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La dipendenza da Fortnite vi preoccupa? Non esagerate, genitori

Raffaele Alberto Ventura

Il videogioco è solo un’attrazione fatale che renderà i vostri figli un po’ musoni e troll

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Con 250 milioni di giocatori in tutto il mondo, Fortnite è uno dei videogiochi più giocati del mondo. E uno dei più immersivi: un terzo dei giocatori vi passa oltre 11 ore settimanali. Lo sanno bene i genitori di figli dagli otto anni in su – anche se il gioco sarebbe sconsigliato ai minori di 12 anni. Malgrado l’assenza di sangue e l’estetica spesso caricaturale, la principale modalità di gioco è una “battle royale” per la sopravvivenza in un mondo post-apocalittico, metafora incisiva del nostro mondo iper concorrenziale. I dilemmi dei genitori sono gli stessi dai tempi di Mortal Kombat e Doom: tutta questa violenza virtuale non avrà qualche effetto sul comportamento reale? Ma nell’ultimo trentennio il confine tra virtuale e reale si è ancora assottigliato: primo perché giochi come Fortnite permettono di spendere soldi reali nel mondo virtuale, per comprare accessori e skin, e secondo perché la modalità multigiocatore include una chat attraverso la quale l’utente viene catapultato in un ampio e incontrollato spazio di socializzazione. Nel frattempo, come ha raccontato l’Economist della settimana scorsa, il giro degli e-sport è diventato miliardario e si candida a sostituire gli sport “reali”: qualche gamer ci guadagna, proprio come uno sportivo di livello, e milioni di altri sperano di farlo. I videogiochi non sono più soltanto un divertimento ma “qualcosa a metà tra uno sport e una rete sociale”.

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Con 250 milioni di giocatori in tutto il mondo, Fortnite è uno dei videogiochi più giocati del mondo. E uno dei più immersivi: un terzo dei giocatori vi passa oltre 11 ore settimanali. Lo sanno bene i genitori di figli dagli otto anni in su – anche se il gioco sarebbe sconsigliato ai minori di 12 anni. Malgrado l’assenza di sangue e l’estetica spesso caricaturale, la principale modalità di gioco è una “battle royale” per la sopravvivenza in un mondo post-apocalittico, metafora incisiva del nostro mondo iper concorrenziale. I dilemmi dei genitori sono gli stessi dai tempi di Mortal Kombat e Doom: tutta questa violenza virtuale non avrà qualche effetto sul comportamento reale? Ma nell’ultimo trentennio il confine tra virtuale e reale si è ancora assottigliato: primo perché giochi come Fortnite permettono di spendere soldi reali nel mondo virtuale, per comprare accessori e skin, e secondo perché la modalità multigiocatore include una chat attraverso la quale l’utente viene catapultato in un ampio e incontrollato spazio di socializzazione. Nel frattempo, come ha raccontato l’Economist della settimana scorsa, il giro degli e-sport è diventato miliardario e si candida a sostituire gli sport “reali”: qualche gamer ci guadagna, proprio come uno sportivo di livello, e milioni di altri sperano di farlo. I videogiochi non sono più soltanto un divertimento ma “qualcosa a metà tra uno sport e una rete sociale”.

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Gli adulti possono legittimamente preoccuparsi del fatto che le nuove generazioni vivano una parte crescente della loro vita attraverso un’interfaccia digitale, ma avranno qualche difficoltà a spiegare in cosa questo sia diverso dalla loro massiccia presenza sui social network o dagli acquisti impulsivi su Amazon. Ci provò un paio di anni fa Carlo Calenda: ma la sua denuncia dei videogiochi appariva inefficace da parte di un politico-influencer impegnato in una quotidiana “battle royale” su Twitter, in un mondo indubbiamente post apocalittico e caricaturale come quello della politica italiana. Calenda proprio come i tanti giocatori di Fortnite cercano attraverso il virtuale di produrre degli effetti nella realtà: che siano gratificazioni istantanee o guadagni reputazionali, in un modo o nell’altro quello che accade dietro lo schermo si ripercuote nella vita vera – e in un certo senso è già vita vera. La comunicazione politica si è già interamente spostata sui social. Secondo Alessandro Baricco è l’intera nostra realtà a essersi trasformata in Game, dissolvendo di fatto il confine tra virtuale e reale.

 

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Rassicuriamo le mamme e i papà: tutti gli studi sull’influenza dei videogiochi concordano nel ritenere che la pratica videoludica non ha effetti visibili sulla violenza. Il più recente e completo è stato condotto all’università di Oxford e pubblicato su Royal Society Open Science (“Violent video game engagement is not associated with adolescents’ aggressive behaviour: evidence from a registered report”). Tuttavia gli autori dello studio si lasciano scappare un commento che attira l’attenzione su un elemento marginale della pratica videoludica: “A margine nelle comunità di gaming si osservano casi di comportamento antisociale come trash-talk, trolling e competitività”. Come sollevato esplicitamente dalla stampa americana negli ultimi anni, gli spazi sociali del gaming hanno fatto da sostrato alla costituzione di specifiche subculture legate all’alt-right americana. 

 

Ed è proprio verso certi forum di videogiochi che bisognerebbe sporgersi per osservare i segnali deboli delle trasformazioni sociali di domani, i nuovi linguaggi che prendono forma e i temi politici che emergono; qui si diffondono teorie cospirazioniste e prolifera il risentimento sessista dei cosiddetti “incel” (involuntary celibate, eterosessuali non praticanti). E nelle chat di Fortnite? Anche su questo alcuni analisti hanno espresso le loro preoccupazioni, come nota sempre l’Economist.
Subito dopo la strage di Christchurch in Nuova Zelanda, Lorenzo Fantoni su Popcore.it definì l’attentatore come uno “shitposter col fucile, un terrorista-troll calato nel suo tempo che fa ciò che fa non come gesto di follia improvvisa, ma come atto finale di un lungo percorso iniziato in qualche sottogruppo alt-right”. Da attento osservatore della realtà videoludica Fantoni mostrava anche come l’evidente riferimento all’estetica degli “sparatutto” nella scelta dell’attentatore di filmarsi mentre eseguiva la strage non segnalasse una specifica influenza ma il fatto che quell’estetica fosse ormai un patrimonio universale e condiviso. E’ cosa nota che alcuni stragisti bianchi degli ultimi vent’anni — dagli studenti della Columbine nel 1999 e passando Anders Breivik nel 2011 — si sono “allenati” a sparare sulla console di casa giocando a Doom o Call of Duty. Tuttavia, la rilevanza statistica di questi fenomeni è trascurabile: la proporzione di gamer che passano all’atto è infima. Milioni di persone nel mondo si divertono a giocare alla guerra senza fare male a una mosca, e così probabilmente sfogano, invece che alimentare, i loro istinti aggressivi: si parla in questo caso, citando Aristotele, di effetto “catartico”. Quando la catarsi non opera, il videogioco fornisce tutt’al più una cornice estetica all’atto criminale. 

 

(una competizione dal vivo di Fortnite, foto Unsplash)

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Le strade che portano dal virtuale al reale sono sempre indirette, eppure esistono. Basti pensare al modo in cui i videogiochi vengono utilizzati per il reclutamento militare. Negli Stati Uniti l’esercito aveva aperto nei centri commerciali delle vere e proprie sale giochi (“Army Experience Center”) offrendo la possibilità di arruolarsi sul posto. Mentre da parte sua il gruppo Stato islamico aveva diffuso in rete vari mod che permettevano di interpretare un martire di Allah in giochi come Grand Theft Auto V o ARMA III. E quando apprendiamo che il creatore di Call of Duty è stato assunto dal Pentagono per “immaginare le guerre del futuro”, possiamo seriamente chiederci se il confine tra videogioco e realtà sia davvero così netto. A cavallo dell’anno 2000 andava di moda la realtà virtuale: Hollywood vi aveva dedicato un pugno di film di successo, dal “Tagliaerbe” a “Johnny Mnemonic”, nelle sale giochi apparivano dei caschi che proponevano deludenti esperienze di immersione videoludica, mentre da parte sua San Carlo aveva giustamente pensato di mettere in commercio delle patatine chiamate proprio Virtual in virtù della loro forma tridimensionale. Erano anche gli anni in cui alcuni di noi cominciavano a frequentare degli “amici virtuali”, via IRC e newsgroup, tenendo la cosa ben riservata per non destare il sospetto di essere persone senza una vera vita sociale. Oggi non solo nessuno parla più di realtà virtuale ma è considerato del tutto naturale conoscere amici ed amori online. Tutta la nostra esistenza professionale, affettiva, ludica e commerciale passa ormai dallo schermo del computer (o dello smartphone) com’è apparso tanto più evidente durante il lockdown. Distinguere il virtuale dal reale è sempre più difficile, perché se virtuale è un gioco online allora lo sono anche il lavoro, il linguaggio e la nostra vita affettiva. La domanda semmai è se siamo attrezzati per orientarci in questo nuovo mondo dematerializzato.

 

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A meno che non si sia ancora andati oltre: il virtuale si sta mangiando il reale, diventando più reale del reale. Dietro uno schermo si decide la politica e l’economia, si fanno soldi e ci si radicalizza. E in questo caso si tratterebbe della conferma più estrema della profezia di Guy Debord sul mondo che diventa spettacolo, allontanato in una rappresentazione attraverso una serie di mediazioni tecniche. Ma siamo in grado di misurare tutte le conseguenze di queste trasformazioni?

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