PUBBLICITÁ

Ridere con la pandemia

Saverio Raimondo

Fare satira ai tempi del virus è un’impresa quasi impossibile ma il ritorno a una normalità passa anche da qui. Tra ritorni al cinema, ristoranti cinesi e colpi di tosse ritrovati, Saverio Raimondo ha raccolto appunti per costruire un formidabile diario sulla scorrettezza in tempi di Covid. Cronache dalla nuova Italia

PUBBLICITÁ

La prima cosa che ho notato, di questo torrido e inquieto settembre 2020, è che in città sono tornati tutti. Non era così a maggio, quando siamo usciti dal lockdown: in giro c’era pochissima gente, sarò per lo smart working, sarà che qualcuno ancora non si fidava a mettere occhi naso e bocca fuori casa, sarà che qualcun altro era morto. Poi, per tutta l’estate, complici le seconde case (e la morte, sempre in azione), in giro per Roma o per Milano c’era sempre meno gente. Fino a oggi. Adesso ci sono persone ovunque, che entrano e che escono, che salgono o che scendono; ci sono studenti con lo zaino sulle spalle e genitori di studenti che si lamentano per il peso degli zaini, gli uomini in giacca e cravatta e le donne col tacco, ci sono persino i mendicanti – che per fargli la carità con il distanziamento o si fanno un iban o tocca lanciargli le monete addosso. Sembra siano tornati anche i morti – o almeno l’odore è quello: abbiamo passato mesi a lavarci le mani, ma solo quelle. Ora per strada se vuoi evitare le persone e mantenere le distanze devi essere un acrobata, oltre a fare la gincana fra tavolini di bar e ristoranti – sono ovunque! – e monopattini elettrici abbandonati in giro. Il traffico è tornato ai livelli pre-pandemia (negli ultimi quattro mesi un pedone poteva attraversare col rosso senza conseguenze; ora ti investono come nel 2019) e le macchine sono parcheggiate regolarmente in doppia fila – secondo l’Oms per il ritorno alla normalità, cioè alla terza fila, bisognerà aspettare il 2023.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La prima cosa che ho notato, di questo torrido e inquieto settembre 2020, è che in città sono tornati tutti. Non era così a maggio, quando siamo usciti dal lockdown: in giro c’era pochissima gente, sarò per lo smart working, sarà che qualcuno ancora non si fidava a mettere occhi naso e bocca fuori casa, sarà che qualcun altro era morto. Poi, per tutta l’estate, complici le seconde case (e la morte, sempre in azione), in giro per Roma o per Milano c’era sempre meno gente. Fino a oggi. Adesso ci sono persone ovunque, che entrano e che escono, che salgono o che scendono; ci sono studenti con lo zaino sulle spalle e genitori di studenti che si lamentano per il peso degli zaini, gli uomini in giacca e cravatta e le donne col tacco, ci sono persino i mendicanti – che per fargli la carità con il distanziamento o si fanno un iban o tocca lanciargli le monete addosso. Sembra siano tornati anche i morti – o almeno l’odore è quello: abbiamo passato mesi a lavarci le mani, ma solo quelle. Ora per strada se vuoi evitare le persone e mantenere le distanze devi essere un acrobata, oltre a fare la gincana fra tavolini di bar e ristoranti – sono ovunque! – e monopattini elettrici abbandonati in giro. Il traffico è tornato ai livelli pre-pandemia (negli ultimi quattro mesi un pedone poteva attraversare col rosso senza conseguenze; ora ti investono come nel 2019) e le macchine sono parcheggiate regolarmente in doppia fila – secondo l’Oms per il ritorno alla normalità, cioè alla terza fila, bisognerà aspettare il 2023.

PUBBLICITÁ

 

Gli autobus, la cui capienza sarebbe all’80 per cento, a Roma sono già tornati ai livelli carro bestiame, con gente ammassata elle fermate che aspetta (per venti minuti almeno) che arrivi un mezzo già colmo al 120 per cento. Nella metropolitana di Milano è leggermente meglio, almeno qualcuno ci prova a rispettare le regole, ma senza paranoia: la gente durante il tragitto è tornata a fissare il proprio smartphone e ha smesso di fare il tampone con gli occhi a tutti quelli che salgono sul vagone. La gente ha ripreso anche a tossire in pubblico: fino a pochi mesi fa era impensabile, se ti scappava anche solo da starnutire dovevi tapparti la bocca con entrambe le mani e correre lontano lontano, a fare “etciù!” in mezzo ai boschi o in cima ai monti come Fantozzi quando deve gridare di dolore perché Filini gli ha martellato il pollice nel camping pieno di tedeschi.

 

PUBBLICITÁ

Adesso invece siamo tornati a tossire in pubblico, ma soprattutto a non voltarci spaventati quando uno lo fa; anzi, nel sentire lo starnuto di qualcun altro ci sentiamo sollevati, liberi – come germi. I social si sono un po’ svuotati: dopo mesi di dirette casalinghe prima e di stories da Ortigia o dalla Val d’Orcia poi, ora la gente non ha più tempo né stimoli, è tornata al lavoro o a cercarne uno. Se prima eravamo scaglionati, ora di nuovo scoglionati. E’ tutto come prima, solo con la mascherina. La manifestazione dei No Mask a Roma è andata un po’ così: poca gente, e niente che non fosse già stato detto su Facebook. Gli ha dato buca persino Povia. Il fatto è che il Paese Reale, tutto sommato, la mascherina se la mette. Alcuni male, con il naso che spunta fuori tipo testicolo dalla gamba di un boxer sgualcito; altri sin troppo zelanti, con il volto coperto tipo beduino nel Sahara anche quando sono a passeggio da soli per vie semi-deserte oppure al volante della propria auto senza passeggeri. Non che sotto a quelle mascherine poi non bofonchino che è tutto un complotto, che stiamo esagerando, “è poco più di un’influenza”, ci stanno tappando la bocca con un bavaglio etc.; ma appunto, la mascherina al Paese Reale serve perché così ce ne possiamo lamentare. 

 

Lamentarsi è il vero carattere nazionale italiano, un po’ panem un po’ circenses; ma alla fine le vacanze le abbiamo fatte, il calcio ha ripreso e forse ci fanno pure tornare un po’ allo stadio, i licenziamenti congelati, i bonus a pioggia, le scuole hanno riaperto, le discoteche hanno chiuso solo dopo che ci siamo già andati, i contagi ci sono ma non si vedono più le bare portate via dall’esercito, l’Europa non fa altro che darci soldi… fortuna che ci sono ’ste cazzo di mascherine, altrimenti di cosa sbufferemmo? E poi la mascherina è la foglia di fico, il tappeto sotto il quale nascondere la mancanza di un piano (sia economico che pandemico), la polverina magica che risolve tutto, l’oggetto votivo a cui affidarsi e chiedere la grazia: nei luoghi pubblici il gel c’è e non c’è (sempre più spesso vai a schiacciare e non esce più niente, magari è finito da giorni ma nessuno lo cambia) e quando vado al bagno per lavarmi le mani non trovo mai la fila (possibile sia rimasto solo io a cantare “tanti auguri a te” con in sottofondo il rubinetto aperto?), la gente si assembra ovunque senza scrupoli, la distanza di un metro è sempre più relativa e soggetta a libere interpretazioni (anche in pubblico è passata la linea “le misure non contano, conta come le sai usare”), è bastato piovesse che subito negli uffici hanno chiuso le finestre… ma basta avere la mascherina, e va tutto bene! E lo dico senza ironia: Oms e Financial Times hanno persino elogiato la nostra gestione della pandemia. Quindi, avanti così: fate come vi pare ma con bocca e naso coperti.

  


In pochi al cinema. Come prima. E le chiese stanno messe anche peggio. Il film più discusso questo mese in Italia? Quello di Vanzina, che deve ancora uscire. Menù ridotto al ristorante cinese


 

PUBBLICITÁ

Anche le elezioni, annullate e rinviate per mesi, alla fine le hanno risolte semplicemente facendo mettere la mascherina a elettori e scrutatori, e per il resto è tutto uguale a prima: le urne di cartone con le schede di carta e le cabine senza ruote – mi aspettavo gliele mettessero come ai banchi di scuola, e invece niente. Tanto con l’astensionismo e l’affluenza italiana – mai sopra al 50 per cento – il rischio assembramento era dato più basso delle probabilità di vittoria del No al referendum; e infatti quando sono andato a votare io, attorno alle 10 di domenica mattina, oltre a me c’era solo una vecchia, distanziatissima. Dicono che avrebbero sanificato le matite; ma io non gliel’ho visto fare, né prima né dopo il mio uso. Però io mi sono frizionato le mani con il gel sia in entrata che in uscita – al seggio i dispenser c’erano, e belli pieni; e riflettevo che questa tornata elettorale, già solo per tutto il gel necessario a sanificare 51 milioni di mani italiane, ci è costata più della solita cancelleria. Così, giusto per fare del populismo che ora fa tanto élite.

 

Da parecchio tempo ormai è sensibilità comune che il vero Capodanno sia il 1° settembre. Ma quest’anno, sarà che cadeva di martedì, la tradizionale ripartenza era accompagnata da una costante sensazione di rinculo, o da un più generico spaesamento tipico di chi, seduto su un treno fermo in stazione in attesa che parta, vede fuori dal finestrino il treno accanto muoversi; e non sa se a esser partito è il proprio o l’altrui convoglio. Così in questi giorni senti che qualcosa si muove, ma non capisci se sei tu o se sono gli altri; o forse ci stiamo muovendo tutti, ed è il mondo che è fermo.

 

O viceversa: il mondo sta andando avanti velocissimo, mentre noi siamo bloccati, come impietriti; tipo me in questo paragrafo. Scusate lo smarrimento, ma io non so più nemmeno in che fase siamo. Non ho mai capito quando siamo passati dalla fase 2 alla fase 3, e da allora mi sono perso. Siamo passati alla fase 4? Fermi alla 3? Retrocessi alla 2? Quante sono queste fasi, qual è l’ultimo livello, fin dove bisogna arrivare? Dove siamo? Dunque per votare sono entrato in una scuola, dove in effetti non ho visto né banchi monoposto con le ruote né quelli da due segati a metà; solo i soliti vecchi banchi, tutti interi comprese le gomme da masticare attaccate sotto e fossilizzate dal tempo, accatastati nei corridoi per fare spazio alle votazioni.

  

    

Chiunque io abbia sentito in queste ultime due settimane, genitori o insegnanti, non mi hanno raccontato di particolari disagi scolastici tipo bambini costretti a scrivere in ginocchio – come se fosse una cosa poi così scandalosa, fra l’altro: solo a me la scrittura in ginocchio fa pensare a una antica disciplina dei frati amanuensi, o una roba a metà strada fra la Scuola Holden e il crossfit? Ho parlato anche con delle tredicenni (tranquilli, tutto legale) che mi hanno raccontato che a scuola loro la situazione è tranquilla: gli insegnanti ci sono tutti, i banchi nuovi no ma si siedono ai vecchi una sul lato lungo e l’altra sul lato corto all’angolo opposto, e sembra funzionare – o per lo meno per ora sono tutte asintomatiche.

  

A ricreazione non possono andare in bagno, solo durante le ore di lezione (ma è una pacchia!). Mascherine obbligatorie finché non si siedono al banco; poi da quel momento l’anarchia: ci sono professori che le fanno tenere sempre e altri che dicono di togliersele (tanto le finestre in classe sono ancora aperte); ci sono quelli che dicono di mettere la mascherina solo quando devono parlare (ha senso: i droplet), altri che dicono di levarsela proprio quando devono parlare (ha senso anche questo: quando una persona parla con la mascherina non si capisce niente, è tutto un mugugno a cui gli altri rispondono “cosa hai detto?” sempre con la mascherina indosso, con il risultato che anche quell’altro non capisce e nel giro di tre secondi la conversazione è fatta solo di “eh?” o “mh?”, ovattatissimi).

 

Alla fine sono tutti preoccupati per i contagi a scuola, tranne gli studenti: compiti e verifiche condizionano la loro vita molto più di un’emergenza sanitaria. E a due settimane dalla riapertura, pur se in attesa di eventuali contagi e con qualche (sporadica) realtà già richiusa per focolai, possiamo dire che la scuola è già tornata alla sua normalità, con tanto di proteste e manifestazioni di sindacati, studenti e genitori. Se continua così presto il problema tornerà a essere il bullismo e il crocefisso nelle classi. Volete la mia opinione? Sono decenni che nella scuola italiana manca la carta igienica; eppure bene o male è andata avanti.

 

Sopravvivrà anche a questo. Piuttosto, la pandemia non doveva far chiudere i centri commerciali sostituiti dall’e-commerce? Sarà, ma intanto quando sono andato a Porta di Roma, domenica 13 settembre, ho faticato a trovare parcheggio. All’Ikea c’era la fila; fuori per il termoscanner, dentro per il ristorante e le polpette svedesi. Negli spazi espositivi la gente si sedeva, toccava tutto, e per lo più ciondolava inebetita come sempre. Sono certo che fra tutti quei mobili svedesi, quelle simulazioni di stanze, quell’interior design minimal e funzionale, il pensiero corresse al lockdown, chi con qualche rimpianto (“se solo avessi avuto una cucina così, altro che lievito madre!”) chi con la speranza di una seconda ondata. In esposizione c’era anche Anfallszon, il divisorio da scrivania in plexiglas di Ikea: viene 70 euro – chi lo fabbrica, gli stessi del vaccino Oxford-Pomezia? Da MacDonald invece c’erano le famiglie e gli obesi – fenomeno spesso concomitante; e c’era un inserviente che passava a igienizzare i tavoli e le sedie con uno spray di alcol denaturato (o per lo meno così sembrava, dal colore) e uno straccio che immagino abbiano poi dato alle fiamme.

 

Da Decathlon invece la morte civile: corridoi deserti, merce invenduta – o almeno lo era fino a quella domenica pomeriggio di metà settembre. Ma non eravamo diventati tutti più sportivi? O la body positivity si sta trasformando in trascuratezza e in una scusa per lasciarsi andare, o in realtà due mesi di lockdown ci hanno insegnato che le palestre non servono: si possono fare gli addominali anche sul parquet del salotto, i pettorali contro un muro e se la maratona di New York è stata annullata niente e nessuno invece può impedirti di correre su e giù per il corridoio di casa. E nello sport casalingo non serve più tutto quell’abbigliamento tecnico, che aveva la ridicola pretesa di farti sembrare figo anche mentre sudi; a casa puoi fare yoga con la maglietta bucata, le leggins sdrucite, i pantaloncini orrendi. Ma io al centro commerciale sono andato per vedere Tenet. Sala Imax, sennò Nolan piange; e l’unica sala Imax a Roma è a Porta di Roma. Com’è guardare un film con la mascherina? Se non la porti sugli occhi è uguale a prima, anzi più comodo perché non hai nessuno accanto, i braccioli sono tutti per te, puoi poggiare eventuali giacche senza doverle tenere sulle gambe, e non hai nessuno seduto davanti che ti copra il film.

 

E’ vero, non puoi più pomiciare; ma se volevo pomiciare non spendevo 13 euro di sala Imax – anzi, 26: per pomiciare bisogna essere almeno in due – e poi non sono a mio agio a fare certe cose al buio: mi piace vedere cosa sto leccando. Le uniche cose veramente strane dei cinema riaperti dopo il lockdown sono le locandine all’ingresso (sono ancora quelle dei film usciti a febbraio, e vederle ora fa tanto videonoleggio di una volta) e i venti minuti di trailer prima dell’inizio del film, che siccome non ci sono trailer perché non ci sono film in uscita allora sono stati sostituiti da venti minuti di niente, schermo nero e basta, come a dire parlate tra di voi, ah no che siete lontani e avete la mascherina e non si capisce niente, allora fissate lo schermo nero per venti minuti e pensate alla morte. In quei venti minuti però la sala si è riempita, nei limiti degli ingressi contingentati; e ho pensato che forse i cinema sopravvivranno.

 

Poi ho visto gli incassi di queste settimane, e forse no. Tra l’altro il film più di discusso questo mese in Italia non è stato nemmeno Tenet, ma Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina, cioè un film che deve ancora uscire e che nessuno ha visto: perché ormai il cinema la gente non lo guarda più nemmeno su Netflix, si fa i film direttamente nella testa. Inutile fare pianti o discorsi ottimistici sulla sorte delle sale cinematografiche; mi limiterei a constatate che già da prima della pandemia il cinema in sala non era più una consuetudine per gran parte delle persone, e sempre meno lo sarà, come era già ineluttabile che fosse.

   


In treno con le mascherine si rischia la catalessi. Gli aerofobici ora più sereni. Nella tv sembrano tutti molto più preoccupati per l’assenza del pubblico in studio che per la presenza del pubblico a casa. La trama di “Tenet”  e la frase “non devi capirlo, devi sentirlo”, che vale anche per sopravvivere a questo periodo storico-pandemico


   

Ma il cinema in sala non morirà del tutto – alla fine non muore mai niente, avevano date per morte sia la tv lineare che Twitter e invece sono entrambi ancora lì; il cinema in sala potrebbe sopravvivere come evento, magari un po’ esclusivo. Ma non so se l’Imax sia la strada giusta, perché al netto della roboante presentazione prima che il film cominci, con una sorta di spot che declama la qualità della visione e del suono a cui stai per assistere, alla fine molto più prosaicamente il film si vede bene e si sente bene, punto – e del resto ho pagato un biglietto per vederlo e sentirlo, quindi ok così ma senza tirarsela tanto. L’unica vera differenza con una proiezione tradizionale è che con l’Imax a ogni rumore proveniente dal film le poltrone del cinema tremavano tantissimo. O almeno spero che fosse per l’Imax; altrimenti avvisate gli speleologi che c’è una faglia sotto Porte di Roma. Comunque le chiese stanno messe peggio dei cinema.

 

Lì altro che Imax, hanno la transustanziazione, il sovrannaturale, il prodigio; eppure non c’è niente da fare, sono stato a messa due settimane fa e non c’era nessuno. E in questo caso non puoi dare la colpa allo streaming. Le messe sono deserte da ben prima del distanziamento sociale, ma secondo me il colpo di grazia glielo darà questa pandemia: non tanto per la cattiva stampa dovuta ai tanti contagi ai funerali, quanto perché il gel igienizzante al posto dell’acqua santa proprio non si può vedere, sembra una parodia, io mi sono anche confuso e mi sono igienizzato fronte petto e spalle. Sui treni, almeno quelli ad alta velocità, c’è ancora il distanziamento; ma un posto sì uno no sono quasi sempre pieni. Qualcuno non porta la mascherina, o non la tiene correttamente; allora passa il controllore e facendo il vago ricorda gridando a tutto il vagone di indossare la mascherina – svegliandomi.

 

Già il movimento del treno è soporifero; ma ora con le mascherine indosso per tutta la durata del viaggio si rischia la catalessi tanta è la sedazione, non ho capito se indotta dalla nostra stessa anidride carbonica che respiriamo ancora calda di polmoni o se perché ci sediamo sul treno esausti dallo stress provato in stazione, con tutta quella gente (molta meno di prima, ma sempre tanta) che si muove in tutte le direzioni e non solo in quelle indicate dalle frecce per terra. L’aereo invece non l’ho più ripreso: l’unica cosa buona di tutto ’sto casino globale è che ha reso noi aerofobici più sereni. Non solo le possibilità di dover prendere un aereo sono vertiginosamente calate, ma non abbiamo nemmeno più l’imbarazzo di dover dire in società “no, non salgo, ho paura che caschi”. Adesso è raro vedere un aereo in cielo, e anche questo mi fa stare più tranquillo: il rischio che un aereo mi precipiti addosso è ridotto al minimo storico. Dice che era già statisticamente impossibile; ma vabbè, ora è anche meno. Non mi sono fatto mancare niente, in questo settembre di ritorno alla vita di prima – o qualcosa del genere, con quel che ne rimane.

 

Dopo il cinema e il centro commerciale ho deciso di sfidare ogni spauracchio e sono persino tornato a mangiare al ristorante cinese, seduto ai tavoli fuori e scegliendo ravioli alla piastra e pollo fritto da un menù ridotto all’essenziale rispetto all’abbondanza di prima. “Ah, non c’è più il carpaccio di pangolino?”, ho scherzato. Risate a denti stretti. Ho mangiato bene, sono entrato a pagare il conto, e dentro, proprio sopra la cassa, c’erano le foto di quando a gennaio quel ristorante ha ospitato collegamenti con Piazzapulita, L’aria che tira, altre trasmissioni La7 e Rai.

 

Eravamo solo all’inizio, quando ancora il Corona era un virus cinese e c’era la psicosi involtino primavera; ma ora quella discriminazione di ieri è diventata la pubblicità di oggi. Non capisco esattamente la logica di questo marketing, del perché dovrebbe funzionare né su quale target; ma forse questo ristorante cinese ha capito qualcosa che noi ancora non sappiamo, e che forse potrebbe essere utile anche alla pro-loco di Codogno. Non solo il ristorante cinese: sono stato anche a un matrimonio – a me la vita spericolata alla Vasco Rossi mi fa un baffo. E siccome la sposa era francese, quaranta degli ottanta invitati presenti ai festeggiamenti erano appena atterrati dalla Francia, paese europeo fra i più appestati del momento. Sentite anche voi un brivido al vostro sistema immunitario? Eppure, pur avendo ballato e mangiato in compagnia (a proposito, i buffet adesso sono come l’alcol durante il Proibizionismo: vietati ma diffusi grazie a un traffico sotterraneo di vassoi e tavole imbandite), il mio tampone anche a distanza di giorni continua a essere negativo.

 

Sarà che ho gelosamente custodito il mio bicchiere per tutta la serata, senza mai separarmene né confonderlo con altri, al punto tale che quando verso le due di notte sono rientrato a casa mi sono accorto di averlo sottratto al catering e di avercelo ancora in mano. Nella tv italiana, ripartita a regime dopo mesi di repliche e programmi superstiti, sembrano tutti molto più preoccupati per l’assenza del pubblico in studio che per la presenza del pubblico a casa; come se il loro lavoro fosse il teatro, e non la televisione. In Rai hanno riscoperto risate e applausi finti, ma ignorando il sound design o anche solo il senso dell’udito; il risultato sono boati subumani improvvisi e ingiustificati, veri e propri disturbi audio evidentemente mandati da un tecnico che armeggia sul mixer audio con la stessa svogliatezza con cui noi pigiamo i tasti del telecomando per cambiare canale.

 

A Ballando con le stelle si sono addirittura inventati il pubblico da remoto, assembrato (virtualmente) ma non lì, altrove – come se il virus si annidasse all’Auditorium Rai del Foro Italico e non anche nel resto del mondo. Graficamente il lavoro è stato fatto talmente male, con persone campionate in modo così dilettantesco da averne scontornate alcune senza arti, che ha fatto il giro e ha scavallato nel sublime. Avrebbero meritato un Telegatto in diretta, consegnato in studio con un Glovo. Ma se la tv piange, il web non ride: non solo sulle piattaforme di streaming languono le grandi uscite, ma anche sui siti porno i video sono gli stessi da mesi. Appunti e considerazioni sparse: ho visto dal vivo Chiara Ferragni, l’altra sera al Maxxi di Roma in occasione del Prix Italia.

 

È identica alle foto su Instragram: non è truccata, è filtrata. Adesso alla sede Rai di via Teulada, quando entri, non c’è più Gigi Marzullo spiaggiato su un divano all’ingresso. In generale nelle sedi Rai ci stanno fisicamente un terzo delle persone che c’erano prima; “hanno lasciato solo quelli che lavorano veramente”, dicono i maligni. Ora il pos per i pagamenti con carta o bancomat ce l’hanno proprio tutti, le uniche sacche di resistenza militante e antagonista restano i tassisti. Ogni sera, prima di andare a dormire, controllo se tante volte il vaccino per il coronavirus fosse uscito in pre-order su Amazon. A oggi, ancora niente. Quello che mi ha sorpreso, del dibattito su Tenet che si è tenuto sui social (fuori dalla sala era impossibile parlarne: con le mascherine non si sproloquia bene), è questa diffusissima difficoltà da parte di chi lo ha visto a capirne la trama, quando invece non è affatto così complicata (e a dirvelo sono io, cioè uno non particolarmente sveglio né perspicace); o comunque il principio alla base del film è abbastanza chiaro (i personaggi viaggiano nel tempo, punto) e non serve capire tanto di più per godersi la storia.

 

Non è neanche la prima volta che al cinema succeda una cosa del genere: già Cary Grant si lamentò con Hitchcock che non capiva la trama di Intrigo internazionale; e impazzirono anche gli sceneggiatori che stavano lavorando allo script de Il grande sonno tratto dall’omonimo romanzo di Raymond Chandler – e se vi siete persi nei meandri spazio-temporali del film di Nolan, il capolavoro di Hawks potrebbe letteralmente farvi esplodere il cervello pur essendo cronologicissimo nei suoi rapporti di causa-effetto. Quello che non capisco è tutta quest’ansia per la comprensione del film, questa necessità di capire tutto, bene e nel minimo dettaglio, quando proprio in una delle prime scene di Tenet c’è una frase rivolta al protagonista che è palesemente anche un invito, un’esortazione che il regista fa al pubblico, conscio di stargli per propinare più di due ore di action-thriller diacronico – caratteristica che però non vale anche per la durata del film: quando esci dalla sala sono effettivamente passate più di due ore e non c’è modo di tornare indietro nel tempo. Quella frase è “Non devi capirlo, devi sentirlo”; e secondo me non è solo la chiave per gustarsi Tenet, ma anche per vivere o quanto meno sopravvivere a questo periodo storico-pandemico che ci è toccato in sorte.

 

Come il pubblico di un film di Nolan, vogliamo capire cosa è successo e cosa stia accadendo, come è successo, cosa fare, e il perché di ognuna di queste cose; vorremmo che qualcuno ci spiegasse tutto, quando invece proprio come in un film di Nolan “non dobbiamo capirlo, dobbiamo sentirlo”. Il complottismo/negazionismo del Covid è frutto di questa smania di capire, questa corsa a spiegare tutto e subito, immediatamente, con fretta e con ardore; mentre chi si adegua alle poche norme e restrizioni senza tante storie (pur in presenza di qualche irrazionalità e discrezionalità di troppo) lo fa non per mancanza di senso critico o docile sottomissione, ma perché “sente” che è giusto così. Non è andato tutto bene, non ne siamo usciti migliori, non ce l’abbiamo fatta; però il mondo non è nemmeno così cambiato rispetto a prima. Anche chi ha perso il lavoro a causa del Covid non è diverso da chi lo ha perso prima della pandemia, per altre ragioni. E resta il fatto che – magari dopo qualche esitazione iniziale, magari non visti – ci tocchiamo tutti lo stesso, ci abbracciamo e ci baciamo ancora.

 

Questo è il nostro limite, ma anche la nostra unica consolazione, certezza, forse addirittura speranza in questo momento epocale così inquieto e incerto: non siamo capaci di immaginare un mondo diverso da questo, stanco e ingiusto ma – forse – inevitabile. Non è il capitalismo, né la democrazia: ciò che tiene in piedi le nostra società, la base delle nostre vite e del modo in cui le viviamo, è la routine. L’abitudine, il tran-tran; le solite cose. E la routine non l’ammazzi, non c’è riuscito il terrorismo e non ci sta riuscendo nemmeno la pandemia; semmai è lei che ammazza te, o il tuo matrimonio. Che il vaccino per ora sia questo?

PUBBLICITÁ