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Roma, città del Paranà

Michele Masneri

Altro che il Tevere. Estate torrida, statalismo, scandali. Ecco la sudamericanizzazione della Capitale

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Sarà il clima, sarà lo stato di emergenza, sarà per le macellerie messicane nelle caserme piacentine, o per le macellerie invece sociali che ci attendono dopo l’estate torrida (con autunno bollente): pare insomma d’essere finiti in uno strano Sudamerica. Gli indizi ci son tutti, a partire dal fidanzato casalinico cubano, una vera e propria soap tra l’altro molto moderna, storia d’amore e immigrazione, lui appunto cubano cameriere, l’altro già al Grande Fratello, e prima immigrato in Germania, però ingegnere, con un’avversione per i poveri, e poi per nemesi accasato col non abbiente José Carlos Alvarez Aguila, che lavora come cameriere al ristorante Temakinho (nippo-brasiliano, fusion, olè!).

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Sarà il clima, sarà lo stato di emergenza, sarà per le macellerie messicane nelle caserme piacentine, o per le macellerie invece sociali che ci attendono dopo l’estate torrida (con autunno bollente): pare insomma d’essere finiti in uno strano Sudamerica. Gli indizi ci son tutti, a partire dal fidanzato casalinico cubano, una vera e propria soap tra l’altro molto moderna, storia d’amore e immigrazione, lui appunto cubano cameriere, l’altro già al Grande Fratello, e prima immigrato in Germania, però ingegnere, con un’avversione per i poveri, e poi per nemesi accasato col non abbiente José Carlos Alvarez Aguila, che lavora come cameriere al ristorante Temakinho (nippo-brasiliano, fusion, olè!).

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Pare d’essere finiti in uno strano Sudamerica. Gli indizi ci sono tutti, a partire dal fidanzato casalinico cubano, una soap

Sudamerica! Tra l’altro, al netto dei conflitti di interesse e delle commissioni di Borsa, siamo alle prese con l’unica rappresentazione finora contemporanea che si sia vista in Italia di una storia d’amore gay non da avanspettacolo: fuori dalle macchiette e dagli stereotipi, più “House of Cards” che “Milagros”, insomma, e chissà se la compostezza della stampa deriva dalla paura di esser fatti fuori dalle chat casaliniche. Però, dalla merchant bank dove non si parlava inglese, siamo sprofondati alla banca online dove si parla cubano. Ma questo rimando all’anima latina piace, pare di capire, ci è consustanziale, è un appuntamento col destino. Il paese è pronto. Il Nordeuropa si è capito che non ci ama, non ci somiglia. Coi frugali, mai. Con gli australi, magari. “Finiremo come il Sudamerica” ormai è un’espressione che non genera più timori, pare un augurio: del resto se l’Argentina si avvia al suo nono default, insomma, che sarà mai.

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E chissà se i contatti di diplomatici venezuelani coi vertici pentastellati sono avvenuti davvero: quelli che il quotidiano spagnolo ABC raccontò, con scambi di denaro tra il console venezuelano a Milano e una valigetta misteriosa a Gianroberto Casaleggio. Storie di spionaggio alla Graham Greene, con un tocco di esotismo nella Milano rovente estiva (e forse sarà invece il console brasiliano che si dovrà occupare, nella controra lombarda, delle sue concittadine transgender implicate nella faccenda di Piacenza: “Se non collabori, ti rimando in Brasile!”, diceva infatti intercettato l’appuntato Montella, incredibile figuro di una commedia italo-sudamericana tra i nuovi Mostri e Garage Olimpo). Ma lì, “somewhere in northern Italy”, nella Lombardia affranta dal lockdown, i più nostalgici elettori del resto erano entusiasti, ai tempi, dai soccorsi di medici cubani e venezuelani: così ora il comune di Crema ha annunciato che sosterrà la candidatura del Nobel per la pace alla brigata “Henry Reeve”, quella che invia squadre di medici nelle zone del pianeta dove c’è bisogno di assistenza. La brigata prende il nome da un cittadino newyorchese che difese l’indipendenza di Cuba. Il suo attuale comandante è il dottor Carlos Perez e la definizione formale è quella di “Contingente Internacional de Médicos Especializados en Situaciones de Desastres y Graves Epidemias”.

   

Ma scendendo da Crema a Roma: più o meno tutti, passeggiando durante il lockdown e dopo per via Nazionale sbarrata coi negozi deserti e il sole a picco hanno pensato “eccoci a Caracas”, e la mancanza di turisti americani in ciabatte fa risaltare i locali residenti, che si muovono lenti tra le nuove distese di tavolini del centro, molti con cappello in testa, dinoccolati, come trasfigurati, come se la pestilenza covidica li avesse ulteriormente rallentati; anche, più signori, più hidalgos, nelle loro estancias non più locate ad Airbnb, e deserte. Si sono ripresi i loro spazi, come la natura. L’Avana-Roma si prepara a ridiventare del resto la capitale anche morale di un paese ad alta statalizzazione, con i miliardi in arrivo dal Nordeuropa frugale che non andranno certo ad alimentare startup milanesi ma confluiranno qui, almeno di passaggio, poi forse via verso startup di Avellino e Frosinone; ma almeno una parte rimarrà impigliata, a Roma, nella città che ritrova così la sua nuova centralità. La ciudad eterna! E del resto se le meglio archistar hanno consigliato per mesi di emigrare verso i borghi, verso i luoghi “a bassa intensità”, con tanta vegetazione, con ecosistemi intatti, ecco dunque Roma, boscosa, con la sua wilderness e i suoi boschi anche involontari, il mare e il countryside. Perfetta capitalina di un nuovo stato uruguaio o paraguaio, col Tevere-Rio delle Amazzoni o Paranà in mezzo. E tanti impiegati pubblici da assumere, tante compagnie statalizzate o in via di statalizzazione, con lo Stato che non fa solo aerei e telefoni ma anche completi di sartoria; l’ultimo intervento infatti vede il glorioso Estado Italiano entrare nel capitale di Corneliani, marchio di abiti da uomo, simil-Facis (saranno quei completini attillati che vestono il premier e il ministro degli Esteri?). La nuova eleganza di Stato è dunque romana-impiegatizia (lo Stato non è mai entrato in Bulgari o Missoni o Valentino o Gucci, ma ha preferito questo piccolo marchio, forse erano altri tempi). “La vostra lotta è un modello”, ha detto il segretario della Cgil Landini ai gloriosi compagni sarti della nuova couture di stato, anzi d’estado.

 

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La nuova vita della capitale sudamericana-romana è chiaro che girerà attorno alla Caja Depositos y Prestitos, la gloriosa Cdp

E la nuova vita della capitale sudamericana-romana è chiaro che girerà attorno alla Caja Depositos y Prestitos, la gloriosa Cdp, la vera “fabbrica dei sogni” per l’Italia 2020, che sorpasserà Cinecittà ormai ridotta a parco a tema. La Caja Depositos y Prestitos non solo entra in tutti i capitali e in tutti i business, dotata com’è di fondi bestiali, produce anche nuove figure di hidalgos statalisti che piombano a Roma con entusiasmo da conquistadores: ormai ognuno di noi conosce qualcuno che alla domanda “ma tu che fai?”, risponde orgoglioso gonfiando il petto “sono nel board di Cdp!”, e giù terrazze, una nuova voglia di vivere, aperitivi, cene, “non volevo solo andare in società, ma volevo anche entrare nel capitale”, in questa strana rinascita romana. Dove le nuove burocrazie che si creeranno riempiranno il vuoto lasciato dai turisti: Roma, al contrario di Milano, non implora ai suoi impiegati “tornate al lavoro”, un po’ perché parrebbe un’iperbole, un po’ perché son talmente tanti e diverranno sempre di più, capaci di contrastare dunque qualunque smart working e crollo del turismo. Qui il business della cotoletta e del petto di pollo della pausa pranzo non cede, non ha bisogno di interventi della Cdp, è già assicurato dalle enormi burocrazie che occuperanno nuovi quadranti della città.

 

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Ci penseranno i 24 mila gloriosi impiegati a riempire i tavolini che nel frattempo si stanno trasformando in chiringuitos nel centro di Roma

Qualche tempo fa, in un ristorante all’aperto all’Esquilino, si tentò di andare a pranzo: “Non si può, è tutto prenotato dalla Cgil”, risposero (ho i testimoni). Anche lo smartuorchi capitale è peculiare: al bar e al ristorante si va comunque, e non solo per mangiare. Nessuno vuole stare a casa con mogli o peggio amanti o figli. Ma non esistendo spazi di coworking, o Starbucks, si sta al ristorante e la pausa pranzo si dilata, diciamo dalle 10 alle 17. La Raggi, per sostenere il settore della ristorazione, promette poi assunzioni di massa: duemila nuovi assunti al comune, che portano la “pianta organica” a 24 mila unità. Il tutto per una spesa complessiva intorno al miliardo di euro, ma che con l’indotto della pausa pranzo dilatata genererà enormi ricadute keynesiane. Ci penseranno dunque i 24 mila gloriosi impiegati a riempire i tavolini che nel frattempo si stanno trasformando in chiringuitos nel centro di Roma: bar di cocktail alzano vere foreste di bambù per delineare spazi aperti (una foresta pluviale sorta sulle strisce blu); sopra la Domus Aurea richiestissimo è il Sanctuary, strano locale all’aperto che garantisce piscinetta, palme, lezione di yoga, connessione internet, tra i banani. Tutto prenotatissimo, questo coworking romano-cubano (siamo più dalle parti di Gabriel Garcia Marquez che della Silicon Valley, evidentemente); e i pappagalli svolazzano già tra l’Esquilino e Ponte Milvio.

  

Insomma tornano in mente i magnifici reportage dal Sudamerica degli anni Settanta di V.S. Naipaul, con Montevideo capitalina del già arrembante Uruguay, con “molte barzellette sulla burocrazia, e sono tutte vere. Su oltre un milione di lavoratori, duecentocinquantamila sono statali. La Pluna, la compagnia aerea uruguayana, aveva mille dipendenti e un solo aereo funzionante. I dipendenti dell’Ancap, la società petrolifera di Stato, arrivavano in ufficio prima dell’apertura: c’erano più impiegati che sedie. Via posta non si fa nulla. Bisogna andare di persona. Il servizio è lento, ma gli utenti, sparsi tra fattorini e cani-poliziotto addormentati nell’atrio, non si lamentano: molti di loro sono dipendenti pubblici di altri dipartimenti, con tempo da perdere”.

  

Roma è prontissima alla sudamericanizzazione e del resto abbiamo già una first lady, Marisela Federici, regina dell’Appia antica e tenutaria della villa “la Furibonda”, nipote di un presidente della Repubblica venezuelano, che c’è di meglio? Potrebbe essere lei la prossima sindaca; per non parlare della sua vicina di casa, Gina Lollobrigida, che possiede nella sua villa la collezione completa delle opere di Peron, cinquanta volumi, tutte autografate e con dedica, raccontava Arbasino. E pare che la Lollo nella sua villa abbia pure un campo da tennis donatole dal dittatore argentino. Nel 1954 fece un trionfale tour a Buenos Aires dopo il successo di “Pane amore e fantasia”, e Peron, fresco vedovo di Evita, se ne innamorò immediatamente. Lui voleva donarle un giardino, con piante australi, ma sarebbero deperite in volo, così fece erigere quel campetto. Sulla copertina della rivista Il Tempo, la diva raccontava all’epoca “in esclusiva il mio viaggio in Argentina”, tipo i dispacci di Alessandro Di Battista dal Sudamerica, tra spremute di umanità e autostop (però subito interrotti, insieme all’attività editoriale per Fazi. Abbiamo guadagnato un politico, e perduto un Chatwin).

  

L’Appia dei popoli. Chissà chi sorveglierà le ville per tranquillizzare le paure di possidenti come Ernesto Galli y de Las Loggias

L’Appia è da sempre “regina viarum” e poi a un certo punto “Appia dei popoli”, secondo la definizione di Ottaviano Del Turco, e riferita a quando vi abitava Claudio Martelli: memorabili le sue descrizioni di quel periodo. La villa fu scelta perché “a un passo dall’aeroporto di Ciampino”, per voli di Stato molto frequenti. “Un risparmio di tempo per me che dovevo volare come minimo due volte la settimana. Per l’affitto e per le spese ci volevano molti soldi, ma anche noi eravamo molti e benestanti, pieni di fantasia e di amici”, scrive Martelli nel suo “Ricordati di vivere”. La villa viene arredata “su bozzetti dello scenografo della Scala Gianni Quaranta”, e di Mario Garbuglia, collaboratore di Visconti. Gli arredi sono del magazzino “Dedalo”, che rivende pezzi di set di Cinecittà. (“Che splendida sensazione vivere tra i mobili e i tendaggi di Senso e del Gattopardo! Che bello lavorare e vivere insieme con gli amici che sono compagni di lavoro, alternare ozii e negozi, sentirsi padroni di sé e utili agli altri!”). Vicini di casa, oltre alla Lollo, anche Valentino e Zeffirelli. Oggi, sull’Appia arriva anche Berlusconi, abbandonando il palazzo Grazioli; e prendendo possesso della villa ex Zeffirelli il Cav. porta un po’ di Brianza in quella specie di “Maradagal”, la immaginaria Repubblica latino-americana in guerra con l’altro stato del “Parapagal” che celebrava Gadda. Due stati contrapposti come il centro storico e la periferia (seppur periferia nobiliare, come l’Appia Antica). E chissà se a sorvegliare le ville per tranquillizzare le paure di possidenti come Ernesto Galli y de Las Loggias ci sarà un “Nistitúo provincial de vigilancia para la noche”, contro le invasioni dei Torpigna (spesso del centro storico): del resto quando arrivò McDonald’s a piazza di Spagna, fu proprio Valentino a lamentarsi che le patatine fritte inquinavano i suoi drappeggi.

   

Ma anche l’altro celebre vogherese Arbasino raccontava degli arrivi sontuosi di Evita a Ciampino, accolta in decappottabile dal ministro degli Esteri conte Sforza, dall’Appia verso ricevimenti al Quirinale e soprattutto al Vaticano, dove veniva ricevuta con tutti gli onori (in nero e decorazione di Isabella la Cattolica) da Pio XII: portando ricchi doni ai bambini poveri italiani, perché all’epoca l’Argentina era un paese dove gli italiani emigravano in massa, senza motovedette che ci respingessero, e ognuno in fondo ha qualche bisnonno che andò laggiù, con qualche bastimento, in una terra ricchissima di materie prime e bestiame e pochissimo popolata, e poi rapidamente rovinata da gestioni politiche dementi. Insomma, la realizzazione della massima liberista per cui “date in gestione il deserto allo Stato, e in poco tempo la sabbia diventerà un bene scarso”. Così il Venezuela oggi affronta una tragica mancanza di benzina, pur essendo il paese con le più ampie riserve al mondo (ma già Fantozzi, causa nuvoletta, andava a sbattere con la Bianchina contro un corteo presidenziale di un ministro del Petrolio in visita a Roma, appena atterrato a Ciampino. E finiva preso a scudisciate).

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