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La nascita dei Ferragnez. Stories da un matrimonio, due anni dopo

Michele Masneri

Chiara Ferragni e Fedez sono più di una degnissima monarchia italiana. Hanno gestito il Covid benissimo, hanno finanziato gli ospedali, e oggi intervengono puntualmente nel dibattito pubblico dosando temi e toni con sensibilità quirinalizia

Due anni fa, quando con Andrea Minuz andammo a fare “il pezzo” sul matrimonio di Chiara Ferragni e Fedez a Noto, le reazioni di colleghi e congiunti furono di due tipi: fichissimo! (sotto i 40 anni); e: perché lo fate? (dai 40 agli 80, la maggioranza). Nessuno in ogni caso si premurò di andarci, ci si eccitò-sdegnò tutti da casa, e pensare che bastava prendere un Ryanair, erano i beati tempi pre-Covid. Noi si andò soprattutto per vedere il circo, che fu oltre ogni aspettativa: ragazzini-mostri sobillati da madri-mostre che cercavano di carpire una visuale delle nozze come si vuole blindatissime inerpicandosi sul pericolosissimo campanile della chiesa; ignote star youtuber minorenni; assalitori del papà dentista Ferragni, freaks accorsi da ogni dove, nella splendida cornice di Noto, luogo interessantissimo tribal-postmoderno dove si può ormai trovare solo pasta senza glutine ma non prendono le carte di credito.

 

Il matrimonio fu in genere molto vituperato, in quanto considerato assai neoliberista (l’Alitalia non ancora ri-statalizzata fece un accordo promozionale per trasportare “i Ferragnez” e il loro seguito da Milano, in quello che fu probabilmente l’unico business profittevole della compagnia di bandiera nel decennio): ci furono giostre e cambi d’abito, e discorsi e granite, tutto ovviamente sponsorizzato e enfatico, con ricadute di pil bestiali. I due, come sempre lucidissimi e consapevoli, tra la vasta mercanzia regalata agli invitati (dotati di uno spillone o badge che permetteva di entrare nel G8 ferragnesco, spillone che i piccoli fans famelici tentavano di strappare agli ospiti), produssero anche dei tazzoni autocelebrativi, in uniforme da reali inglesi: si stava infatti costruendo la loro nuova identità da post-influencer e da royal couple italiana. In un paese sfornito di monarchie, e pure di leadership repubblicane, presentabili, la tazza fu un manifesto e un’intuizione: due anni dopo, infatti, mentre le ultime dinastie continentali traballano, mentre il reale più ganzo d’Europa è in fuga come un Mach di Palmstein, mentre l’altra royal couple inglese si è trasformata in un Desperate Houswives californiano, i Ferragnez sono ancora lì. Hanno gestito il Covid benissimo, hanno finanziato gli ospedali, e oggi intervengono puntualmente nel dibattito pubblico dosando temi e toni con sensibilità quirinalizia con piccoli messaggi alla nazione in cui diffondono il loro soft power.

 

L’ultima volta, nei giorni scorsi, lei ha avvertito le folle di followers che se per caso avvistassero due giovanotti avvinghiati non dovranno temere per le loro creature, che non diventeranno automaticamente gay: il proclama si riferiva al nuovo film Disney, che già scuote le coscienze delle famigliole, ma si adattava benissimo alle spiagge italiane, dove poco prima un paio di fidanzati monosesso sul bagnasciuga sono stati insultati da famigliole che temevano per i piccini (invocando Mussolini). L’alto monito dei Ferragnez pare dunque fondamentale nell’Italia scombinata di questi anni Venti, che in attesa dell’autunno caldo si è fatta un mese pieno di vacanza, importando anche focolai impegnativi; che non riesce a trovare aule ariose in cui far lezione (pur nel paese con più immobili pubblici inutilizzati probabilmente al mondo); in cui il ministro degli Esteri si auto-blackface. Insomma, i Ferragnez non sono solo una degnissima monarchia italiana: sembrano anzi una dinastia del Nordeuropa, una stirpe molto moderna a cui è toccato in sorte un regno un po’ sudamericano, tipo Massimiliano d’Asburgo già illuminato viceré del Lombardo-Veneto, che ebbe la pessima idea di andare a fare l’imperatore del Messico (a lui andò poi malissimo, i messicani si ribellarono, ma erano altri tempi, i followers sono sudditi pacifici, vabbè).

 


 

Qui trovate il reportage da Noto di Michele Masneri e Andrea Minuz

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