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Va’ all’inferno Lombardia

Maurizio Crippa

L’odio per la propria terra andrebbe lasciato ai Gadda e agli Arbasino, non alla cattiva digestione dei Saviano. La storia, il risentimento (di sinistra) per la ricchezza e l’industria, il grillismo e altro

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Io non so perché ma è dall’inizio del coronavirus che ho in mente questo meme, c’è Heidi quella del cartone animato giapponese che spinge la sua amica (poliomielitica) sulla carrozzina sul bordo di un burrone. Sopra hanno messo le parole. Heidi: “Di dove sei?”. Lei: “Milano”. “Taaac!”. E la butta di sotto. Rido sempre, come certe barzellette dell’asilo, l’ho whatsappata persino al mio amico medico di base. Non so perché. O invece sì. In fondo, nel giochino dell’asilo creato dai burloni dei social c’è tutto quello che stava accadendo e sarebbe accaduto, come esplosione di odio e rancore verso Milano e la Lombardia. Ma loro ci erano arrivati d’intuito, con l’ironia basica del luogo comune, e con qualche settimana d’anticipo sugli insopportabili tromboni dal metabolismo mentale lento come Roberto Saviano o Michele Serra. Per non dire di quell’arnese brutto di Christian Raimo, calembourista da bar che ha sputato su Twitter un “Milano da bare” nei giorni più tragici di Bergamo, e ne andava fiero.

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Io non so perché ma è dall’inizio del coronavirus che ho in mente questo meme, c’è Heidi quella del cartone animato giapponese che spinge la sua amica (poliomielitica) sulla carrozzina sul bordo di un burrone. Sopra hanno messo le parole. Heidi: “Di dove sei?”. Lei: “Milano”. “Taaac!”. E la butta di sotto. Rido sempre, come certe barzellette dell’asilo, l’ho whatsappata persino al mio amico medico di base. Non so perché. O invece sì. In fondo, nel giochino dell’asilo creato dai burloni dei social c’è tutto quello che stava accadendo e sarebbe accaduto, come esplosione di odio e rancore verso Milano e la Lombardia. Ma loro ci erano arrivati d’intuito, con l’ironia basica del luogo comune, e con qualche settimana d’anticipo sugli insopportabili tromboni dal metabolismo mentale lento come Roberto Saviano o Michele Serra. Per non dire di quell’arnese brutto di Christian Raimo, calembourista da bar che ha sputato su Twitter un “Milano da bare” nei giorni più tragici di Bergamo, e ne andava fiero.

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“La sciagura che ha colpito la Lombardia sia stata vissuta, da alcuni, quasi come una rivincita” (Raffaele Cantone)

Se n’è accorto anche Raffaele Cantone, un castigamatti, che qualcosa non andava: “A volte ho come l’impressione che esista un sentimento antilombardo e lo collego all’invidia verso questo pezzo di paese che sembra quasi un altro paese”. E che “la sciagura che ha colpito la Lombardia sia stata vissuta, da alcuni, quasi come una rivincita. Chi lo pensa non è altro che un piccolo uomo”. Non sarà un piccolo uomo ma non è nemmeno un gran pensatore Roberto Saviano, uno dei primi a scendere in campo scrivendo, sul Monde, che “il virus è arrivato a scoprire l’assoluta inadeguatezza di un approccio economicista e manageriale della cosa pubblica che caratterizza un territorio ricchissimo, nel quale il lavoro è un imperativo e la dimensione individualistica è accentuata fino al parossismo”. La paranza dei padroncini. C’è un retropensiero antico, il pregiudizio antropologico contro la città del successo e che va di fretta. Non lo scopriamo ora. C’è una battuta senza fonte certa ma che tutti attribuiscono a Enzo Biagi, e speriamo che non sia sua perché è mediocre: “A Milano tutto era regolato sul denaro. Nei bar dicevano ‘cappuccio’ per cappuccino, si risparmiava qualche sillaba”. Ai tempi di Tangentopoli. E’ un luogo comune sedimentato, un pilota automatico, che nei momenti bui si ripropone, come una cattiva digestione, in piccinerie di scrittura come quelle di Saviano o in moralità acide come quelle di Michele Serra, anche lui tra i primi: “Lavoro lavoro lavoro, il resto è solamente un impiccio”, sotto il cielo di Lombardia che è “una palude di smog”.

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La verità è che soltanto ai lombardi dovrebbe essere consentito scolpire odiografie per la propria terra, soprattutto se sono gran lombardi, grandi scrittori che ne conoscono le ubbie, la tigna, l’anima guardinga e giansenista. La inchiodano e ne rifuggono. “Che solitudine in questa affollata città rombante!” lo può dire di questa pianura un gran poeta come Clemente Rebora. Per odiare con cognizione di causa la sua (amata) Milano ci vuole la lingua e la furia di Gadda: “Milano è una brutta e mal combinata città; non occorre essere nati a Roma, né a Genova, per saperlo e per affermarlo. Ed è tale perché lo studio dei fatti e la discriminazione e la vigilanza del meglio e del peggio non hanno assistito alla crescita: come certe ragazzone dementi, venute su alla buona e nell’abbandono di tutti, a furia di polenta e di busse”. Certe sue elencazioni di cognomi, ridotti a puri suoni, sono un crescendo d’ira e disgusto che diventa plastica rappresentazione di una piccineria borghesotta e beghina: “I Lattuada, i Perego, i Caviggioni, i Trabattoni, i Berlusconi, i Bamberghi, i Dadda, i Frigerio, i Tremolada, i Cormani, i Ghezzi, i Gnocchi, i Gnecchi, i Recalcati, i Ghiringhelli, i Cavenaghi, i Pini, i Tantardini, i Comolli, i Consonni, i Repossi, i Freguglia. Coniugati tra loro, imparentati tra loro, associati tra loro”. E’ il “disegno milanese” di un funerale. Oppure ci vuole un Arbasino, uno appunto dei “nipotini dell’Ingegnere”, per massacrare, in Fratelli d’Italia il “caro puritanesimo lombardo pirlone della Controriforma, sotto il nasone menagramo del Sancarlone… La moralità familiare macabra da San Bernardino alle Ossa, andare a Canossa, scavarsi la fossa… La Divinità padana più arrabbiata e malevola non si spinge fin qui in Via Giulia perché si troverebbe malissimo né la farebbe franca con l’attivismo demente e le nostalgie per la Peste… Lei è contenta solo quando la gente si strapazza e s’affanna in giro per Milano”. “Morale della pirloneria”, perché sempre ai funerali siamo, noi lombardi, di questi tempi, “tirano fuori il mazzolin di fiori solo quando un povero disgraziato o disgraziata non ci sono più dopo una vita di merda, scrivono nelle partecipazioni sul Corriere che sono attoniti e increduli”.

 

La Lombardia borghesuccia e produttiva da decenni non è più così, anche se così sembra ancora scolpita nella memoria. Ma quale differenza di comprensione, di “cognizione del dolore” rispetto al malanimo retorico di oggi, quello che si avverte nei talk show o nei commenti da strada. Quella cosa per cui pure una scienziata come Ilaria Capua, stremata dalle troppe interviste, riesce a dire che “una delle migliori riforme di sanità pubblica che si possano fare è sistemare la rete dei treni che gira intorno alla Lombardia perché sono vecchi e sporchi. Molto probabilmente hanno contribuito a diffondere il contagio”. Benvenuti in Lombardia, lavatevi.

 

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“Milano è una brutta e mal combinata… come certe ragazzone dementi, venute su alla buona e nell’abbandono di tutti” (Gadda)

E’ vero che i lombardi se la sono cercata. Negli ultimi decenni Milano ha esportato di se stessa – oltre alla forza economica, alla grandeur europeizzante e all’aria da primi della classe – un’estetica un po’ caricaturale, bausciona: quasi per compensare inconsciamente, a furia di vocali larghe e simpatia grassa, l’invidia sociale che già covava. Quella che poi basta poco, e “taaac!”. Quarant’anni fa, a buttarla in barzelletta bastava un “tic!”. Quello del “Dogui” Nicheli in Vacanze di Natale, l’apoteosi pre-berlusconiana dell’imprenditore ganassa, modello lavoro-guadagno-spendo-pretendo: “Ivana, fai ballare l’occhio sul tic! Via della Spiga-Hotel Cristallo di Cortina: 2 ore, 54 minuti e 27 secondi. Alboreto is nothing”. Era il 1983. Poi sono venuti gli anni Novanta forcaioli e violenti, quelli di Milano, Italia, di Berlusconi e Bossi. Difficile nascondere che nel sentimento antilombardo di oggi (avete voluto la bicicletta…) covi ancora quell’opposizione ai ricconi delle fabbrichette che volevano anche il governo e ai barbari con le corna che volevano la secessione. Però, nel 2012, tirava ancora quell’aria da commedia all’italiana, lo stereotipo vernacolare in cui le rivalità ancestrali s’erano come assopite nel benessere. La risata bipartisan di Benvenuti al Sud - Benvenuti al Nord: “Solo a Milano fate il benvenuto e l’addio nella stessa cena. Per risparmiare tempo”.

 

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Come è potuto accadere che questo distanziamento sociale tra lombardi e resto d’Italia tenuto sempre a bada – meglio di quanto facciano i castigliani con i catalani – sia esploso in un rigurgito da cattiva digestione, in questo misto di odio e disprezzo? Che ha fatto scrivere ad Antonio Polito, gentleman partenopeo di casa in via Solferino: “Non so voi, ma la Schadenfreude nei confronti dei lombardi è una delle cose più rivoltanti che abbia mai visto nella mia vita”. Il berlusconismo e il leghismo d’antan non sono stati metabolizzati, e il sovranismo becero di Salvini, quello che cantava “senti che puzza…”, ha rianimato l’inimicizia. Ma c’è di più. La rabbia della pandemia ha fatto riemergere gli stereotipi di una sospettosità antica tra mondi diversi, che dura dai tempi del Principe di Salina. Incattivita, imbastardita e decerebrata da un decennio di grillismo-sovranismo, fatto di vaffa verso “l’élite”, le imprese che fanno i soldi all’estero, la Sanità dei privati e quindi dei ladri, le aziende che studiano vaccini e biotecnologie per farci ammalare meglio. C’è uno strano figuro che non nominiamo, che si produce i libri da solo ma è molto seguito sul web, al Sud, che ha scritto: “Il virus italiano è padano, per la precisione è lombardo: perché lì vi è stato il paziente uno. Il virus italiano è simile, non uguale, a quello cinese ed ama umidità ed inquinamento. Attraverso le particelle dello smog o le goccioline della nebbia si trasporta per vari metri e per lungo tempo”. Ma la nebbia non c’è più, da decenni.

 

L’anti industrialismo, la critica al nord di Gramsci, il meridionalismo trasformato in risentimento. E poi Berlusconi, Bossi e Salvini

E’ riemerso il rancore per la ricchezza, per il Meridione depredato. Non è solo il grillismo, il sentimento antinordista, anti-industriale e antiliberale vive ancora in interi segmenti del Dna della sinistra, inoculato fin dai tempi dei Temi della questione meridionale di Gramsci, che sosteneva che la borghesia politica del Settentrione, dopo l’Unità, avesse scientemente diffuso il virus del pregiudizio per il Sud come “palla di piombo della nazione”. Da molto tempo il nobile meridionalismo è scaduto nella riserva indiana della pura lamentela, e quale occasione migliore dell’emergenza sanitaria per denunciare la nuova ruberia, addirittura che “al ministero (della Sanità, ndr) c’è una banda che ha uno scopo fisso di portare i soldi del Sud al Nord”. Parola di Pino Aprile, fondatore del fantomatico Movimento 24 agosto - Equità territoriale. Sopravvive dentro molta sinistra il pregiudizio anti-industriale, sospettoso verso i dané, i capannoni, le partite Iva. Insomma sospettoso della Lombardia (e del Veneto, che però adesso va obtorto collo di moda) in quanto paese reale. Ed è il motivo per cui per la sinistra il Nord rimane una “terra ostile”, per dirla con un libro di Marco Alfieri di dodici anni, ancora assai attuale. O per farlo dire a Michele Serra, su Repubblica: “L’idea di interrompere la produzione è parsa, a confindustriali e padroncini, e probabilmente anche a molti salariati, peggio della peggiore delle stragi. Qualcosa di inconcepibile, che avrebbe messo fine a una corsa da sempre concepita come infinita… E il progressivo, inesorabile rimangiarsi il welfare e il concetto di ‘bene pubblico’, negli ultimi trent’anni in favore di un furibondo aziendalismo, trasformando in una voce di bilancio tutto, ma proprio tutto (la salute, l’acqua, l’istruzione, la vecchiaia) ha a che fare oppure o no con la monocultura del profitto che ha dettato il ritmo dello sviluppo in modo così diffuso e direi condiviso, dall’ultimo piano dei grattacieli al più remoto dei capannoni, dalle poltrone dei consigli di amministrazione al tornio e al muletto?”.

 

Poi è arrivata la fuga dei milanesi verso il mare, e sono diventati gli untori. Sono apparsi (per ridere, eh) i cartelli “non si affitta ai settentrionali” e tutto quel che si è messo a gorgogliare nelle pance della nazione. Fino ai “per colpa vostra siamo ancora chiusi”. Fino ai Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo che a Milano hanno scritto “Fontana assassino”, e il loro capoccia, che sta a Milano, ha pure rivendicato: “Incito all’odio? Ma 15 mila morti cosa sono? Incitamento a cosa?”.

 

Come si è passati dalla rivalità da commedia all’italiana di “Benvenuti al nord” al “Milano da bare” di un Christian Raimo?

Che poi Milano la splendida, the place to be, avesse già da tempo cominciato a rompere i cabasisi al resto degli italiani, coi suoi record a molti zeri, la sua attrattività che però “non restituisce”, coi suoi aperitivi al duecentocinquantesimo piano e la coazione a ripetere degli Instagram tutti uguali sotto al Bosco Verticale, questo è chiaro e sarà il prossimo problema. La fine di tutto quel “modello” che era la “Milano da exporre” di Beppe Sala, che adesso invece è costretto alle risse da cortile col governatore della Sardegna, “ce ne ricorderemo”. Eppure un uomo d’arte come Giancarlo Politi, critico e fondatore di Flash Art Magazine, ha scritto che invece: “L’aspetto che più mi fa riflettere in questi giorni, è il razzismo che si è scatenato nei confronti di Milano. E chi mi dice che il razzismo in Italia non esiste mi fa ridere. Tutta l’Italia è da sempre ossessionata da Milano e oggi questi razzisti scatenati, sull’onda del pur bravo Saviano, che con il Nord si è ingrassato, gongolano per i decessi (troppo pochi per loro) avvenuti a Milano, per fatalità ma soprattutto per errori politici e incapacità… In oltre 50 anni che vivo a Milano, sapete quanti milanesi ho conosciuto io in tutti questi anni di attività professionale, a volte anche frenetica? Quattro o cinque, forse sei… Tutte le altre migliaia di persone che ho frequentato e con cui ho collaborato, sono terroni come me… E’ Milano dunque la vera capitale del Sud”. Vaglielo a spiegare. Negli hard boiled di Sandrone Dazieri – uno che Milano la ama visceralmente anche se odia una certa Milano, e nel suo ultimo romanzo il suo detective, il Gorilla, è alle prese con la fake city di NoLo e piazza Gae Aulenti, del Bosco Verticale e del dopo Expo – si possono trovare battute che fulminano i pregiudizi così: “Ci sono stato, a Milano. Brutta città”. “Meglio Tirana, eh?”. Taaac!

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