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I sopravvissuti della danza

Marinella Guatterini

TikTok, ma anche allestimenti innovativi: il balletto non si è mai fermato e nemmeno Carla Fracci

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L’atmosfera è a dir poco surreale; nel grande Teatro comunale di Bolzano ti trovi solo tra 800 poltrone di velluto rosso: vuote. Una gentile accompagnatrice ti conduce in un posto dalla prospettiva centrale, e stai li a sipario chiuso e luci accese per qualche minuto. Giusto il tempo per passare in rapida rassegna i tanti spettacoli visti proprio in quel teatro, ma a platea ricolma, e tra la voracità di un pubblico dalle reazioni sempre dirette e, per questo, raro: capace di ammutinarsi, di richiedere indietro i soldi del biglietto. Come quando, nel 2009, la coreografa Maguy Marin – un “monstre sacré” della danza internazionale – vi presentò la sua “Iliade”, o “Description d’un combat”, spettacolo memorabile, dai movimenti essenziali e dalle molte parole omeriche biascicate in latino, francese, inglese, russo… Ma, ahinoi, privo dei sottotitoli in tedesco per il pubblico altoatesino. Tumulto inenarrabile; pianto della coreografa – non certo un fragile cardellino – dietro le quinte.

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L’atmosfera è a dir poco surreale; nel grande Teatro comunale di Bolzano ti trovi solo tra 800 poltrone di velluto rosso: vuote. Una gentile accompagnatrice ti conduce in un posto dalla prospettiva centrale, e stai li a sipario chiuso e luci accese per qualche minuto. Giusto il tempo per passare in rapida rassegna i tanti spettacoli visti proprio in quel teatro, ma a platea ricolma, e tra la voracità di un pubblico dalle reazioni sempre dirette e, per questo, raro: capace di ammutinarsi, di richiedere indietro i soldi del biglietto. Come quando, nel 2009, la coreografa Maguy Marin – un “monstre sacré” della danza internazionale – vi presentò la sua “Iliade”, o “Description d’un combat”, spettacolo memorabile, dai movimenti essenziali e dalle molte parole omeriche biascicate in latino, francese, inglese, russo… Ma, ahinoi, privo dei sottotitoli in tedesco per il pubblico altoatesino. Tumulto inenarrabile; pianto della coreografa – non certo un fragile cardellino – dietro le quinte.

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Invece adesso, nel silenzio assoluto di questo “Eden - Danza per uno spettatore” che sta per cominciare, sai che potrai ammutinarti da solo: plaudire o fischiare, entrare in sintonia con quel corpo che ti sta davanti, danzare virtualmente, stando seduto con lui/lei, o rifiutare l’invito. A voler essere pop viene in mente il film “Balla coi lupi”, quando Kevin Costner, soldato yankee diseredato, flirta con i pellerossa e un lupacchiotto, che poi dagli yankee verrà impallinato. Ma qui chi è l’animale, chi osserva meglio, chi è pronto a emulare o a scappare? Nessuno. Animale io, animale tu e niente estinzione. Anzi, se qualcuno ha pensato che la danza, arte di corpi a contatto, di grandi masse in movimento, in specie nei vasti teatri, sarebbe stata ferita a morte durante il lockdown e in questi tempi “contingentati”, deve ricredersi. Non ignoriamo di certo i più che giusti rimbrotti di chi ha vissuto d’aria e senza emolumenti ministeriali: spettacoli saltati e compagnie a spasso. Poca riconoscenza governativa, specie per i professionisti freelance che non hanno o non avevano la fortuna di danzare all’estero anche se nei mesi scorsi e non solo la dea bendata ha abbandonato ovunque le arti performative. Eppure, nella cattività di questo tempo buio e vuoto, molti si sono messi la testa tra le mani per schizzarvi fuori idee inedite più di quanto non avrebbero fatto nei tranquilli periodi delle stagioni primaverili o dei festival estivi normali.


A luglio a Bolzano l’“Eden - Danza per uno spettatore”, idea brillante di Emanuele Masi, non ha perso un colpo


 

Per quindici giorni, sino al 31 luglio, l’“Eden - Danza per uno spettatore”, idea brillante di Emanuele Masi – direttore artistico di “Tanz Bozen/BolzanoDanza 2020 - trentaseiesima edizione” –, in sintonia con i coreografi Carolyn Carlson, Michele Di Stefano e Rachid Ouramdane, non ha perso un colpo. Al contrario, ha guadagnato plausi unanimi. Dieci repliche al giorno per ognuno dei tre “Eden”, firmati dagli artisti nominati, per un totale di 30 recite al dì, dalle 11 di mattina alle 22.30 di sera. Performance gratuite, previa prenotazione. Libertà assoluta di scelta: vedere “il paradiso perduto” della leggendaria Carlson, quello dell’irrefrenabile Di Stefano, del franco-algerino Ouramdane? Oppure tutti e tre, sostando per un breve time-slot tra un “Eden” e l’altro in un piccolo giardino verde e fiorito, appositamente ricreato tra ruscelli e un cinguettio di volatili che forse, rapite dall’evento, ci siamo solo immaginate? Ma quando mai ricapiterà una simile delizia?

 

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Durante il lockdown Paola Lattanzi, ormai milanese “genius loci” nell’ambito della ricerca contemporanea, si è inventata “le danze in assenza”. Ispirata dalla fotografa americana Francesca Woodman, morta suicida a soli 22 anni, ma tra le artiste dello scatto – anzi dell’autoscatto – più influenti negli ultimi decenni del XX secolo, ha ripensato il suo lavoro di composizione orientandolo verso la stasi e l’arte visiva. Con i suoi allievi, dice di aver scoperto “una nuova relazione tra spazio e corpo nella padronanza dell’immagine, nella scelta e in relazione con il caso nell’atto creativo, nell’esclusione del non necessario, e nel divario tra forma e idea”. Ne sono nate una trentina di immagini pregnanti, presto in mostra a Milano, in cui gli allievi, tutti quasi provetti danzatori, hanno creato il loro spazio e il loro tempo. Nell’osservatore nasce la gioia di riflettere e fantasticare su potenziali coreografie, che sono lì in nuce, ma appunto ferme, e in attesa che il pensiero di chi le guarda le faccia volare.

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Carla Fracci ha scelto per questa sua nuova avventura digitale un remake romantico dei Ballets Russes, anno 1909


 

Per un pubblico di giovanissimi, assai meno sofisticato, quello della cosiddetta generazione Z, (i post-millennial, nati dal 1997 a oggi che, quindi, non superano i 22 anni), la non più sconosciuta Giselda Ranieri, danzatrice e coreografa, si è inserita assieme a Simone Pacini, esperto di comunicazione digitale in TikTok, la piattaforma web del momento, simile a Instagram o a Facebook, ma con più di 800 milioni di utenti attivi al mese. La coreografa vi si esibisce, fiera del suo “Isadora - The Tik Tok Dance Project” in danze di pochi istanti, fatte con gli occhi, il naso o le mani, per stimolare la creatività di giovani, che magari non hanno mai visto neppure un balletto tradizionale, né mai si sono avvicinati alla danza.

 

Col passare dei mesi in lockdown gli utenti italiani sono cresciuti, TikTok Italia si è aperto ad altri settori; si sono inseriti giovani cuochi e barbieri per presentare le loro invenzioni di settore, ma la finalità di questa impresa sostenuta, per la danza, in residenza digitale, da vari enti marchigiani, toscani e umbri, ha ancora il sapore di una sfida. Non si sa ad esempio se chi copia Giselda seguendo le sue indicazioni sulla ripetizione, il ritmo, lo stop-motion, lo scomporsi del movimento e il famoso “learning by doing” della generazione Z, sempre interconnessa, performativa e carica di un veemente spirito autodidatta, abbia davvero una graffio estetico. Ma il dado è tratto e TikTok avanza, se potrà, in Italia e nel resto del mondo che disconosce Trump (il presidente americano ha appena bannato questa app) e con questo social avanza anche la tecnologia. Del resto, il campo è da decenni prediletto, per ironia della sorte, proprio dalla danza contemporanea americana, grazie soprattutto all’indimenticabile esempio di Merce Cunningham (1919-2009): il primo coreografo davvero tecnologico, il primo a creare, nel fluorescente “Biped” (bipede), una pièce per ballerini in carne e ossa e giganti virtuali. Grazie a questo capolavoro del 1999, l’arte del corpo, nelle sue forme nuove, è scivolata con incantevole ed elegante bellezza nel terzo millennio. Ma oggi il secolo è stato talmente oltraggiato dal misterioso virus letale da fare in modo che alla tecnologia si aggrappassero anche, e per ragioni di forza maggiore, gli insospettabili ballerini accademici.

 

La bella e fotografatissima Eleonora Abbagnato, 42 anni, direttrice del Balletto dell’Opera di Roma, che non riesce a dare l’addio alle scene al Palais Garnier dell’Opéra di Parigi dove si è formata ed è cresciuta sino a diventare étoile (il Palais è sempre chiuso e pure in ristrutturazione), ha impartito per mesi la sua lezione di danza online ai propri ballerini dal tavolo o dalle sedie di casa; poi ha continuato anche in vacanza, a Ibiza. Certo quegli appoggi di fortuna domestici non sono sbarre ma se ci si regge bene le punte svettano e l’esercizio riesce, assieme a tanti altri a terra e senza sostegni. Su queste pratiche di tenuta in forma e in muscolatura a distanza, la sempre magnifica Alessandra Ferri, 57 anni, si è molto lamentata accusando velatamente le maggiori istituzioni di avere abbandonato i propri danzatori alla triste solitudine degli esercizi in video, invece di provvedere al loro turn over distanziato nelle vere sale prove. Per lei, che appese le scarpette al chiodo nel 2007 per poi pentirsene tornando in scena sei anni dopo, a Spoleto e a Londra, dove tuttora risiede, le prove avrebbero dovuto essere collettive (ormai lo sono: si parte in settembre con le stagioni autunnali) e lo sguardo del maestro che dà la classe non avrebbe mai dovuto essere schermato. Forse per Alessandra – un corpo da ventenne, una maturità scenica decuplicata – la tecnologia è un affare che riguarda i coreografi, soprattutto quelli per i quali ha danzato. Ma non sarà che con l’età cresce, nei ballerini, la diffidenza nei confronti degli “intrugli” tecnologici, di un mondo sempre più virtuale che deve essere pure virale proprio come il virus che ci ha soggiogati? Sì, no, forse…


Giselda Ranieri si esibisce, fiera del suo “Isadora - The Tik Tok Dance Project”, in danze di pochi istanti, fatte con occhi, naso o mani


 

A 84 anni, il 20 agosto prossimo, c’è chi ha talmente assimilato una celebre frase del prolisso Oscar Wilde – “Stupisco sempre me stesso. E’ l’unica cosa che renda la vita degna di essere vissuta” – da avere appena varato, a fine luglio, il primo francobollo digitale italiano, e spronato l’esistenza di una Live Show Collection dedicata agli appassionati di teatro, opera, balletto, danza e ogni forma d’arte, ma anche ai collezionisti, ai numismatici tout court che fanno gare e si sfidano a colpi di rarità nei loro Marketplace. La Bitstamp, capostipite delle app italiane di settore, nata a 180 anni esatti dall’emissione del primo francobollo cartaceo – il Penny Black del 6 maggio 1840 – si è lasciata incantare dall’ansia innovativa di questa Lei che potremmo definire “l’eterna fanciulla danzante”, come scrisse il suo grande amico Eugenio Montale, ma anche l’ideale progenitrice della tragédienne Alessandra Ferri. A Carla Fracci l’app dei francobolli intangibili ha dedicato un omaggio che ha già superato ogni più rosea aspettativa. La prima tiratura limitata – duemila oggetti digitali “singoli”, la cui unicità, al prezzo di 9,90 euro, provenienza e proprietà è garantita dalla tecnologia Blockchain – è andata a ruba. L’immagine giovanile della divina, con coroncina fiorita tra i capelli “a bandeaux”, una sola spalla coperta, le dita intrecciate sotto il mento, è tratta da “Les Sylphides” di Michel Fokine e non è stata selezionata a caso. Regina del Romanticismo coreutico e ancora insuperata Giselle, Carla ha scelto per questa sua nuova avventura digitale, un remake romantico dei Ballets Russes, anno 1909. Sottile strategia per dire che la danza non si ferma, rimastica se stessa, abbraccia tutto ciò che la circonda: “Perché tutto nasce dall’unico patrimonio che abbiamo, la vita, il nostro corpo: in digitale? Benissimo, basta che il messaggio danzante giunga più lontano possibile, alle giovani generazioni, a chi ancora non lo conosce”.

 

La Fracci insiste sulla missione divulgativa che per anni, dopo i ventennali trionfi americani all’American Ballet Theatre, avrebbe potuto sfiancare qualsiasi artista. Ma le grandi danzatrici hanno tutte più o meno una fissazione. Isadora Duncan voleva creare scuole ovunque per fanciulle in erba, crescerle e farle diventare non solo danzatrici uniche ma donne autonome. Fracci ha percorso chilometri con la compagnia retta assieme a Beppe Menegatti, il marito regista, per portare il balletto in ogni angolo del nostro paese, dall’Emilia-Romagna al Lazio, dalle Marche alla Sardegna e chi aveva mai visto alla fine degli anni Settanta un balletto a Budrio? Eppure, tanta fatica le è valsa l’imperitura nomea, la fama intonsa che ancora le fa accumulare premi, l’ultimo il “Magna Grecia” che ultimo non sarà, e la chiama a Nepi vicino a Roma, posto, ci perdonino gli abitanti, assai poco noto, dove forse si esibirà. Gran cruccio non essere riuscita a creare una Compagnia di Balletto nazionale che girasse il mondo, anche se per dieci anni è stata direttrice all’Opera di Roma, e con quella troupe, ora in mano all’Abbagnato, un po’ di globo l’ha visitato. Per di più nella sua lunga carriera ha conosciuto artisti, letterati, pittori, teatranti famosi e ha un lascito di quadri, documenti e ricordi preziosi.


Eleonora Abbagnato ha impartito per mesi le lezioni online ai suoi ballerini dal tavolo o dalle sedie di casa 


Incinta del figlio Francesco, ha riso con il torvo Eusebio, alias Eugenio Montale, baritono mancato, in un incredibile viaggio fatto da Forte dei Marmi sino a Siena, quasi a piedi, per emulare i guitti viandanti dell’epoca medievale. E ha pianto a dirotto quando Eduardo De Filippo ha offerto solo a lei, interprete di una Filumena Marturano sulle punte, la sacra poltrona della sua amata sorella Titina. Dovrebbe avere ben pochi rimpianti. Eppure, vestita sempre di bianco con pizzi in mostra o nascosti e collane d’ambra di notevole caratura, Fracci non sta mai ferma e se ci sta si innamora del digitale. Se l’avessero invitata all’“Eden-danza per uno spettatore” di sicuro non avrebbe detto di no. Per questa creatura speciale, sarebbe bastato entrare in scena, alzare un braccio e la danza sarebbe scaturita da sé. Un metro e sessantaquattro di altezza, un peso sempre uguale, sul quale è meglio lasciar perdere, per non suscitare invidia in chi fa sforzi mostruosi per restare in forma, indossa scomodi pantaloncini di gomma per far sudare le gambe e mangia barrette di cioccolato dietetica – mentre lei gusta gran piatti di spaghetti, leccandosi i baffi come quando era bambina – ha il dono della luminosità. In scena si accende come una lampadina. Se non bastasse il rigore, l’immutata tensione verso la perfezione, il carattere coriaceo, che come diceva il coreografo Mario Pistoni è tutt’altro che romantico (“Carla non è certo una che guarda la Luna”), vanta un’altra qualità: la voce vellutata, avvolgente, che va su e giù e commuove, come nella potente restituzione del “Poema della croce”, della sua amica Alda Merini, avvenuta nel novembre scorso alla Chiesa di San Marco a Milano. Se ne avesse fatto sfoggio all’“Eden” di Bolzano nessuno spettatore si sarebbe ammutinato. Auguri Carla, musa tutt’altro che imbalsamata.

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