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Modelle per caso

Fabiana Giacomotti

L’alta moda interpreta il cambiamento della società. Le opinioni estetiche del popolo del web e l’inclusività, quella vera, in passerella

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Non crediate nemmeno per un secondo che questa storia delle modelle non professioniste e/o non convenzionali per altezza e venustà sia una notizia o una novità di questi tempi che solo la presunzione ci fa immaginare ipocriti e corrotti e dunque da combattere con tutta la violenza verbale alla portata del nostro lessico, meglio se poverissimo. Mia madre non è disponibile per raccontarvi che cosa venne scritto di Twiggy quando il suo testone lunare spuntò dai servizi della Swinging London, ma io sono in giro da un tempo sufficientemente lungo per aver assistito all’ascesa di Kate Moss e all’ordalia che le allestirono i giornali di mezzo mondo quando la sua immagine fragile e nuda nei jeans di Calvin Klein comparve sulle fiancate dei bus. I social non erano ancora in azione e le invettive erano in apparenza più eleganti, ma andavano a segno come mai riuscirà, e per fortuna, l’hashtag #bruttafaccia. E’ stato digitato migliaia di volte sotto le immagini di Armine Harutyunyan, la giovanissima artista armena che per un breve momento, un anno fa, ha sfilato per Gucci e, grazie all’incredibile fake di una lista delle “cento modelle più sexy dell’anno” (una faccenda orwelliana tutta nazionale nella quale abbiamo dato il peggio come sempre facciamo sui temi risibili), si è trovata al centro di una campagna di odio alla quale ha risposto con una dignità che contrasta amaramente con la nostra ferocia: “Quando mi guardo nello specchio mi piace quello che vedo”. Kate Moss, per motivi familiari e come s’è lungamente visto in seguito, non aveva la stessa saldezza di spirito. La massacrarono: e che sembrava un elfo, e che aveva le gambe storte, e che aveva il viso a triangolo ed era piatta come una tavola, e che era patita, anzi che incoraggiava la pedofilia, l’anoressia, la bulimia, i cattivi risultati scolastici, la distrazione dei giovani dai veri valori, entrambi con la V maiuscola.

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Non crediate nemmeno per un secondo che questa storia delle modelle non professioniste e/o non convenzionali per altezza e venustà sia una notizia o una novità di questi tempi che solo la presunzione ci fa immaginare ipocriti e corrotti e dunque da combattere con tutta la violenza verbale alla portata del nostro lessico, meglio se poverissimo. Mia madre non è disponibile per raccontarvi che cosa venne scritto di Twiggy quando il suo testone lunare spuntò dai servizi della Swinging London, ma io sono in giro da un tempo sufficientemente lungo per aver assistito all’ascesa di Kate Moss e all’ordalia che le allestirono i giornali di mezzo mondo quando la sua immagine fragile e nuda nei jeans di Calvin Klein comparve sulle fiancate dei bus. I social non erano ancora in azione e le invettive erano in apparenza più eleganti, ma andavano a segno come mai riuscirà, e per fortuna, l’hashtag #bruttafaccia. E’ stato digitato migliaia di volte sotto le immagini di Armine Harutyunyan, la giovanissima artista armena che per un breve momento, un anno fa, ha sfilato per Gucci e, grazie all’incredibile fake di una lista delle “cento modelle più sexy dell’anno” (una faccenda orwelliana tutta nazionale nella quale abbiamo dato il peggio come sempre facciamo sui temi risibili), si è trovata al centro di una campagna di odio alla quale ha risposto con una dignità che contrasta amaramente con la nostra ferocia: “Quando mi guardo nello specchio mi piace quello che vedo”. Kate Moss, per motivi familiari e come s’è lungamente visto in seguito, non aveva la stessa saldezza di spirito. La massacrarono: e che sembrava un elfo, e che aveva le gambe storte, e che aveva il viso a triangolo ed era piatta come una tavola, e che era patita, anzi che incoraggiava la pedofilia, l’anoressia, la bulimia, i cattivi risultati scolastici, la distrazione dei giovani dai veri valori, entrambi con la V maiuscola.

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Il caso Armine Harutyunyan, la giovanissima artista armena che per un breve momento, un anno fa, ha sfilato per Gucci


 

Tutto questo era Kate, che avrebbe anche mangiato se le avessero dato il tempo di farlo fra uno shooting e l’altro, e non aveva nemmeno vent’anni. Di certo, i servizi fotografici che le scattava Corinne Day, fra materassi sporchi e biancheria stesa sui radiatori, che lanciarono il fenomeno dell’heroin chic, non la aiutavano granché a ribaltare la situazione, tanto che a un certo punto qualche manina della generazione pre-Di Maio iniziò a scribacchiare “feed me”, nutritemi, su centinaia di cartelloni che la ritraevano con quel suo sguardo enorme e smarrito. Di Kate Moss parlava malissimo perfino suo fratello, che aveva tentato la carriera da modello senza avere successo, secondo quel meccanismo perverso della natura umana riassumibile nel “perché lei sì e io no” che temiamo sia alla base anche dell’odio riversato sulla persona di Armine da parte dei tanti che si riterrebbero irregolari ed eccentrici come lei, ma che a differenza di lei non sono stati chiamati da Gucci per sfilare. Migliaia di persone arrabbiate perché si sono sentite truffate nelle proprie aspirazioni, che all’improvviso scoprivano, o credevano, legittime. Un esercito strepitante che ha tenuto botta per decenni, convinto che per sfilare in passerella e per posare per Mert&Marcus si dovessero possedere caratteristiche fisiche specifiche, e le gambe lunghe e le proporzioni armoniose e l’eleganza del portamento e la grazia del volto, e questo a dispetto degli esempi anche abbastanza recenti di gente come appunto Kate Moss, ma anche Kristen McMenamy, Stella Tennant, Sofia Coppola, Chloe Sevigny, i malinconici Tadzio di Prada ma che volete, sopravviviamo perché dimentichiamo tutto. E invece quest’esercito strepitante si è ritrovato davanti i lost children di Alessandro Michele e la pur falsissima classifica che incoronava Armine.

 

Il successo della ventenne armena era un ulteriore schiaffo a espressioni di autostima già compromesse, magari, da scarsi risultati personali, perfino pochi follower; era, per dirla con le parole che nella nostra cultura moralista ricorrono più spesso, “ingiusto”. Irreale, falso. La trasformazione dei codici modaioli, invece, è vera. “I casting, come tante altre attività del resto, si stanno modificando”, ci dice Alessandro Dell’Acqua dalla sala prove di quelle camicie vaporose e quelle gonne a matita per cui va famoso e che adesso, per festeggiare i dieci anni del suo marchio N21, ha scelto di far realizzare con le rimanenze di tessuto delle sue collezioni di maggior successo, abile scelta di sostenibilità: “Amo le modelle, ma non necessariamente le cosiddette bellezze tradizionali, tanto che da sempre utilizzo non professionisti per shooting, eventi o sfilate. In questo momento dedicheremo ancora più spazio alla ricerca di volti nuovi e caratteri diversi. Il mercato ne ha bisogno”. Nessuno avrebbe potuto riassumere meglio la questione. Il mondo della moda a cinque stelle va facendosi inclusivo per forza, un po’ perché sarebbe difficile vendere merce carissima in tutto il mondo se si facesse mostra di disprezzarne anche solo una parte (ovviamente c’è chi disprezza, e anche molto, ma se non altro ha imparato a fingere); un po’ perché la moda non è e non è mai stata una faccenda di vestiti. Un punto sul quale si era già espresso con chiarezza Paul Poiret, eleggendo a proprie muse e modelle la moglie Denise e la figlia Rosine, e che oggi ribadisce Ermanno Scervino, pure da sempre molto selettivo nelle proprie scelte: “Cerco volti e personalità che interpretino il mio pensiero e lo spirito delle mie collezioni”.


Qualcuno sta provando ad ampliare la base della riflessione estetica e sociale. Che cos’è la bellezza socialmente celebrata?


 

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Questo, inevitabilmente, prevede un adeguamento progressivo dell’estetica ai “codici della contemporaneità, come fu alla fine degli Anni Cinquanta con Audrey Hepburn che era possedeva caratteristiche fisiche lontane da quelle amate dalla cultura mainstream di quegli anni”. Oggi, a dispetto di quanto dice Russell Jacoby dell’Università della California sull’inganno antidemocratico della diversità (sul punto vi rimandiamo alla sua intervista al Foglio di mercoledì scorso), la contemporaneità tenta pur fra mille resistenze la strada della molteplicità di forme, volti, colori. Lo fa in modi lontanissimi da quelli patinati dell’era Toscani in Benetton, degli United Colors, quelli sì davvero molto ipocriti, o dalle selezioni di volti non professionali, ma di ricchi&famosi, che continuiamo a vedere in molte campagne, popolari e inclusive solo di facciata, ma in realtà molto simili agli anni in cui Adolphe de Meyer imponeva le sue fotografie flou di donne dell’alta società newyorchese a Vogue, le prime fotografie in un’editoria dove lo chic era ancora il disegno e lo sarebbe stato fino a tutti gli anni Trenta.

 

Vogue Italia ha appena stampato il numero di settembre, il più importante dell’anno, declinandolo in cento copertine di cui una buona settantina riservate a para-sconosciute di età, forme e fattezze variabili e irregolari, quasi nessuna modella di professione. Il regista delle grandi sfilate Sergio Salerni mi ha invece mormorato qualcosa sui cambiamenti in atto (“sì me le vedo davanti, sì spesso sono diverse da un tempo”) dalla sala di comando della sfilata di Dolce&Gabbana a Firenze, grande operazione collettiva guidata da Pitti che prevedeva il coinvolgimento dei quaranta artigiani più in vista della provincia in cambio del sostegno economico e logistico che, s’è capito il mese scorso in Sicilia, per il duo è diventato condizione dirimente per esserci, genere Woody Allen prima a Parigi, poi a Barcellona e infine a Roma “with love”. Il couturier Antonio Grimaldi, pronto a partire per la nuova edizione di Taomoda al Teatro Greco di Taormina, dove presenterà anche il suo cortometraggio girato con Asia Argento e sua figlia Anna Lou, ricorda gli anni Ottanta della sua collaborazione con Jean Paul Gaultier, massimo interprete della diversità modaiola e non nei paradigmatici tempi non sospetti, ossia quando Jacoby era ancora e solo uno storico di Scienze sociali con poche pubblicazioni di respiro internazionale: “Ricordi le pettinature diverse, per enfatizzare i tratti di ogni modello? Ricordi Rossy De Palma, e gli anziani in passerella, e le ragazze sovrappeso nelle magliette a righe, tutti felici perché Jean Paul tagliava gli abiti solo per loro, su di loro, e non ne faceva neanche una bandiera perché per lui il mondo è sempre stato quello?”.


La trasformazione dei codici modaioli: “I casting, come tante altre attività del resto, si stanno modificando”, dice Dell’Acqua


 

 

Già. Siamo stati inclusivi senza saperlo: i guai sono iniziati quando abbiamo voluto metterci sopra un’etichetta, catalogare e politicizzare. Ma il punto non è nemmeno la povertà di questa guerra attuale attorno allo sdoganamento dei codici estetici occidentali classici e alle sue implicazioni (vogliamo essere puntigliosi sulle indicazioni storiografiche perché se volessimo cercare esempi di canoni estetici fra la lirica classica giapponese, per esempio, troveremmo dame di corte che si tingono i denti di nero per non mostrare la ferinità delle arcate dentali candide, e per quanto riguarda la Cina non c’è bisogno di rammentare l’orrore che suscitavano i piedoni non fasciati delle occidentali e i loro nasi grossi fino a un secolo fa perché si tratta di una conoscenza molto comune). La bellezza è un fatto storico e culturale, da cui ovviamente dipende, e dunque in questi giorni mi è piaciuto leggere l’invettiva con cui Eraldo Ammannati ha difeso su Facebook la sua antenata Laura Battiferri, “honor di Urbino”, donna coltissima e poetessa famosa, molto celebrata per la sua bellezza significante e straordinariamente simile a quella di Armine, come appare evidente dal suo ritratto, opera del Bronzino e conservato agli Uffizi. Ci è piaciuta la veemenza del suo post contro i presunti intellettuali che per insultare quella ragazza tanto simile alla sua bisavola hanno evocato perfino la sequenza aurea di Fibonacci e abbiamo applaudito la sua tirata contro “la bellezza stereotipata di oggi”. Però, e ci duole molto segnalarlo a un signore la cui famiglia ci ha regalato palazzi storici magnifici e l’attualità molte iniziative culturali, lo “stereotipo” non esiste e non è mai esistito; volendo, anche la celebrata grecità avrebbe il naso troppo pronunciato, per lo standard attuale che da cinquant’anni si evolve sul nasetto a patatina di Brigitte Bardot e di Marilyn Monroe. La bellezza socialmente celebrata procede per aggiustamenti progressivi e simpatie del momento, altrimenti non ci si spiegherebbe perché Sarah Jessica Parker abbia avuto tante fortune e sui social abbia addirittura un sito che se lo chiede: “Perché SJP e altre donne brutte sono considerate belle” scritto proprio così, con la sintassi elementare che spesso esprime i sentimenti comuni.


Siamo stati inclusivi senza saperlo: i guai sono iniziati quando ci abbiamo messo sopra un’etichetta, per catalogare e politicizzare 


 

Il punto non è nemmeno la balla del politicamente corretto che tutti gli italiani, non sapendolo maneggiare nemmeno per smontarne i tratti ipocriti, scambiano semplicemente con quel concetto antico e ampiamente disatteso che è la buona educazione. Il punto è che stiamo tornando rapidamente agli anni in cui le modelle di professione esistevano solo nella pittura ed erano delle disgraziate equiparate alle puttane, mentre la moda era un affare dove ognuno faceva come gli andava, vestendo chi gli pareva (pensate a Gustav Klimt e alla cognata Emilie Floge) e senza l’incubo del fatturato da far crescere di continuo, occupando boutique, alberghi, aeroporti e oggi perfino spiagge, spacciando costumini e borse in toile de Jouy come fossero bibite e cornetti gelato. Qualcuno sta provando a infilare un po’ di intelligenza in queste esigenze da ultima riga del bilancio, e non poteva farlo altrimenti che ampliando la base della riflessione estetica e sociale. In questi cinque anni, Gucci ha portato in passerella e davanti all’obiettivo dei fotografi artisti, cantanti, gente comune, perfino i propri designer; lo stesso hanno fatto, al capo opposto del range modaiolo, Ovs e molti altri. Il mondo è cambiato, le supermodel sono un fenomeno scomparso poco dopo la tragica morte di Gianni Versace, anche se ci fa piacere ricordarle e rivederle ogni tanto, e mi dispiace molto se, pur con tutti i vostri difetti che siete prontissimi a esibire, non siete ancora stati scelti da Gucci per le sue sfilate. Potrebbe accadere, o forse no. Fatevene una ragione.

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