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Il nuovo lessico della seduzione

Simonetta Sciandivasci

La decrescita infelice del desiderio, la liberazione dal reggiseno e dal dress code. Arrendetevi, ha vinto l’istinto

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Ci piaceremo ancora, sfatti e zozzi, sudati e stanchi, terrorizzati e spenti, depressi e pessimisti, disoccupati e cassaintegrati, sciatti e veri? Ci desidereremo ancora, struccati, spettinati, con le t-shirt al posto delle camicie, e le scarpe da jogging al posto dei tacchi, e le tute al posto dei tailleur, e la zappa (o il mestolo) al posto del pc, perennemente sportivi, comodi, morbidi, domestici, casalinghi? Ci sedurremo, intrigheremo, appassioneremo senza filtri, misteri, rimandi, recite, correzioni e correttivi? Ci dovremo amare al naturale. Al naturale, in fondo, tendevamo già da parecchio prima del Covid, quando sbarazzarci delle regole dell’attrazione e di tutto il loro armamentario insostenibile, talvolta persino passè, era un fatto ideologico, una lotta al canone, al modello unico, al dettame patriarcale, consumista, capitalista, una rivolta contro l’alienazione virtuale. Di rimetterci in ghingheri, dopo mesi in ciabatte e salopette, non ci va, e non solamente perché vestiti da niente, per coprirci e basta, ci siamo trovati bene e ci siamo sentiti al sicuro dai nostri difetti, ma perché ci hanno visti tutti: il capo, i colleghi, gli amici, i fidanzati, i filarini, gli ex. Abbiamo incontrato tutti su Zoom, da casa, e se nelle prime settimane di isolamento ci presentavamo sia in riunione sia all’aperiskype (scusate, ma dicevamo proprio così) come se fossimo in presenza, e quindi aggraziati, impomatati e lucidati, poi abbiamo ceduto, via la giacca, via la cravatta, via il rossetto, via il reggiseno, i bambini hanno cominciato a interrompere solenni vertici aziendali, alle spalle dei manager sono spuntati gli stendini, e poi i detersivi, e poi le colf, e poi i papà in grembiule, e poi vi dispiace se cambio la pupa mentre voi decidete il piano editoriale di settembre? La settimana scorsa, il capo degli Esteri di Sky News Uk, Deborah Haynes, era in diretta tv dal suo salotto quando a un certo punto suo figlio ha aperto la porta e ha detto, fortissimo, “Mamma, mi dai un biscotto?”. Forse non succederà più che una mamma si vergogni di avere la camicetta macchiata dal rigurgito di suo figlio, né che l’uomo che si ritrovi a baciarla reagisca schifato come lo stronzo con cui esce una sera Helen Hunt in “Qualcosa è cambiato”, che non sopporta neppure la tosse del piccolo. Forse.

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Ci piaceremo ancora, sfatti e zozzi, sudati e stanchi, terrorizzati e spenti, depressi e pessimisti, disoccupati e cassaintegrati, sciatti e veri? Ci desidereremo ancora, struccati, spettinati, con le t-shirt al posto delle camicie, e le scarpe da jogging al posto dei tacchi, e le tute al posto dei tailleur, e la zappa (o il mestolo) al posto del pc, perennemente sportivi, comodi, morbidi, domestici, casalinghi? Ci sedurremo, intrigheremo, appassioneremo senza filtri, misteri, rimandi, recite, correzioni e correttivi? Ci dovremo amare al naturale. Al naturale, in fondo, tendevamo già da parecchio prima del Covid, quando sbarazzarci delle regole dell’attrazione e di tutto il loro armamentario insostenibile, talvolta persino passè, era un fatto ideologico, una lotta al canone, al modello unico, al dettame patriarcale, consumista, capitalista, una rivolta contro l’alienazione virtuale. Di rimetterci in ghingheri, dopo mesi in ciabatte e salopette, non ci va, e non solamente perché vestiti da niente, per coprirci e basta, ci siamo trovati bene e ci siamo sentiti al sicuro dai nostri difetti, ma perché ci hanno visti tutti: il capo, i colleghi, gli amici, i fidanzati, i filarini, gli ex. Abbiamo incontrato tutti su Zoom, da casa, e se nelle prime settimane di isolamento ci presentavamo sia in riunione sia all’aperiskype (scusate, ma dicevamo proprio così) come se fossimo in presenza, e quindi aggraziati, impomatati e lucidati, poi abbiamo ceduto, via la giacca, via la cravatta, via il rossetto, via il reggiseno, i bambini hanno cominciato a interrompere solenni vertici aziendali, alle spalle dei manager sono spuntati gli stendini, e poi i detersivi, e poi le colf, e poi i papà in grembiule, e poi vi dispiace se cambio la pupa mentre voi decidete il piano editoriale di settembre? La settimana scorsa, il capo degli Esteri di Sky News Uk, Deborah Haynes, era in diretta tv dal suo salotto quando a un certo punto suo figlio ha aperto la porta e ha detto, fortissimo, “Mamma, mi dai un biscotto?”. Forse non succederà più che una mamma si vergogni di avere la camicetta macchiata dal rigurgito di suo figlio, né che l’uomo che si ritrovi a baciarla reagisca schifato come lo stronzo con cui esce una sera Helen Hunt in “Qualcosa è cambiato”, che non sopporta neppure la tosse del piccolo. Forse.

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Di rimetterci in ghingheri, dopo mesi in ciabatte e salopette, non ci va. Vestiti da niente, per coprirci e basta, ci siamo trovati bene


 

Siamo entrati nelle vite di tutti, nelle stanze di tutti, conoscenti e sconosciuti, e lo abbiamo fatto ad armi pari, svestiti, destrutturati, misericordiosi, disordinati, informali. Abbiamo visto tinelli, camere da letto, divani, macchie d’umido, rughe, occhiaie, borse, mogli, mariti, figli, punti deboli. Che senso avrebbe tornare esattamente come eravamo? Sarebbe come darsi del lei dopo essersi dati del tu, baciarsi con la mascherina dopo aver fatto l’amore, parlarsi su Tinder dopo essersi incontrati, rimettersi la parrucca dopo essersela tolta in mondovisione. Il New Yorker ha scritto che la pandemia, per le donne, ha fatto anche cose buone, e le ha liberate dall’ingombro del reggipetto, ha ricordato loro quanto superfluo, ingombrante, ingabbiante, persino invalidante sia costringere il seno in un infernale accessorio di ferro, elastici e cotone. L’Harper’s Bazaar ha chiesto: “E se non ce lo mettessimo più?”. Il Guardian ha raccolto le voci di molte donne che hanno raccontato di aver trascorso tutto il lockdown senza reggiseno e che non hanno alcuna intenzione di tornare a indossarlo, di esserselo dimenticato, di non aver mai sentito la sua mancanza e di non sentire alcun imbarazzo, adesso, a uscire senza. Fu sul Guardian che Gina Yashere chiese a Michelle Obama se, alla fine della presidenza di suo marito, si fosse sentita come ci si sente quando, dopo una lunga giornata, ci si sfila il reggiseno. Non c’è niente di inedito: per l’abolizione di bra e wonderbra molte donne, non per forza femministe, brigano da decenni, almeno dal Sessantotto, quando in America vennero definiti “strumenti di tortura” e si favoleggiò di bruciarli in piazza (non avvenne mai, ma da allora la defenestrazione del reggiseno è diventata un atto simbolico molto frequentato e molti reggiseni son stati lanciati da palchi, platee, teste di corteo – Guccini in Eskimo lo ha raccontato perfettamente: “Tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent’anni fa”). Sulla Stampa, Francesca Paci ha scritto: “Constatata l’efficienza della routine scamiciata, l’innocenza è perduta. La femminilità è performance in sé o necessita una platea?”. Ed è questo il punto. Come accenderemo il desiderio, una volta eliminati o depauperati gli arnesi della seduzione, dai push up alla conversazione brillante (tra le vignette del New Yorker su come tornare al contatto, ce n’è una che consiglia di fare sesso senza parlarsi, ché tanto il corpo dice di più e meglio delle parole, e lo fa senza rilasciare goccioline di saliva potenzialmente infette)? Scopriremo, magari, che siamo attraenti anche malandati, scomposti, macchiati, malvestiti e che più siamo noi stessi e per noi stessi, più piacciamo all’altro. Scopriremo, forse, che l’istinto fa benissimo da solo, e in tutti questi anni, secoli, abbiamo perso tempo, soldi, energie smaniando per cose che non volevamo davvero, e che avremmo potuto ottenere senza dispiegare eserciti, strateghi, rinforzi.

 

“Il desiderio, in giusta dose, è la chiave della ripartenza”, ha detto alla Stampa Matteo Balestieri, vicepresidente della società italiana di Psichiatria. Ne usciremo desideranti e, meglio, ne usciremo se desidereremo: solo così non rovineremo nella depressione, non saremo sopraffatti dallo sfaldarsi delle cose, dalla grande crisi che sembra attenderci al varco, l’ennesima di questi anni, probabilmente la peggiore di tutte. E auguriamoci che il governo non emani un decreto per l’allegria coatta, che preveda per i cittadini l’onere di infondere entusiasmo al loro prossimo fino a nuovo ordine, di certo almeno fino a quando non ci sarà un vaccino.


Una passa una vita a pensare di volere moltissimo una famiglia e poi si rende conto che sono quelli intorno a lei che vogliono che lei la voglia


 

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La scorsa settimana, l’Istat ci ha avvisati che, entro il 2021, i nuovi nati potrebbero scendere sotto i 400 mila, un risultato che prima del Covid era stato previsto che avremmo raggiunto, sì, ma nel 2032, mica dopodomani. Non che il timore di fare figli che sarebbe complicato o impossibile mantenere sia stato uno dei motivi dell’inappetenza che gli italiani hanno sperimentato in quarantena, quando per oltre l’80 per cento di noi il desiderio sessuale è calato e, insieme a quello, i sogni di rivalsa, ripresa, discesa ardita e risalita. Secondo le rilevazioni della Durex, che ha istituito una task force per l’educazione sessuale in pandemia, le ragioni di quel calo sono state: l’inibente presenza di figli in casa, il timore di un contagio, il distanziamento sociale, l’interruzione della mobilità. Neanche una frazione minima di responsabilità l’ha avuta sciatteria, il fatto che ci siamo visti al nostro peggio, e che quel peggio lo portavamo con un orgoglio che ancora resiste, e che riempiamo di un senso quasi francescano del vivere. Neanche uno 0,50 per cento di colpa alla paura di far figli, che nessuno sembra intenzionato a fare, e gli scalmanati riproduzionisti che in marzo profetizzavano un possibile baby boom, sono gli stessi che la settimana scorsa hanno giubilato davanti alla notizia di 15 bambini nati “uno dopo l’altro” nell’ospedale di Cremona, nella stessa notte “che non era neanche di luna piena”, e hanno voluto leggerci un inequivocabile segnale di ripresa, di speranza, di inversione di rotta, e hanno parlato di grande avvenire dentro le culle, prodromi di stravolgimenti demografici finalmente in senso positivo, audacia, coraggio, ottimismo, apollineo, dionisiaco, e in fondo ve lo avevamo detto, c’era da aspettarselo, metti dei fertili congiunti in casa 24 ore al giorno, a ciondolare tra il letto e il divano, e vuoi che le braci non diventino incendi, e anche i più posati non si sbranino. E invece avevano torto. E l’Istat, con un tempismo cinematografico, li ha smentiti con un “questo lo dite voi” enorme e incontestabile.

 

Massimo Recalcati ha scritto sulla Repubblica che il rapporto dell’Istat “descrive un paese che rischia di perdere il suo futuro perché la precarietà sociale frena fatalmente il desiderio di futuro”. E il dibattimento sulla genitorialità (è un dovere, un diritto, un piacere, un’utopia, una schiavitù?) riprende, in Italia e pure nel resto del mondo, dove il childfree rima sempre più spesso con ecologismo (e sì perché ci sono donne che non fanno figli per accelerare l’estinzione della razza umana da questo bel mondo che non merita più di abitare, e altre donne ancora che figli giurano di non farne fintanto che il governo dei loro paese non s’impegna in modo concreto per la salvaguardia del pianeta).


Scopriremo, magari, che siamo attraenti anche malandati e malvestiti e che più siamo noi stessi e per noi stessi, più piacciamo all’altro


 

E se Recalcati avesse torto? E se il risveglio del desiderio fosse già in atto e la sconfortante débacle demografica non fosse esclusivamente il segno di una parabola depressiva? Per riaccendere la nostra parte desiderante nessun momento potrebbe essere più propizio di questo. Ora che circoliamo ingrassati, imbruttiti, ineleganti, in casual friday per tutta la settimana, domenica inclusa, ora che siamo spartani e agresti non per ideologia ma per convenienza, per piacere personale, per pragmatismo, persino per evoluzione.

 

Abbiamo desiderato desideri indotti. Ci metteremo in ascolto del nostro istinto, imbastardito e rintronato da decenni di capitalismo che ci ha esortati alla soddisfazione perpetua di bisogni e voglie che ci istillava e che non nascevano dentro di noi, ma fuori di noi? Uno studio della University of South Wales, ripreso da The Conversation, ha rilevato che nel dating online le donne stanno diventando sempre più selettive, mentre gli uomini no, le loro papabili sono sia incantevoli e promettenti che brutte e mediocri: possiamo (dobbiamo?) leggere questo dato col beneficio della congiuntura, pensare che l’incertezza rende l’uomo affamato e la donna inappetente, pensare soprattutto che potrebbe trattarsi di un risultato che dice una e una cosa soltanto, e cioè che le donne sono in pausa, stanno rivalutando tutto, dal reggiseno al tipo d’uomo che vogliono accanto a cosa sognano di realizzare.

 

Lisa Taddeo, nel suo “Tre donne” (Mondadori), scrive a un certo punto che le donne “fingono di desiderare cose che non desiderano affatto, in modo che nessuno si accorga che non ricevono ciò di cui hanno bisogno”, e lo fa nell’introdurre un libro sul desiderio femminile, che ha scritto attraversando gli Stati Uniti negli ultimi otto anni.

 

Una passa una vita a pensare di volere moltissimo una famiglia e poi invece si rende conto che sono quelli intorno a lei che vogliono che lei la voglia: e lì cominciano i guai, s’avviano le avventure, si spalanca l’abisso e si può decidere se calarcisi dentro, e magari ritrovare le proprie voglie, oppure evitarlo e accontentarsi di inseguire ciò che si viene portati a seguire, sposare una donna accomodante, innamorarsi di un uomo intransigente, laurearsi in Giurisprudenza, suonare l’ukulele, rinunciare al maschio che non piace alle proprie amiche.

 

La seduzione, il corteggiamento, l’amore romantico: sono tutti costruiti, in larga parte, su desideri che nessuno desidera davvero e dalla capacità di soddisfare i quali, tuttavia, si è sempre misurata la nostra adesione a un’identità precostituita, che fosse perfettamente coincidente con un genere. Secondo la filosofa Ayn Rand, i desideri non sono mai strumenti cognitivi: ne “La virtù dell’egoismo” scrive che “non rappresentano una norma di valore accettabile, né un criterio valido per definire gli interessi umani: il semplice fatto che un uomo desideri qualcosa non costituisce una prova che l’oggetto di tale desiderio sia buono, né che soddisfare tale desiderio sia nel suo interesse”.


Per riaccendere la nostra parte desiderante nessun momento potrebbe essere più propizio di questo. Un casual friday perpetuo 


Quando la cugina di Barry Lyndon (del “Barry Lyndon” di Kubrick, naturalmente), che sa benissimo quanto lui la ami, almeno quanto lui sa che da quel suo amore lei non ha che da cavare guai, s’infila un nastro nella scollatura e gli chiede di cercarlo, Barry si rifiuta (cederà poco dopo) perché lo sa: il suo desiderio non corrisponde col suo bene, e men che meno con il bene di lei. Noi che appaghiamo desideri che non desideriamo davvero, quindi, commettiamo un errore doppio, ci facciamo del male due volte, ed è anche per questo, forse, che siamo continuamente inappagati, e per decenni abbiamo riconcorso, vestito dopo vestito, bene mobile o immobile dopo bene mobile o immobile, una soddisfazione che mai avremmo potuto provare, semplicemente perché non ci riguardava davvero.

 

Maria, la protagonista di “Mio signore” di Barbara Alberti, s’innamora di un buzzurro balbuziente, ignorante, gretto, volgare, puzzolente, e si convince che in lui si sia incarnato Gesù Cristo, e glielo dice: “La vostra prima incarnazione era stata una passeggiata, in confronto: comodo, Cristo! Che gli è costato? Era venuto al mondo bello, longilineo, pieno di discepoli e gloria. Ma incarnarsi oggi, in Fenestriero Andrea, ignoto e non abbiente grassone, è un sacrificio senza pari. Stavolta siete l’ultimo degli ultimi, uno di quelli che non andranno mai alla televisione”.

 

Perderemo la testa per uomini e donne adatti a Zoom e inadatti alla tv, reali e non realistici, liberati da balconcini, guaine, divise, copioni, ruoli, armi. Ci troveremo lungo il fiume, che suoniamo una foglia di fiore e cantiamo parole leggere, parole d’amore, e assaggeremo le nostre labbra di miele rosso rosso e ci diremo tu dammi quello che vuoi, io quel che posso. Ci ameremo, denudati di progresso ed eccesso, in decrescita di bisogni e ricrescita di istinti.

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