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La Firenze di Giovanni Papini, senza forestieri, cerca idee e soldi

David Allegranti

Senza turisti, senza studenti americani, i fiorentini si ritrovano soli (in periferia e non in centro). Da dove ripartire?

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I torpedoni sui lungarni, stracarichi di turisti arrivati a consumare la Disneyland di un solo giorno, sono spariti. Il centro è vuoto, i fiorentini sono appena poco fuori, alle Cascine, piene come mai prima (o forse è solo il contrasto a fare la differenza), oppure in periferia. Negli alberghi non c’è nessuno. Nella trafficatissima via Panzani, mancano trolley e pendolari. A maggio sono state cancellate le prenotazioni del 99 per cento degli hotel della città metropolitana, a giugno il 91 per cento, a luglio il 77 per cento, dice Confindustria. Vuoto anche “The Mall”, nella vicina Reggello, dove gli autobus scaricavano visitatori asiatici a caccia di Gucci a sconto. Firenze città deserta. La Firenze degli Uffizi, delle università americane, ma anche la Firenze che vende gelati ad aria e pizze di cartone vicino Ponte Vecchio. “Si è rovesciato il senso della vita della città. Quel che è rimasto di vita urbana è nei quartieri”, dice al Foglio lo storico Zeffiro Ciuffoletti, che ieri s’è fatto quattro passi verso il centro, non trovando nessuno. “Prima dovevi bucare le frotte dei turisti arrivando dalla periferia, dove c’era un’aria più rarefatta. Adesso è il contrario. E’ il centro a essere un fantasma”.

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I torpedoni sui lungarni, stracarichi di turisti arrivati a consumare la Disneyland di un solo giorno, sono spariti. Il centro è vuoto, i fiorentini sono appena poco fuori, alle Cascine, piene come mai prima (o forse è solo il contrasto a fare la differenza), oppure in periferia. Negli alberghi non c’è nessuno. Nella trafficatissima via Panzani, mancano trolley e pendolari. A maggio sono state cancellate le prenotazioni del 99 per cento degli hotel della città metropolitana, a giugno il 91 per cento, a luglio il 77 per cento, dice Confindustria. Vuoto anche “The Mall”, nella vicina Reggello, dove gli autobus scaricavano visitatori asiatici a caccia di Gucci a sconto. Firenze città deserta. La Firenze degli Uffizi, delle università americane, ma anche la Firenze che vende gelati ad aria e pizze di cartone vicino Ponte Vecchio. “Si è rovesciato il senso della vita della città. Quel che è rimasto di vita urbana è nei quartieri”, dice al Foglio lo storico Zeffiro Ciuffoletti, che ieri s’è fatto quattro passi verso il centro, non trovando nessuno. “Prima dovevi bucare le frotte dei turisti arrivando dalla periferia, dove c’era un’aria più rarefatta. Adesso è il contrario. E’ il centro a essere un fantasma”.

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Uno così può “godersela senza turisti, come vogliono i talebani. A me però fa un po’ tristezza”, dice Marta, che prima lavorava in un negozio d’alta moda in centro e adesso è rimasta senza lavoro. L’emergenza sanitaria ha picchiato duro su Firenze, che s’è scoperta tardivamente fragile. Invero, non una novità. Lo aveva già detto il feroce ma giusto Giovanni Papini nel 1913: “Firenze ha la vergogna d’essere una di quelle città che non vivono col lavoro indipendente dei loro cittadini vivi ma collo sfruttamento pitocco del genio dei padri e della curiosità dei forestieri”. Ormai, diceva Papini, “non sappiamo fare altro. Metà dei fiorentini campa direttamente alle spalle degli stranieri e l’altra metà vive alle spalle di quelli che campano alle spalle dei forestieri. Se domani cambiassero i gusti e le simpatie di questi idioti francesi, inglesi, americani, tedeschi, russi e scandinavi che vengono a vedere Michelangelo, Giotto e Botticelli, la nostra città sarebbe rovinata. A Firenze, appena si sente un po’ più la miseria, si dice: ‘Quest’anno non c’è forestieri’”.

  

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I forestieri quest’anno non ci sono per davvero e i 380 mila fiorentini non bastano a soddisfare le esigenze di una città che accoglie 10 milioni di turisti l’anno. Non bastano a riempire i ristoranti, le gelaterie, le paninerie del centro svuotato di residenti da anni. Il sindaco Dario Nardella, arrabbiato con il governo perché dice che non dà un euro ai Comuni, ha rivolto un appello ai fiorentini ad aiutare il centro e le imprese “a tirarsi su. È il momento di venire in centro a fare una passeggiata, andare a mangiare in condizioni di sicurezza in un ristorante o a prendere un caffè in un bar”. Ha anche lanciato un progetto “Rinasci Firenze” per aprire la città ai privati, ai “mecenati”, li ha chiamati. Le perplessità non mancano.

  

“Secondo me Firenze va reinventata completamente”, dice al Foglio Mario Curia, presidente e fondatore di Mandragora, casa editrice fiorentina. Anche lui ha accusato molto la crisi. In tre mesi ha fatturato 15.600 euro, nello stesso periodo l’anno scorso erano 800 mila. Ha 20 dipendenti, tutti in cassa integrazione, ma in tre mesi nessuno ha ancora visto un euro. “Il problema è che il Comune sta subendo le pressioni dei soliti commercianti”, dice Curia, ai vertici di Confindustria Firenze. “Nel documento del Comune sul rilancio della città si parla di mettere i tavolini in mezzo alle strade, chiudendo alcune vie al traffico per i locali che non hanno abbastanza spazio. È davvero questo il futuro di Firenze? Nardella dice di essersi ispirato alla sindaca di Parigi, secondo la quale un cittadino deve trovare soddisfazione ai propri bisogni entro un chilometro e mezzo, da percorrere in 15 minuti a piedi. Questo può avere un senso a Parigi, ma non a Firenze, che in mezz’ora o quasi s’attraversa tutta”. Il vero problema, dice Curia, è che “non ci sono mai state un’idea e una volontà di città metropolitana. Tutto alla fine si risolve nel solito maledetto quadrilatero romano: il centro del centro del centro”. Quello che, appunto, oggi è vuoto.

  

Anche i giovani americani se ne sono andati. “Tra fine febbraio e inizio marzo la nostra università, così come tutte le altre università americane in Italia, ha dovuto rimpatriare gli studenti. Considerate le condizioni attuali, sia sanitarie che logistiche, molti campus americani in Italia hanno dovuto cancellare i programmi estivi e autunnali. Il nostro campus, ad esempio, riaprirà a gennaio 2021”, dice al Foglio Kevin Murphy, dean della University of New Haven Tuscany Campus, a Prato, campus satellite della New Haven in Connecticut. In giro la sera si vedono al massimo i giovani fiorentini. Ai Ciompi, a Sant’Ambrogio, in via Gioberti. Via Tornabuoni, patria del lusso da indossare, è vuota. “E Piazza Duomo fa tristezza”, dice Curia. Come un po’ tutta la città, che sembra quasi essere convinta che la crisi avrà un inizio e una fine, senza alcuna conseguenza di lungo termine: “Io sono positivo di natura, mai stato pessimista, ma penso invece che stiamo per entrare in un’altra fase. Il paradigma è cambiato e nessuno sa dove andremo. Anche in passato ci sono stati dei cambiamenti epocali, ma è sbagliato usare che cosa è stato fatto allora per le nuove scelte da prendere. Altro che tavolini in centro. Questa non è una città attrattiva e mancano le energie. Dobbiamo attirare giovani e cervelli. Prima c’erano i servizi avanzati, c’era il Centro Leasing, c’erano le banche, le assicurazioni, gli studi professionali grandissimi, i grandi architetti”. Oggi no, al massimo ci sono le università straniere, molte americane, ma vivono in una dimensione tutta loro.

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“Questa pandemia è una tragedia sanitaria, sociale, economica. Di fronte a questo, o ci si si spara o si impara”, dice il direttore degli Uffici Eike Schmidt: “Io sono del secondo avviso”. L’editore Mario Curia: “La città è da ripensare completamente”. Il sindaco Dario Nardella lancia il progetto “Rinasci Firenze”  


C’è l’Istituto Europeo a Fiesole, fra le colline dove un tempo i giocatori della Fiorentina compravano le case. Un posto meraviglioso, ma appartato. Il professor Ciuffoletti sul Corriere Fiorentino ha proposto di creare proprio all’Istituto un pensatoio per l’Europa post-covid, da fare in centro, vicino piazza San Marco. Un modo per portare in centro le migliori giovani menti che studiano lì e fanno i loro dottorati di ricerca. L’alternativa è continuare con quello che Firenze ha fatto per anni: il mangificio. “La pandemia ha provocato un disastro economico. Al tempo stesso ci ha messo di fronte a una verità a lungo sottaciuta o nascosta per mero interesse: il modello del centro a vocazione unica ha dimostrato tutta la sua fragilità oltre ad avere fatto danni gravissimi al tessuto urbanistico, sociale e culturale della città”, ha scritto Paolo Ermini in un editoriale sul Corriere Fiorentino. C’è dunque un problema di soldi, come denuncia Nardella, o di come è fatta la città? Il dubbio vedendo la Firenze di oggi viene. “Il mood è quello del pippobaudismo. ‘Firenze è la città che tutto il mondo ci invidia’. Ma non è così”, dice ancora Curia. E non è nemmeno un problema di fondi, il problema semmai è che servono regole e idee che favoriscano l’impresa. Io per aprire la mia sede ho dovuto aspettare quattro anni e fare 3 ricorsi al tar”.

  

Il problema, dice Ciuffoletti, è che Firenze, “una città impigrita dalle rendite di posizione, resterà sempre a vocazione turistica. È una città modellata da mezzo secolo e più sul turismo e non si può trasformare dall’oggi al domani. Casomai bisogna studiare il turismo di massa oggi e la sua organizzazione. E Firenze sta ferma se non ha idee. Se resterà bloccata nei suoi musei, la convergenza verso il centro sarà ineluttabile. A Parigi, quantomeno, hanno buttato a cento chilometri dalla città un pezzo di Louvre”. La città si è depressa non poco. Persino il giardino di Boboli, dove i ragazzi vanno quando fanno forca a scuola (ah già, ma le scuole sono chiuse), è rimasto semivuoto. Nel primo weekend di riapertura, quello del 22-24 maggio, ci sono stati oltre 2100 visitatori, considerati un successo ma in una tarda primavera di routine Boboli superava tranquillamente i diecimila visitatori. Due giorni fa, giovedì 28 maggio, quando ha riaperto Palazzo Pitti, ci sono stati appena 69 visitatori.

 

Gli Uffizi hanno perso in tre mesi di lockdown 12 milioni di euro. “Questa pandemia è una tragedia sanitaria, sociale, economica. Di fronte a questo, o ci si si spara o si impara”, dice al Foglio il direttore Eike Schmidt: “Io sono del secondo avviso e ritengo che questo stop forzato alle nostre vite costituisca l’opportunità giusta per cambiare i ritmi forsennati e disumani del turismo globale. Dobbiamo rallentare: fare meno viaggi ma più lunghi e intensi, come succedeva alcuni decenni fa. Bisogna dire basta al mordi-e-fuggi, al selfie-e-fuggi, alle corse di gruppo dentro musei bellissimi come anche il nostro, dove ci sono tante persone che si trattengono per meno di un’ora, fanno due foto davanti alla Venere di Botticelli o al Tondo Doni di Michelangelo e scappano. Bisogna rivedere e ripensare l’esperienza del museo e del bene culturale, in chiave slow, respirare la bellezza, godersela in relax”. Insomma, spiega Schmidt, “per dirla con le parole del famoso pittore svizzero Paul Klee: ‘Lo strumento più importante per capire un quadro è una sedia’. Un altro strumento per dare vita a questo turismo diverso è iniziare a credere davvero al principio, da tanti decantato, dell’Italia come luogo di bellezze diffuse nel territorio, da valorizzare”. Proprio per dare seguito a questa visione, dice il direttore degli Uffizi, “abbiamo aperto un dibattito: perché i musei statali non iniziano a restituire alcune opere alle chiese che originariamente le ospitavano? Questa sì che sarebbe una importantissima operazione di valorizzazione del patrimonio diffuso sul territorio. Gli Uffizi sono pronti: l’idea è di rendere la Pala Rucellai di Duccio di Buoninsegna, accolta nella sala di Giotto e Cimabue, al luogo sacro per cui era stata creata, la basilica di Santa Maria Novella”.

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