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Fine della conversazione

Simonetta Sciandivasci

Faccine, punteggiatura, premesse e scuse. Il dialogo è diventato così sfiancante che abbiamo smesso di provarci

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Non è vero che questo nostro mondo è l’inferno. Non più, almeno. All’inferno si conversa tanto e bene, come suffragano la Divina Commedia e Luciano De Crescenzo che, esatto e micidiale, una volta ha detto: “Al niente preferisco l’inferno, se non altro per la conversazione”. E c’è effettivamente stato un tempo in cui chiacchieravamo tanto, di notte, di giorno, di faccia, di spalle, in salute, in malattia, in pace, in guerra, non sempre capendoci e per questo accapigliandoci, come da volere di dio. Ricorderete che quando noi, furbi ma non intelligenti, costruimmo la città e poi la torre di Babele e ci dicemmo di farla alta così che toccasse il cielo e decidemmo di darle un solo nome “per non disperderci su tutta la terra”, Dio scese dalle nostre parti e ci assegnò le lingue e così noi ci disperdemmo, e prendemmo ad abitare tutti i luoghi abitabili, e a chiamare le cose con nomi diversi, e a capirci sempre di meno, differenziandoci sempre di più, per ogni lingua un paese, per ogni paese una storia, per ogni storia un conflitto. Era bello, faticoso, sanguigno, a volte sanguinario. Il richiamo di Babele ci abita ancora, non è estinto, e a unificare il linguaggio ogni tanto qualcuno ci prova, l’altro dì i mongoli (quelli della Mongolia interna, una regione autonoma che è parte del territorio cinese) hanno cominciato a organizzare la loro corposa protesta contro Pechino, che vuole imporre il mandarino nelle scuole di modo da (così almeno racconta il governo cinese) armonizzare i curriculum scolastici e agevolare l’integrazione delle minoranze. Ai mongoli, però, d’unificarsi e armonizzarsi non importa, anzi, sanno bene che significherebbe cancellare o rimodellare la loro identità, la sola cosa di cui sono gelosi, e che sono disposti a pagare standosene nell’inferno di tutti, dove ciascun paese è l’inferno dell’altro, e il prossimo è l’inferno di ognuno, preferendo questo all’indistinta Babele, prodromo della globalizzazione dalla quale il Regnante di lassù ci ha salvati una volta e poi basta. E così i mongoli scendono in piazza e non mandano i bambini a scuola per salvare le loro parole, la loro lingua: loro stessi. E noi?

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Non è vero che questo nostro mondo è l’inferno. Non più, almeno. All’inferno si conversa tanto e bene, come suffragano la Divina Commedia e Luciano De Crescenzo che, esatto e micidiale, una volta ha detto: “Al niente preferisco l’inferno, se non altro per la conversazione”. E c’è effettivamente stato un tempo in cui chiacchieravamo tanto, di notte, di giorno, di faccia, di spalle, in salute, in malattia, in pace, in guerra, non sempre capendoci e per questo accapigliandoci, come da volere di dio. Ricorderete che quando noi, furbi ma non intelligenti, costruimmo la città e poi la torre di Babele e ci dicemmo di farla alta così che toccasse il cielo e decidemmo di darle un solo nome “per non disperderci su tutta la terra”, Dio scese dalle nostre parti e ci assegnò le lingue e così noi ci disperdemmo, e prendemmo ad abitare tutti i luoghi abitabili, e a chiamare le cose con nomi diversi, e a capirci sempre di meno, differenziandoci sempre di più, per ogni lingua un paese, per ogni paese una storia, per ogni storia un conflitto. Era bello, faticoso, sanguigno, a volte sanguinario. Il richiamo di Babele ci abita ancora, non è estinto, e a unificare il linguaggio ogni tanto qualcuno ci prova, l’altro dì i mongoli (quelli della Mongolia interna, una regione autonoma che è parte del territorio cinese) hanno cominciato a organizzare la loro corposa protesta contro Pechino, che vuole imporre il mandarino nelle scuole di modo da (così almeno racconta il governo cinese) armonizzare i curriculum scolastici e agevolare l’integrazione delle minoranze. Ai mongoli, però, d’unificarsi e armonizzarsi non importa, anzi, sanno bene che significherebbe cancellare o rimodellare la loro identità, la sola cosa di cui sono gelosi, e che sono disposti a pagare standosene nell’inferno di tutti, dove ciascun paese è l’inferno dell’altro, e il prossimo è l’inferno di ognuno, preferendo questo all’indistinta Babele, prodromo della globalizzazione dalla quale il Regnante di lassù ci ha salvati una volta e poi basta. E così i mongoli scendono in piazza e non mandano i bambini a scuola per salvare le loro parole, la loro lingua: loro stessi. E noi?

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Noi la torre di Babele la portiamo in tasca, nel telefono, insieme ai suoi geroglifici: adesivi, emoticon, gif


 

Noi la torre di Babele la portiamo in tasca, nel telefono, insieme ai suoi geroglifici (adesivi, emoticon, gif), che sono nati per rafforzare e chiarire le conversazioni scritte, mute e quindi monche, distanti, fraintendibili, e che però da propedeutici al linguaggio, si sono fatti linguaggio. Le faccette che usiamo nei nostri scambi hanno espressioni persino più variegate delle nostre, sono inclusive, rappresentano non soltanto stati d’animo, ma pure modi d’essere, di agire, reagire, di stare al mondo, e naturalmente ci ritraggono, ci incarnano. E però tutto questo parlare figurativo, tutte queste stampelle dell’espressione, ci hanno resi vulnerabili, incerti, insicuri, paranoici: non sopportiamo la punteggiatura, un punto alla fine di una frase ci manda in confusione, ci fa pensare che il nostro interlocutore sia arrabbiato, e anche l’emoticon s’è fatta fraintendibile. Il bacetto non è più un bacetto: è un commiato, un invito, ormai piuttosto cafone, a concludere una conversazione. Lo sappiano i poco informati, boomer, provinciali, Cyrano dai campi e dalle officine: quello che per voi è soltanto un bacino, una coccola, un di più, per i destinatari è una cesoia. Assai controversi anche: la sedia a rotelle, la manina che saluta (specie se bianca), l’orecchio (specie se con protesi, e in effetti qualsiasi altra protesi), il raviolo (è appropriazione culturale), la geisha (non ne parliamo nemmeno), il giornale (per chi lo riconosce, nel senso che capisce cos’è, chiaro simbolo intimidatorio: praticamente, inviare l’emoticon di un giornale equivale a dire “stai per morire”). Anziché raffinare la nostra comunicazione, o almeno raffinare noi, aiutandoci a dare al linguaggio quell’esattezza che non gli è propria, perché è vero che le parole sono importanti ma è altrettanto vero che sono convenzioni, e quindi approssimazioni, questo comunicare per segni non ha fatto che centuplicare le possibilità di fraintenderci, centuplicare la fatica, centuplicare la noia, centuplicare le aggressioni.

 

Noi non ci capiamo, continuiamo a disperderci come se ciascuno parlasse una sua propria lingua, incomprensibile. Comunicare è diventato così faticoso che abbiamo smesso di farlo, e così questo nostro mondo lo abbiamo trasformato in quel niente al quale Luciano De Crescenzo avrebbe preferito l’inferno.


Siamo stanchi, di discutere e guerreggiare non ci va, di farci capire non ci interessa, vogliamo esser buoni, costruttivi, igienici, rispettosi


 

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Direte ma come, ma se non facciamo che parlare, urlare, strepitare, whatsappare, messaggiare, comunicare, postare? E’ vero, ma non è mai o quasi mai un parlarsi: è sempre, o quasi sempre, un parlare, un dire tra sé e sé davanti a un pubblico più o meno vasto e silenziabile, selezionabile, in fondo eludibile (la nota audio è l’esempio migliore: un comizio d’amore o d’altre pene in posta privata, che l’altro può ascoltare quando vuole, se vuole, e al quale può rispondere o no, dopotutto a chi importa, non c’è punto di domanda, non c’è domanda, non c’è richiesta, non c’è discorso, c’è soltanto manifesto).

 

Quando cominciammo a chattare (che parola antica, vero?), i più romantici di noi pensarono, e non a torto, che finalmente nessuna parola sarebbe stata sprecata, che i timidi e i poetici e i romantici avrebbero finalmente avuto la loro grande occasione, che il parlarsi avrebbe vinto sul guardarsi, che la proprietà di linguaggio avrebbe vinto sul bel culo, che ci saremmo emancipati dal corpo, dai ruoli, dalle bollette (ricordate quando il tempo era denaro e, se trascorso al telefono, aveva un costo?). Non è successo. Le dinamiche delle chiacchiere in presenza si sono replicate, più atroci e feroci, nelle chiacchiere in assenza. Sfinendoci. E chi lo sa se del prossimo non ne possiamo più perché non riusciamo a parlarci, o viceversa. Il dato certo è che non ci sopportiamo più, e allora perché mai dovremmo discutere, dialogare, spiegare? Non ci desideriamo più, perché mai dovremmo amarci? Sciascia ricordava che in Sicilia ogni storia d’amore comincia con un uomo e una donna che si parlano. Il dialogo è l’appuntamento degli amanti. La canzone d’amore che qualsiasi italiano, persino ventenne, ha ascoltato almeno una volta nella vita, fa così: “Parlami d’amore, Mariù, so che una bella e maliarda sirena sei tu, so che si perde chi guarda, quegli occhi tuoi blu, ma che mi importa se il mondo si burla di me, meglio nel gorgo profondo, ma sempre con te, sì con te”. Se hai un’amata che ti parla, puoi sopportare anche di finire nel gorgo, di sprofondare, di cadere, di morire. “Parlami per sempre” dei Sick Tamburo è una delle più grandi canzoni d’amore del rock alternativo italiano degli anni Zero. E che bisogno c’è di spiegare perché, se è tutto in quell’invito, in quell’imperativo supplicante e augurante, che suggella un fatto e una speranza: ci ameremo finché ci parleremo. Facevano bene i siciliani, aveva ragione Sciascia.


Comunicare è diventato così faticoso che abbiamo smesso. Eppure non facciamo che parlare, urlare, strepitare, whatsappare


 

Noialtri non ci amiamo, non ci desideriamo, non scopiamo e infatti non parliamo. E come potremmo? Con tutte le fatiche che ci tocca superare per vivere questa vita di pensiero, stremati dalle colpe impunite di secoli di colonialismo che adesso dobbiamo espiare, fatti a fettine dal capitalismo, e per giunta mascherinati, e quindi affaticati pure dal respiro, come fossimo ultraottantenni sulla cyclette, volete anche che ci mettiamo a fare conversazione? Ma siete matti. Ma con quello che costa, con quello che comporta, ma non scherziamo. Ricordate quando c’erano i dibattiti in tv, e i politici se le davano di santa ragione, e urlavano, e s’insultavano, e nessuno capiva niente, e in fondo a noi un po’ piaceva, ci dava un senso di partecipazione di molto somigliante a quello che ci dà il guardare il calcio: grassi o comunque non atletici, ce ne stiamo sul divano, e guardiamo quelli là che corrono, e parliamo di come corrono usando il noi, come fossimo i proprietari di quelle gambe. Ma non si può correre per sempre, neanche per interposta persona. E così ci stancammo anche di quei duelli, di quelle risse, e infatti ce le tolsero di torno, e ce ne diedero altre, di peggiori: le risse tra giornalisti e le risse tra attori, modelli, ex conduttori, ex vip, meteore, persone comuni, noi. La televisione diventò presto una fenomenologia del monologo travestito e l’informazione s’ibridò con il reality. Mario Giordano entra nelle nostre case urlando su un monopattino che vogliono uccidere la famiglia, la nostra bella famiglia, o che lui Halloween non lo vuole festeggiare, e no che non lo vuole festeggiare, mentre prende a martellate una decina di zucche finte, specificando a operazione finita che “erano finte, perché il cibo non si spreca”. Becero ma ecocompatibile, ecoaccorto, come tutti dovremmo, vorremmo essere, e talvolta vogliamo e siamo. Più delle urla, e dell’odio che abbiamo, e dell’ineducazione, e dell’ignoranza, e della disabitudine al confronto, e della bassa scolarizzazione, e di Twitter, e di tutti i nuovi mali del mondo, a sfibrare la conversazione ha contribuito l’accortezza. Non c’è dialogo che non cominci con una premessa: indossiamo una guaina protettiva, chiariamo chi siamo, possibilmente raccontiamo cosa abbiamo subìto, diciamoci vittime di qualcosa, così che gli eventuali oppositori ci pensino bene prima di contestarci. Diciamo che siamo emozionati. Ci scusiamo in anticipo per eventuali errori, omissioni, indelicatezze, turbamenti, invasioni. Arriviamo al punto molto tardi, quando l’attenzione dei nostri interlocutori, se proprio ne abbiamo, se davvero ne abbiamo, sta conducendo una gara d’appalto tra Twitter, TikTok e Instagram. A quel punto, tardissimo, diciamo cosa avevamo in mente di dire, e chissà se lo abbiamo detto con il tono giusto, la giusta intonazione, l’equa distribuzione di riferimenti culturali. Qualcuno ci risponderà, il 90 per cento delle volte lo farà con un commento sulla forma, e non sulla sostanza, su cosa abbiamo inteso dire, e non su cosa abbiamo detto, su cosa avremmo potuto dire, e invece ci siamo ben guardati dal dire. Noi diremo: non sono male i MeControTe, e qualcuno risponderà che siamo dei moralisti, non si capisce perché ci stupiamo, dopotutto i loro video sono geniali e non troppo diversi da quelli di Tom&Jerry, e poi comunque fatturano, e tanto, più di quanto fatturiamo noi in dieci anni, e qualcosa vorrà dire, no? Se oseremo rispondere che volevamo soltanto dire che non sono male, e che comunque non ci interessa quanto guadagnano e tu che diavolo ne sai di quanto fatturerò io dal 2021 al 2031, ci verrà risposto: “Scusami, non volevo offenderti”.

 

“Scusami, non volevo offenderti” è la bandiera bianca definitiva, non si capisce come mai non sia ancora stato elaborato un meccanismo che ne calcoli la frequenza d’uso, di certo batte “gentilmente” e “in qualche modo”, è la ritirata perfetta, l’addio alle armi, la protesta non violenta. Leggete una qualsiasi conversazione tra un uomo e una donna (o chi ne fa le veci) su un social network e constatatelo da soli: lo “scusami non volevo offenderti” germoglia laddove prima era tutto un “ma che cazzo dici, scusa?”. L’irritabilità e l’ipersensibilità prima ci hanno trasformati in beceri battutisti, poi in ipocriti correttisti, e adesso in smidollati col senso di colpa in gola, sulla punta della lingua. Siamo terrorizzati e stanchi, di discutere e guerreggiare non ci va, di farci capire non ci interessa, vogliamo esser buoni, costruttivi, igienici, rispettosi, sani. Non appena qualcuno non annuisce, e ci dice che non è d’accordo, o (più plausibile) ci invia un messaggio senza emoticon e con molti punti e senza giri di parole e senza premesse e senza esperienze personali e insomma un messaggio che è un messaggio, noi gli diciamo: non capisco perché tu mi stia aggredendo. Chiami un collega per chiedergli se si è poi effettivamente occupato di quella cosa per te cruciale, visto che lo aveva promesso mesi fa, e naturalmente hai un tono fermo ma non crudele, e quello ti risponde che non capisce perché lo stai insultando, e come ti permetti di insinuare che lui non ha fatto niente per te, e che cosa ne sai di cosa gli è successo. Ti scusi, gli dici che non volevi, ma ieri ti è morto un cactus, ti congedi, vai a sdraiarti sul divano, rimandi l’appuntamento che avevi con quella con la quale hai già litigato la prima sera perché ti aveva scritto “Vediamoci alle nove” e tu, scherzando, le avevi risposto “Stai calma”, e lei ti aveva risposto “In che senso scusa?”, e tu le avevi scritto “Mi sembravi incazzata, volevo sdrammatizzare”, e lei ti aveva scritto “Non dirmi come mi devo comportare, non dirmi come mi devo sentire, non dirmi di stare calma”, e figuriamoci se sei pronto a un’altra guerra dialettica per niente. Prendete un quadernetto, appuntatevi quanto tempo dedicate a discutere di come dite le cose e quanto, invece, a discutere di quello che avete detto: capirete perché ci amministrano dei nulladicenti.


Più delle urla, e dell’odio che abbiamo, e dell’ineducazione, a sfibrare la conversazione ha contribuito l’accortezza 


 

Ai nulladicenti ci siamo arresi. O forse no. Greta T. ci piace perché parla poco. Guarda, assai incazzata. Come lei, curiamo il pianeta, che non parla, sempre come lei. Conviviamo coi mici, che non parlano. Tutte le cose che per noi hanno senso non richiedono conversazione, ma adesione. Heidegger riprese una poesia di Stefan George, nel suo “In cammino verso il linguaggio”, che faceva così: “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Nessuna cosa tranne l’umanità che siamo diventati.

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