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Giù le mani

Simonetta Sciandivasci

Il divorzio tra Johnny Depp e Amber Heard, ultime star del matrimonio rovente. Quanto sarebbe bello litigare, anche se non lo facciamo più

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Sappiamo insultarci, apostrofarci, minacciarci, querelarci, separarci, bloccarci, provocarci, incriminarci. Lo facciamo con ottima proprietà d’offesa e particolare attenzione al contenimento materiale del danno: usiamo i social network, l’anonimato, le gif, gli hashtag. Siamo odiatori, urlatori, diffamatori, cancellatori, ma litiganti no, mai. Aggrediamo ma non confliggiamo.

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Sappiamo insultarci, apostrofarci, minacciarci, querelarci, separarci, bloccarci, provocarci, incriminarci. Lo facciamo con ottima proprietà d’offesa e particolare attenzione al contenimento materiale del danno: usiamo i social network, l’anonimato, le gif, gli hashtag. Siamo odiatori, urlatori, diffamatori, cancellatori, ma litiganti no, mai. Aggrediamo ma non confliggiamo.

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Su questo paradosso o, se preferite, su questo paradigma di vigliaccheria, ha attecchito la cancel culture, radicandosi fino a diventare strumento, arma di mutilazione di massa. L’altro, se non ci rispecchia o non ci avvalora o non ci rappresenta, ci inferocisce, ci disturba, ci intossica ed è per questo che non ci dibattiamo: vogliamo tralasciarlo, mettercelo alle spalle, eliminarlo per noi e per tutti. Non manifestiamo il dissenso con le obiezioni, perché le obiezioni sono dialoganti: lo facciamo con gli shit storm, che sono esecuzioni legali, e non prevedono neanche che il condannato dica qualcosa, un’ultima cosa prima di essere fucilato.


Non manifestiamo il dissenso con le obiezioni, perché le obiezioni sono dialoganti: lo facciamo con gli shit storm, che sono esecuzioni legali


 

Teniamo alle nostre ragioni, le trasformiamo in princìpi assoluti, assolutori, e non intendiamo né morire per difenderli, né discuterli con gli amici al bar, o su Zoom, o sul pedalò. Di tutte le idee in contrasto con le nostre cerchiamo l’origine in un crimine culturale, così da avere l’alibi perfetto per non ascoltarle, e immediatamente deriderle, minimizzarle e, una volta che le abbiamo devitalizzate, contrastarle, coprirle e cancellarle.Siamo giustizieri violenti, spietati, rancorosi, sbrigativi, e lo siamo sempre in nome di cause nobili, nobilitanti.

 

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Col prossimo, così come col passato, non facciamo i conti: tiriamo le somme. E se la cifra non ci soddisfa, ci arrabbiamo, lanciamo anatemi, firmiamo boicottaggi. Non siamo stanchi di combattere: siamo stanchi di perdere. E così, anziché duellare, bombardiamo.

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“Mi ha bombardato con quello che sembrava essere amore”, ha detto Johnny Depp raccontando della sua ex moglie, Amber Heard, che lo ha accusato di averla maltrattata e seviziata in tutti i modi, tant’è che il Sun una volta ha scritto che Depp è “un picchiatore di mogli”, e per questo lui ha fatto causa al giornale. Il processo è iniziato nei giorni scorsi e le cronache si sono riempite di quello che lui avrebbe fatto a lei e viceversa. E noi le abbiamo lette tutte, divertiti e tramortiti, chiedendoci, insieme a Vanity Fair, se l’amore possa portare a tanto, possa condurre a un abisso senza fondo, in definitiva se un amore così violento possa essere amore, e come mai capita ancora che ci si ami così. Noi e la nostra facilità a diagnosticare malattie, perversioni, intossicazioni, a vedere in tutto un riflesso condizionato e mai una volontà precisa: per noi tra uomini e donne, tra persone, non esistono che inghippi superabili con una terapia, e i soprusi sono correggibili con una buona rieducazione socio-culturale, o con la scomunica sui social network, l’inquisizione benevola. Noi allontaniamo l’idea che l’amore abbia un lato oscuro, che tutto abbia un lato oscuro, che ogni intero sia diviso tra bene e male, luce e ombra, e che l’equilibrio tra le parti sia impossibile. Per noi amare significa non dover mai dire mi dispiace, aneliamo a relazioni governate dal rispetto, da codici identici a quelli che ci dicono come stare in fila alle poste. Straparliamo di libertà, fluidificazione di tutto, moltiplicazione delle identità, e poi non facciamo che contenerci, ingoiare, sederci dalla parte del giusto, eccellere, in uno sforzo continuamente ostensivo e inibitorio che ci incarognisce e rende collerici.

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Siamo corridori da tapis roulant. Ci muoviamo, ci agitiamo senza spostarci di un millimetro. Siamo haters, sì, ma buoni


 

A Depp, Amber Head avrebbe mozzato un dito con una bottiglia di vodka, spento una sigaretta in faccia, lanciato appresso candele accese, scritto frasi minacciose con il sangue sugli specchi del bagno, defecato tra le lenzuola, nascosto i farmaci, mentito, scritto mail compromettenti che adesso usa a suo vantaggio – “amo follemente una metà di te, l’altra mi terrorizza”. Lei, naturalmente, nega, e dice che lui era sempre ubriaco, fuori di sé, iracondo, violento, mostra le foto delle sue colazioni con strisce di cocaina, whisky, dischi di Keith Richards, quotidiani (noi povere mortali per uno che fa colazione così venderemmo madri, nonni, figli eventuali, ma è il patriarcato che ci portiamo dentro a farcelo pensare, prendendosi tutto, anche il caffè, anche Johnny Depp). Lui le avrebbe lanciato addosso armadietti, bottiglie di bourbon, scritto “ti brucio, strega!”, l’avrebbe picchiata in aereo, minacciata di cucinarle il cane al microonde (noi povere mortali, come sopra), e si sarebbe addormentato con un gelato addosso, raggomitolato in tutti gli angoli del salotto, centinaia di volte.

 

Che incivili, che disgraziati pazzi sciagurati, si vede che sono attori, queste cose capitano ancora soltanto a Hollywood, abbiamo pensato noi che con i nostri ex ci lasciamo bene, da adulti, augurandoci il meglio, dicendoci “stai bene, mi raccomando”, e ci spediamo le nostre cose, per non guardarci in faccia mentre svuotiamo la casa dove ci siamo illusi che saremmo rimasti insieme per sempre, fosse mai che ci venisse voglia di prenderci a sberle. Altre volte ci lasciamo senza dirci niente di niente, sparendo un po’ alla volta, diminuendo i contatti, le interazioni, i cuoricini, i pollici, le note vocali, i link delle canzoni, confidando così che l’altro capisca che abbiamo cambiato idea, che stiamo vacillando, che abbiamo bisogno ancora della nostra vita, della nostra seconda giovinezza, e che il suo orgoglio gli impedisca di venire a cercarci, e quando temiamo che l’orgoglio non sia sufficiente, gli rifiliamo un cuoricino, una reazione calorosa su Facebook, così che non si arrabbi, e pensi che è soltanto un momento, che non siamo spariti, che prima o poi torneremo. Ce la filiamo all’inglese per non dover dare spiegazioni che potrebbero sfociare in discussioni, recriminazioni, e tutte le altre discipline del litigio coniugale, antico e indimenticato sport etrusco che non pratichiamo che a parole, naturalmente virtuali. A “La guerra dei Roses” preferiamo “La La La Land”. A Spartacus preferiamo Jocker.

 

Ci sposiamo per placidità e placidamente divorziamo, spesso senza altro motivo che non sia la noia che ci arreca l’atterraggio della passione. A giugno l’Inghilterra ha approvato la molto desiderata legge sul divorzio senza colpa e tra non molto tempo sarà possibile chiudere un matrimonio senza dare al giudice alcuna spiegazione: basterà dirgli che le cose non vanno, e non c’è modo di farle andare da nessun’altra parte che non sia un tribunale, e basterà che a dirlo sia uno dei contraenti, indipendentemente da quanto sia d’accordo o in disaccordo l’altro. Prima, per sciogliere un matrimonio era necessario che marito e moglie restassero separati due anni, e poi tornassero dal giudice e se uno dei due non voleva comunque concedere il divorzio, toccava aspettare altri cinque anni; soprattutto, bisognava che almeno uno dei due avesse tradito l’altro, o lo avesse abbandonato, o si fosse comportato in modo “irragionevole”. Gli inglesi per anni hanno brigato per sbarazzarsi di queste lungaggini, ritenendole punitive, quasi persecutorie.

 

“Non tutti i matrimoni durano”, ha detto l’anno scorso David Gauke, allora segretario alla Giustizia (conservatore) presentando il decreto legge sul no fault divorce contro il quale, alla Camera dei Comuni, in giugno, si sono opposti in sedici.


“Mi ha bombardato con quello che sembrava essere amore”, ha detto Johnny Depp raccontando della sua ex moglie, Amber Heard


 

Il divorzio senza colpa snellisce la burocrazia, sgrava le responsabilità e istituisce la libertà di ricredersi su un patto per futili motivi e, di più, senza motivi. Lo fa in nome di un alleggerimento delle pene di chi si lascia, come se esistesse un modo indolore di farlo. E’ piuttosto démodé credere che due che sono andati a letto insieme o che hanno creato una famiglia insieme, non possano avere a che fare l’uno con l’altra/o quando si dividono. E’ un tabù da Paleolitico. Guai a mostrarsi risentiti: interromperebbe l’emanazione di good vibes, ci mostrerebbe feriti, possessivi, austeri, torvi, illiberali. Guai a dispiacere: non reggiamo lo sfavore di sconosciuti, figuriamoci quello di ex fidanzati, compagni, congiunti. 

 

Je t’aime, moi non plus, oh mon amour, comme la vague irrésolue. Se l’amore finisce perché non dovrebbe finire un matrimonio? Dimentichiamo che il matrimonio l’abbiamo inventato anche per tenerci uniti a passione finita, amore pensionato, sopportazione agonizzante. E’ interessante la forza con cui vogliamo veder riconosciuta, tra le buone ragioni, l’assenza di ragioni. Ecco perché non litighiamo: perché ci odiamo senza fondamento, senza motivo. Qualche anno fa, Bari Weiss raccontò sul New York Times di essere andata a cena con Eve Peyser, una giornalista di Vice con la quale battibeccava, spesso e con molta acredine, su Twitter: aveva immaginato che si sarebbero azzuffate dall’antipasto al dolce, e invece erano diventate amiche, ed erano anche finite a scrivere un libro insieme. Credevano di conoscersi, e di non piacersi: quando si sono viste e parlate di persona, hanno capito non solo di non conoscersi affatto, ma di piacersi e, soprattutto, che ciò che le distanziava nelle conversazioni virtuali era ininfluente, ciò che su Twitter era insormontabile, a cena era irrilevante.

 

Siamo sguarniti di motivi concretamente validi per discutere ed è per questo, anche per questo, che ce le diamo di santa ragione. A parole. Per strada salutiamo sempre, e poi corriamo a inveire su Instagram, laddove c’è già una massa che stia inveendo, perché da soli non ci esporremmo mai, tanto è il terrore di risultare sgradevoli. Bari Weiss, nella lettera in cui spiega le ragioni delle sue dimissioni dal New York Times, “il cui vero direttore è diventato Twitter”, pubblicata sul suo sito nei giorni scorsi, dice a un certo punto che molti suoi colleghi le hanno manifestato solidarietà, però in privato. Nessuno di loro ha scritto pubblicamente in sua difesa, nessuno si è scusato per averla ostracizzata e svilita in tutti questi anni. Non ci esponiamo nemmeno per le giuste cause degli altri, se quegli altri non sono presentabili, e sostenerli potrebbe rovinare la nostra immagine o, peggio, obbligarci ad argomentare in loro difesa. Per carità.

 

Non vorremmo fratturare i nostri legami con la buona società. Noi non fratturiamo niente, non picconiamo niente se non le statue, usiamo le pietre contro le pietre. Siamo corridori da tapis roulant. Ci muoviamo, ci agitiamo senza spostarci di un millimetro. Siamo haters, sì, ma buoni. Johnny Depp e la sua ex moglie sono residui di una cultura passata, di esagerazioni al tramonto, di stili di vita dissipati ormai circoscritti alla fiction, ai ricordi di vecchie rock band. Non litigano più neppure le popstar, al massimo si scindono (non divorziano, attenzione: si scindono) come Tommaso Paradiso dai The Giornalisti e Matteo Renzi (popstar anche lui, certo) dal Pd l’estate scorsa. Come Grillo da Virginia Raggi la settimana scorsa.

 

“Perché le rock band hanno perso l’abitudine alla faida?”, ha scritto l’Independent ricordando che oggi nessuno dichiarerebbe apertamente il suo odio per un collega, come fece Robert Smith dei Cure: “Se Morrisey non mangia carne, allora mangerò carne, ecco quanto lo odio”, né sarebbe immaginabile un’epopea come quella tra i fratelli Gallagher, o tra gli Oasis e i Blur, senza le quali il brit pop, forse non sarebbe esistito. Le rock band (ammesso che ancora si possa ancora parlare di rock band), oggi, per l’Independent non hanno il coraggio di andare oltre gli sfottò sui social network: fino a vent’anni fa, invece, si scontravano, si provocavano, e non lo facevano per sete di sangue, né per competizione: era un gesto artistico, un’esortazione, una sfida. Oggi è più importante “essere carini”. Bugo, che abbiamo visto abbandonare il palco di Sanremo mentre Morgan gli stravolgeva il pezzo per insultarlo, ieri ha scritto su Twitter di essere circondato dall’affetto degli altri e di trovare in questo la conferma di agire bene, il “segnale che quando ti comporti seriamente e con dignità sarai sempre ripagato”. E’ un musicista o un life coach?


Guai a mostrarsi risentiti: interromperebbe l’emanazione di good vibes, ci mostrerebbe feriti, possessivi, austeri, torvi, illiberali 


A duellare sono rimasti in pochi: lettori russi, ex coniugi molto in vista, concorrenti del Grande Fratello Vip, Vittorio Sgarbi. “Russia, sparatoria dopo una lite su Kant”, è una notizia che alcuni giornali hanno dato qualche settimana fa, e che in verità era già stata data nel 2013, identica: a Rostov sul Don, un ventiseienne e un ventottenne cominciano a parlare di Kant mentre aspettano di comprare una vodka, ma quando arrivano all’etica trascendentale le loro opinioni divergono così profondamente che uno dei due tira fuori la pistola scacciacani e spara all’altro. L’abbiamo condivisa in tanti, augurandoci che fosse vera, così come era successo due anni fa, quando leggemmo di Sergey Savitsky che provò a uccidere il suo collega Oleg Beloguzov perché gli raccontava il finale dei libri che leggeva (erano entrambi in spedizione in Antartide), ridendo molto, trovandolo esotico, incomprensibile, esagerato, romanzesco, bellissimo, folle. Noi non torceremmo un capello a chicchessia per una divergenza sulla “Critica della ragion pura” (anche perché dovremmo averla letta, e noi non leggiamo neanche gli articoli che ritwittiamo, tant’è che Twitter ci chiede se siamo sicuri di farlo, quando clicchiamo sul tastino per la condivisione).

 

Noi ce ne stiamo buoni, se possiamo, perché dobbiamo. Cancelliamo i cattivi pensieri, e quindi tutti i pensieri, e ci conformiamo alle nuove virtù stabilite dal patto social, la nuova grande alleanza occidentale. Salutiamo, ci scusiamo, non ridiamo della ciccia, amiamo la ciccia, paghiamo la cena all’ex. Eseguiamo gli ordini, siamo le benevole.

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