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Da Leopardi ai giorni nostri

Il carattere nazionale? Cercatelo anche negli "ismi"

Michele Magno

Il nicodemismo, o un esperimento di “psicologia prudenziale”. Gli equivoci del trasformismo. Il sentirsi sempre alla vigilia di eterne metamorfosi. E poi il familismo, il fregolismo, il gattopardismo. Un catalogo

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Coniata dai moralisti francesi del Seicento, la locuzione “carattere nazionale” fa ingresso nella nostra letteratura con il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani di Giacomo Leopardi (1824). Ma prima che il grande poeta prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la descrizione del carattere dell’italiano aveva occupato l’ingegno di molti artisti europei e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, in particolare nel secolo dei Lumi, giungevano nella nostra penisola col proposito di completare la propria formazione classica grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Tuttavia, partiti con programmi culturali ambiziosi, spesso tornavano in patria con taccuini pieni di massime antropologiche non proprio benevole con il Bel Paese, come quella di Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge” (1764).

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Coniata dai moralisti francesi del Seicento, la locuzione “carattere nazionale” fa ingresso nella nostra letteratura con il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani di Giacomo Leopardi (1824). Ma prima che il grande poeta prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la descrizione del carattere dell’italiano aveva occupato l’ingegno di molti artisti europei e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, in particolare nel secolo dei Lumi, giungevano nella nostra penisola col proposito di completare la propria formazione classica grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Tuttavia, partiti con programmi culturali ambiziosi, spesso tornavano in patria con taccuini pieni di massime antropologiche non proprio benevole con il Bel Paese, come quella di Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge” (1764).

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Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo


 

Dalle polemiche tardo settecentesche sulla furbizia dei nostri antenati, precedute da quelle sull’etica della dissimulazione dell’uomo barocco, ai dibattiti ottocenteschi sull’individualismo e sull’assenza di senso civico degli italiani, fino al tema del trasformismo nelle sue varie declinazioni novecentesche: ne risulta una storia di discorsi che conoscono una impressionante produzione e circolazione di stereotipi sull’identità nazionale, alcuni dei quali vengono ricordati più avanti. Giulio Bollati, nel suo saggio sul trasformismo di fine Ottocento (in L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, 1983), ha scritto che nelle intenzioni degli esponenti della sinistra storica, a partire dal suo inventore Agostino Depretis, il termine era “sinonimo di evoluzione” utilizzato per connotare in senso scientifico-progressista la richiesta di trasformare i partiti eliminando intanto la distinzione tra Destra e Sinistra, già indebolita e non di rado dimenticata nelle combinazioni parlamentari postunitarie. Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo. Ma si era rapidamente trasformato nell’opposto: immobilismo, consociazione di diversi solo apparenti, in realtà tenuti uniti dalla chiusura verso la società. Da qui indifferenza agli schieramenti, interessi particolari di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo. “Per questa via – sostiene Bollati – il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale”. Era ieri, ma sembra oggi.

 

Nicodemismo

 

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Il 20 luglio 1542 fu istituita la nuova Inquisizione, con il compito principale di contrastare la diffusione dell’eresia protestante. Il Sant’Uffizio rivestì un ruolo fondamentale nella riorganizzazione della Chiesa di Roma, rispondendo alle esigenze di controllo, punizione, educazione del corpo sociale e di quello ecclesiastico. Erede dell’esperienza spagnola di verifica della reale conversione di islamici ed ebrei, l’Inquisizione si sforzava di far cadere la maschera con cui cercavano di nascondersi i nicodemiti italiani (il termine nicodemita, coniato da Calvino, deriva da Nicodemo, il fariseo che, secondo il Vangelo di Giovanni, di notte andava di nascosto ad ascoltare Gesù, mentre di giorno simulava una piena adesione alla sua setta). Di fronte alla durezza delle pratiche inquisitorie, i nicodemiti reagirono elaborando un singolare statuto etico, in cui simulazione e dissimulazione da potenziali vizi diventano autentiche virtù, imprescindibili per ogni uomo di corte e profondamente radicate nella virtù cardinale della prudenza.

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“Abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare” (Giulio Bollati nell’83)


 

 

Il caso più celebre e emblematico è quello di Torquato Accetto, un poeta e prosatore nato a Trani nel 1590 ma napoletano di adozione. Il suo nome è passato ai posteri, più che per le sue rime marineggianti, per un agile trattatello intitolato Della dissimulazione onesta, piccola gemma del “moralismo politico” e della psicologia barocca. Pubblicato nel 1641, questo pamphlet filosofico-politico fu riscoperto da quell’infaticabile e appassionato esploratore di vecchie carte che risponde al nome di Benedetto Croce. Come ha sottolineato lo storico Francesco Perfetti, il grande cantore di memorie napoletane lo ripropose in piena epoca fascista (1928), definendolo – sottilmente – un “saggio di psicologia prudenziale” di chi “sa di doversi muovere sulla terra, ma non dimentica il cielo”.


Il singolare statuto etico dei nicodemiti, in cui simulazione e dissimulazione da potenziali vizi diventano autentiche virtù


 

In effetti, con dotti e avvolgenti ragionamenti, Torquato Accetto suggeriva un modello di comportamento, che ben si addiceva al codice morale dell’uomo barocco, secondo il quale sarebbe stato non soltanto lecito, ma addirittura necessario, usando l’arte della pazienza, il dissimulare i propri pensieri e moti dell’animo per salvaguardare vita e libertà interiori da violenze e oppressioni provenienti dall’esterno (allora il Regno di Napoli era sotto il dominio spagnolo). La dissimulazione onesta, insomma, non sarebbe stata affatto ipocrisia, ma virtù del saper vivere, la quale –rimanendo “in terra dove ha tutti i suoi negozi” – servirebbe a lenire come “un velo di tenebre” gli affanni umani, a sopraffare la caducità della vita e a riaffermare quanto “sia bella la verità”. Questo modello di comportamento, caricando “la verità” di una dimensione esoterica, ha però finito per ispirare la condotta, in tanti gravi momenti della nostra storia nazionale, di persone amanti del quieto vivere e di non pochi intellettuali pavidi e soprattutto preoccupati di salvaguardare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione.

 

Trasformismo

 

Ha le sue radici nel “connubio” di cui fu artefice Cavour nel 1852, quando – per mettere ai margini nel Parlamento subalpino sia la destra reazionaria e clericale, sia la sinistra democratica e repubblicana – invitò le forze politiche a convergere sul centro di cui era il leader. Storicamente, tuttavia, il vocabolo trasformismo entra nel linguaggio politico italiano negli ultimi decenni dell’Ottocento. In un discorso tenuto a Stradella alla vigilia delle prime elezioni a suffragio allargato (8 ottobre 1882), il capo della sinistra parlamentare Agostino Depretis giustificava così gli accordi stipulati con la destra moderata di Marco Minghetti: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”. Ciononostante, il termine trasformismo divenne presto sinonimo di mancanza di principi, di amoralità, di corruttela.


La “dissimulazione onesta” di Torquato Accetto, che non sarebbe stata affatto ipocrisia, ma virtù del saper vivere


 

Già nel gennaio 1883, in un articolo apparso sul periodico bolognese “Don Chisciotte”, Giosuè Carducci lo condannava senza appello: “Brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco de’ ladri, non essere più uomini e non essere più ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi nei quali le due immagini si perdono, e che invece di parlare ragionando sputano mal digerendo”. In seguito la “brutta parola” fu utilizzata per designare addirittura un topos del carattere nazionale, vale a dite l’inclinazione – figlia dell’atavica arte di arrangiarsi italica – a non prendere troppo sul serio le fedi e le ideologie.

 

Familismo

 

Sempre nel 1883 viene pubblicato un libro di Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, che, pur senza sottrarre al mito e alla fiaba i loro diritti, consente di scoprire come il suo protagonista sia una piccola enciclopedia dei caratteri e dei vizi nazionali. Noi italiani, si dice, in un modo o nell’altro ci salviamo sempre. E, come ha scritto Antonio Faeti, Pinocchio “transita anche lui da una Caporetto domestica a un’Adua burattinesca a un Otto Settembre esistenziale” (L’identità degli italiani, Laterza, 1998). Si brucia i piedi, ma gli vengono rifatti, tradisce le affettuose aspettative del suo creatore ma cade in un imbroglio perché spera di farlo ricco. Noi italiani, si dice, siamo molto attaccati alla famiglia. E infatti si chiamano “famiglie” le centrali mafiose e i clan camorristici. Pinocchio, allora, ci propone una riflessione inquietante sulla famiglia: un babbo falegname e derelitto come il San Giuseppe del presepio, una madre madrina sorella sorellina che si atteggia a Madonna, uno zio putativo come mastro Ciliegia, un parente in incognito come Mangiafoco. Sembra uno di quei terribili gruppi familistici, piangenti e tremebondi, che affollano i salotti di certe trasmissioni televisive.


“Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?” (Depretis nel 1882)


 

Pinocchio, poi, è un’esplicita parodia del pessimo rapporto che i suoi concittadini in carne e ossa hanno con i libri. Si libera, appena può, di un sillabario che il genitore aveva ottenuto cedendo una giacca, è testimone di un programmatico lancio di libri ai pesci, si rivela misteriosamente alfabeta – lui che a scuola non c’era mai stato – solo per leggere una lapide funeraria. Ben conficcato nell’etnia italica, Pinocchio fugge, erra, cammina, si ritrova come i nostri emigranti: può vivere, come loro, perfino nel ventre della balena. Trasformista e bugiardo all’apparenza, Pinocchio è sincero nel fondo. E’, in sostanza, l’esempio di un modello laico e devozionale. E’ la divinità lignea di un paese che è sempre lì lì per cambiare, di un luogo del mondo sempre alla vigilia di eterne metamorfosi, sempre con il rischio di risvegliarsi diversi, ma con l’aggiunta di un paio d’orecchie d’asino. Infine, Pinocchio ne ha fatti tanti di sacrifici, per cambiare. E’ voluto diventare un ragazzino per bene, si è mortificato come uno schiavo o come un salariato agricolo che subisce le angherie del caporalato (sempre italianissimo, comunque). Forse assomiglia agli italiani del futuro, non solo a quelli del passato.

 

Fregolismo

 

Il 9 marzo 1910 Pierre de Quirielle, firma autorevole del prestigioso “Journal de Débats”, scriveva: “L’Italia ha oggi quattro grandi glorie, di cui può andare giustamente orgogliosa: il poeta Gabriele D’Annunzio, l’inventore Guglielmo Marconi, il tenore Enrico Caruso e il trasformista Leopoldo Fregoli. E di questi quattro creatori, Fregoli, che incarna istantaneamente le personalità più diverse, è il più originale. La sua meravigliosa mobilità, al servizio di un’intelligenza vivissima, ci mostra una delle tante facce del genio di questo popolo latino”. Nelle parole del critico teatrale francese si avvertiva l’eco dell’entusiasmo suscitato dal debutto di Fregoli (1867-1936) al teatro Olympia di Parigi. La sua fama allora era alle stelle, e in larga misura a lei si deve la fortuna e lo stesso slittamento semantico del termine trasformismo, ossia l’abitudine a cambiare casacca di partito con fulminea disinvoltura.


Zelig di Woody Allen e la sua mancanza di identità, l’altra faccia di un istinto gregario delle masse che porta alla rovina i popoli


 

Saranno prima i futuristi e poi i fascisti a sfruttare la sua immagine come simbolo del cambiamento realizzato dal mussolinismo. Già il Manifesto del futurismo (1909) aveva celebrato i fasti della modernità, distruggendo il teatro borghese ed esaltando la “voluttà di essere fischiati”. Quattro anni dopo, Fregoli viene citato nel Manifesto del teatro di Varietà come modello di straordinario vitalismo scenico. “Abbiamo un profondo schifo – recita l’incipit – del teatro contemporaneo (versi, prosa e musica) perché ondeggia stupidamente tra la ricostruzione storica (zibaldone o plagio) e la riproduzione fotografica della nostra vita quotidiana; teatro minuzioso, lento, analitico e diluito, degno tutt’al più dell’età della lampada a petrolio”. Il Manifesto individua invece nel music-hall la forma di spettacolo più rispondente al dinamismo dell’èra della tecnica, perché frammentario e imprevedibile, eccentrico e anti intellettuale. Si trattava insomma di quel teatro d’avanguardia, capace di mescolare sapientemente il comico e il grottesco, che vedeva nel “trasformiste italien” uno dei suoi esponenti più estrosi.

 

Nel 1925 uno dei teorici del regime, Carlo Alberto Alemagna (alias generale Filareti), aveva dato alle stampe un saggio, In margine del Fascismo, che in realtà era un lugubre necrologio della democrazia. In un capitolo, dopo aver sottolineato la facilità con cui la folla cambia opinione a ogni alito di vento, l’autore chiama questa tendenza “fregolismo” (o “girandolismo”), attribuendole la stessa prorompente energia positiva che sprigionava dal “più grande artista dei nostri tempi”.

 

Gattopardismo

 

Toccò a un conservatore come Giuseppe Tomasi di Lampedusa rimettere il dito sulla piaga nel 1958, quando fu pubblicato Il Gattopardo. Nel romanzo viene messa in bocca a Tancredi, il nipote del principe di Salina, la massima degna di un penetrante e misconosciuto trattato di politologia: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. La proposizione, che si rivela attentissima alla realtà effettuale del 1860, nella Sicilia conquistata dai Mille, è sembrata così efficace – insieme riassuntiva e anticipatrice di tanti discussi momenti della storia nazionale – da stabilire la fortuna della parola gattopardo e del derivato gattopardismo, ossia dell’arte della simulazione e della dissimulazione. Si può aggiungere che, se il principe di Machiavelli, piegandosi alle risorse di un pessimismo radicale, si proponeva fini nobili e di interesse collettivo, il gattopardo finge di accettare innovazioni più apparenti che reali per non compromettere i privilegi acquisiti, per perseguire cioè il proprio tornaconto personale.


Pinocchio è la divinità lignea di un paese che è sempre lì lì per cambiare, con il rischio di risvegliarsi diversi, ma con un paio d’orecchie d’asino


 

Tornando all’opera di Tomasi di Lampedusa, non si tratta soltanto dell’alleanza che si stringe in Sicilia tra aristocrazia e borghesia per passare indenni attraverso la “rivoluzione” repubblicana e garibaldina; ma – come ha osservato Lorenzo Mondo – si tratta di una più generale tendenza alla mediazione e all’accomodamento, che secondo il principe di Salina è un carattere costitutivo degli italiani, della loro fisionomia morale. Un esempio di gattopardismo in presa diretta lo troviamo nel racconto del plebiscito per l’annessione nel feudo di Donnafugata: le elezioni truccate, uccidendo la buonafede e corrompendo i cittadini chiamati per la prima volta a esprimersi in libertà, “presiedono funestamente alla nascita della nuova Italia e al lungo avvilimento del Mezzogiorno”. Dai segnali che ci rimandano alla crisi odierna della politica e delle istituzioni democratiche, in giorni in cui la buona novella del cambiamento viene spesso servita sul piatto freddo della menzogna e della demagogia, la “bestia leggera e presta molto” – come la lonza dantesca che scatta felinamente alle origini della nostra cultura (ma là era simbolo della lussuria) – è forse destinata ad accompagnarci ancora a lungo.

 

Camaleontismo

 

Passiamo dalla letteratura al cinema, e facciamo un salto sull’altra sponda dell’Atlantico. Chi ne è affetto cambia la propria identità in base alle persone o agli ambienti con cui entra in contatto. E’ conosciuta in psichiatria come “sindrome di Zelig”, ma se è diventata di uso comune anche in politica il merito è di Woody Allen. Zelig in yiddish significa “benedetto”. E’ il titolo, appunto, di un film cult del regista newyorkese (1983). Si tratta di un “mockumentary”, un falso documentario. E, per renderlo realistico, il regista utilizza intellettuali famosi – Susan Sontag, Saul Bellow, Bruno Bettelheim – ripresi durante interviste fittizie negli anni Ottanta, in cui parlano di Zelig come se fosse realmente esistito.


Il Gattopardo finge di accettare innovazioni più apparenti che reali per non compromettere i privilegi acquisiti, il proprio tornaconto 


Siamo a New York, nel 1928. Leonard Zelig (Allen) è un uomo qualunque che riesce ad assumere movenze, caratteristiche fisiche e modi di esprimersi dei suoi interlocutori, si tratti di un trombettista nero o di un cinese in una fumeria d’oppio. Ricoverato al Manhattan Hospital, i medici lo sottopongono a ogni tipo di cura, ma la malattia resta inspiegabile. Un mistero che diventa un caso nazionale: giornali, radio, dibattiti pubblici, conversazioni famigliari non fanno che parlare della capacità di Zelig di identificarsi, anche esteticamente, nelle persone che incontra. La psichiatra Eudora Fletcher (Mia Farrow) si appassiona alla sua patologia, che viene ribattezzata “camaleontismo”. Scopre che alla sua origine c’è il desiderio nascosto di essere accettato e amato. Il camaleontismo diviene così una moda che manda in delirio gli americani, a cui si ispirano canzoni, balli, gadget, tazze, spille e pupazzi. La dottoressa Fletcher ipnotizza Zelig e lo interroga come se fosse lei ad avere bisogno del suo aiuto. Grazie a questo metodo, i ricordi e le frustrazioni di Zelig emergono. Lentamente egli sembra avviarsi verso una completa guarigione.

 

Sotto gli occhi di un paese esultante, i due programmano le nozze. Quando il sogno sta per avverarsi, spuntano diverse donne che dichiarano di essere state sposate a Leonard e di essere le madri dei suoi figli. Lo scandalo è enorme. Zelig ripiomba nella sua sindrome e sparisce lasciando nello sconforto Eudora. Che dopo un anno lo scorge in un cinegiornale, alle spalle di Hitler nel corso di un’adunata nazista. La donna si precipita in Europa. Leonard, appena la rivede, riacquista la memoria e corre tra le sue braccia. Per sfuggire ai tedeschi, Zelig si trasforma in pilota di aereo e compie la traversata transoceanica a testa in giù. Tornati in una nazione commossa dalle peripezie della coppia, Eudora e Leonard si possono finalmente sposare.

 

Come ha scritto Federica De Paolis (Enciclopedia del cinema Treccani), il film è al tempo stesso un affresco d’epoca e una denuncia della fragilità dell’American dream, che ha proprio nell’industria cinematografica uno dei suoi veicoli principali. L’incredibile epopea di Leonard Zelig sfiora spesso il surreale e trascina il pubblico in un gioco affascinante e colto, in grado di passare con uguale disinvoltura dall’immagine trasognata di Francis Scott Fitzgerald allo sberleffo a Hitler. Ma, nella scena dell’adunata nazista, il camaleontismo di Zelig assume con molta chiarezza una valenza storica e politica che chiama in causa anche i passaggi più bui della nostra storia nazionale: la mancanza di identità di Zelig, infatti, è l’altra faccia di un istinto gregario delle masse che porta alla rovina i popoli. Ci voleva un geniaccio come Allen per spiegare, strizzando l’occhio a un capolavoro di Orson Welles, F for Fake (“F come falso”, 1973), che l’arte è una menzogna che ci fa capire la verità.

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