protagonista Caterina-Virna Lisi, e la convince ad accompagnare in Spagna il figlio gay a riprendersi il fidanzato. Sono gli anni in cui la Spagna era considerata avanti su queste tematiche rispetto all’Italia, ma qui è la rappresentazione di questo figlio a non essere stereotipata, e anzi molto moderna nel suo essere normcore”, dice sempre Vezzoli.

 

Certo altre volte si crolla nel camp più sfrenato, ed è evidente la disperata ambizione di riagganciarsi a un passato aureo: ricreare novelle Bette Davis o Joan Crawford avendo a disposizione però Giuliana De Sio e Nancy Brilli: ma non c’è dubbio che Tarallo e Losito abbiano tentato di creare un mondo estetico e uno star system in un’Italia che ne era ormai priva, e ormai in preda solo a film con intellettuali in crisi, geometri in crisi, registi in crisi. “Io a Zagarolo non ci sono mai stato”, mi dice Enrico Vanzina, “ma ho sempre avuto simpatia per Alberto Tarallo, fin da quando era parrucchiere. E’ un mostro di conoscenza filmica. Nessuno lo batte. Espertissimo di mélo americani anni Quaranta e Cinquanta. Mio fratello Carlo, che si reputava pure lui un esperto del genere, diceva sempre che come Tarallo non c’è nessuno. Film di sentimenti calpestati e offesi, di vecchie dive, quel miscuglio tra Catene e George Cukor”.

 

Ma quali messe nere: c’era un maxischermo, e si vedevano vecchi film”, mi dice Enrico Lucherini, decano dei press agent, amico di Tarallo e portavoce della Ares Film, oltre che inventore della definizione Zagarhollywood. “Ci passavo sempre una settimana a ferragosto, a Zagarhollywood”. E poi, dopo il film? “Dopo si dormiva. E pure durante”. Quella che Lucherini descrive è una specie di villa arzilla, con tutor anzianotti a tentare di far studiare aspiranti attori. “Non so proprio cosa gli sia venuto in mente a quei due. L’unica cosa satanica è che Dario Argento scrisse insieme a Zapponi Profondo rosso, nella villa. E del resto Tarallo è sempre stato produttore di Dario”. E’ anche l’unico tocco di modernità, “perché Tarallo tiene lì la sua collezione di Dvd, sono più di quattromila. Tutti vecchi film con Joan Crawford. Ma non quelli più famosi: non è che ha solo Eva contro Eva: ha dei titoli sconosciuti. Adua per esempio era pazza di Bette Davis. Altre volte mettevamo Gilda. Ma queste ragazzine non sanno manco chi era Joan Crawford. Niente”. Le istruivate? “Sì, certo. Tarallo fermava la pellicola, la rimandava indietro, gli spiegava”.

E poi che facevate? “Niente. Ognuno stava nel suo bungalow, tranne Teo che dormiva nella palazzina centrale con Alberto. Adua stava in camera a studiare vecchi film. Veniva su gente a pranzo, ma se volevi stavi nel tuo bungalow. Quanti erano? Sette. C’è una enorme piscina, schermata con una parete di bambù, e una sauna. Un’altra suite ha la jacuzzi con delle fontane. E poi c’è l’orto. Tre persone di servizio. Ogni tanto si andava a cena a Frascati. Ursula veniva sempre a pranzo. Robe mica tanto dietetiche, tipo parmigiana di melanzane”. Ai tempi d’oro, “si andava a girare negli studios della Ares, sulla Prenestina. Facevano lavorare un sacco di gente”. E allora perché parlano di setta? Se era tutto così stupendo perché questi andavano tutti in depressione? La Del Vesco anoressica, Morra andato in terapia, addirittura il suicidio di Losito… “Perché i contratti erano a termine, e se non si faceva un film, o la fiction saltava, il bungalow andava sgomberato”. Insomma gli aspiranti divi se ne dovevano andare, e forse lì fuori, dal compound, la vita era più difficile, viene da pensare. Così magari in tanti sceglievano di rimanere a Zagarolo. “Si lamentano di Tarallo ma poi hanno comprato tutti casa qui”, dice Enrico Lucherini. “Morra lì su nel paese”. E pure Francesco Testi, che doveva essere una specie di nuovo Garko, e che ha lavorato con Tarallo per qualche anno, ma poi ha abbandonato la factory, si è comprato pure lui casa a Zagarolo. Impossibile sfuggire da Zagarhollywood.

 

E Tarallo adesso che fa? “La società è fallita, lui lavora con Malta”. Malta? “Sì, lavora con la film commission di Malta”. Rimane la tragedia di Losito: “La società andava male, un film non è andato. Poi la morte della madre, un paio d’anni prima, è stata drammatica. Si è impiccato con una sciarpa di sua madre, a un termosifone, sai quelli alti? Una cosa tremenda”. A Zagarolo ci arrivi dallo svincolo di Tivoli. Non ci sono palme californiane, né le architetture moderniste di Palm Springs, le case sono palazzine tristi a due-tre piani affacciate sull’unica strada, con numerosissimi cartelli vendesi e affittasi. Palazzina cielo terra, novantacinquemila euro. C’è un severo palazzo Rospigliosi, il cartello dice che era proprietà della principessa Ninni Pallavicini, leggendaria capa dell’aristocrazia romana, che appoggiava il vescovo ultraconservatore Lefebvre. E nel 1974 uscì Roma senza papa, di Guido Morselli, favoloso romanzo fantascientifico ambientato alla fine del Ventesimo secolo, con un immaginario Papa in carica, Giovanni XXIV, che sposta la sua sede dal Vaticano a Zagarolo.

 

“Qui venivano già le Kessler”, mi dice la tabaccaia su corso Vittorio Emanuele, con senso della storia. Così non è per niente impressionata dal trovarsi Garko che gira per il paese. “Messe nere? Ah, questo proprio non ci risulta”. Sacrifici umani insomma non risultano alla cittadinanza, che è piuttosto presa, in questi giorni, dal ballottaggio di domenica. Con tempismo, si inaugura una residenza sanitaria proprio sul corso: ci sono pizzette, cocacole, il sindaco col tricolore. Sventola il gonfalone, con la scritta SPQZ, Senatus Populusque Zagarolensis. E qui tocca affrontare insomma l’annosa questione. Quando uscì il film, Ultimo tango a Zagarolo, nel 1973, non furono per niente contenti, spiega Marco Giusti, e tolsero la “o” finale. Era solo perché il nome faceva ridere: il film è tutto girato a Roma, di Zagarolo non c’è traccia. Era l’epoca delle parodie: Che fine ha fatto Totò Baby (invece di Baby Jane, con Bette Davis e Joan Crawford, che sarebbe più adatto alla storia tarallesca). E poi Ku fu, dalla Sicilia con furore. Lo stesso anno, Ultimo tango. “Fu una grande idea di Galliano Juso, il produttore. Il regista Nando Cicero non aveva mai fatto parodie, non voleva farne. Juso però lo porta a vedere Ultimo tango a Parigi e all’uscita Cicero dice: sì, qui bisogna farla, la parodia. Franco Franchi diceva che Bertolucci gli voleva fare causa, e che il film venne salvato dalla mediazione addirittura di Carmelo Bene, grande fan di Franco e Ciccio”. Ma proseguo, sul corso: un Dibi Center, e, incredibilmente, dei monopattini elettrici per eventuali turisti che volessero percorrere in maniera ecologica Zagarolo. Alla pasticceria Mellini suona Achille Lauro su Spotify. Svettano mini cheesecake (la modernità); il figlio del titolare, Marco Mellini, ha provato a fare il giornalista a Roma, dice, ma ha capito che il mestiere stava andando in una brutta direzione, e sta qui in pasticceria. Il coming out non ha stupito nessuno a Zagarolo, si sapeva, andava benissimo così, “siamo nel 2020”. Poi dice che “Garko è molto tranquillo, se facesse casino lo sentiremmo, abitiamo accanto”. Mi spiega su Google Maps dove stanno, “una strada romana”, e mi manda in avanscoperta.

 

Faccio la rotonda indicata, passo davanti al centro commerciale Oasi, un enorme supermercato con sterminati parcheggi: dentro, casse automatiche e maschi bianchi che pagano con l’iPhone; locker di Amazon gialli e murales bianchi e rossi di famiglie sorridenti. Di fronte c’è un piccolo incrocio e finalmente si arriva nella zona della “setta”. C’è una piccola strada lastricata di pietre, è una mini Appia Antica, c’è una serie di ville vecchiotte e sgarrupate, signorili. I citofoni sono tutti incatenati coi lucchetti. Su uno c’è la sigla U.A, Ursula Andress. Poco più indietro parte un’altra stradina, a un certo punto ecco il famoso compound di Tarallo, con le cancellate arrugginite. Forse sarà a Malta. O chissà dove. E chissà i bungalow. E poi invece la recinzione continua con una specie di Fort Knox, telecamere, muri altissimi, da narcos. Pare che sia la casa di Garko. Non è molto allegra questa zona, dall’altra parte ci sono villette un po’ baraccate, chissà chi ci sta dentro. E una vallata umida. Più che una setta, sembra davvero un viale del Tramonto, o almeno un vialetto. “Questa storia mi sembra un bellissimo film da scrivere”, mi dice Enrico Vanzina: “La storia di un gruppo di persone che avevano scambiato la vita per un film”.

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