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E adesso, povera metropoli?

Federico Tarquini

Il lockdown e la città deserta, in attesa della sua “terribile esistenza sonora”. Ma ora, destati dal silenzio, abbiamo trovato un contesto totalmente mutato. La fase 2, la pianificazione dell’esperienza e la fine dei piaceri occasionali

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All’inizio degli anni Cinquanta la Rai aprì a Milano uno studio di “fonologia musicale”. In quella sede alcuni grandi musicisti dell’epoca sperimentarono nuove possibilità di trattamento del suono con le pesanti tecnologie elettroniche messe a disposizione dall’ente pubblico. Ne uscì un gran capolavoro: Ritratto di città (1955). Un esperimento di prosa radiofonica, condotto da Luciano Berio e Bruno Maderna, che con la scusa di creare una perfetta sintesi tra testo parlato e suoni prodotti in studio, impresse su disco un’eccellente rappresentazione dell’alba cittadina. Il ritratto si apre, appunto, con il risveglio di Milano, dopo che per la breve parentesi notturna il silenzio, in maniera quasi stupefacente, si era impossessato degli spazi urbani. Ritratto di città restituisce all’ascoltatore il senso di quell’attimo di sospensione. Il testo dell’opera, scritto da Roberto Leydi recita infatti così: “Per un minuto, o un’ora, o un secondo non importa, la città smarrisce, nel tacere inspiegabile di ogni voce, anche il senso, il peso e la dimensione della sua terribile esistenza sonora. Sul pulsare segreto e interiore del suo ritmo biologico, inarcata e tesa sin quasi a spezzarsi in ogni minima particella dell’aria, la città aspetta… un’altra giornata”.

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All’inizio degli anni Cinquanta la Rai aprì a Milano uno studio di “fonologia musicale”. In quella sede alcuni grandi musicisti dell’epoca sperimentarono nuove possibilità di trattamento del suono con le pesanti tecnologie elettroniche messe a disposizione dall’ente pubblico. Ne uscì un gran capolavoro: Ritratto di città (1955). Un esperimento di prosa radiofonica, condotto da Luciano Berio e Bruno Maderna, che con la scusa di creare una perfetta sintesi tra testo parlato e suoni prodotti in studio, impresse su disco un’eccellente rappresentazione dell’alba cittadina. Il ritratto si apre, appunto, con il risveglio di Milano, dopo che per la breve parentesi notturna il silenzio, in maniera quasi stupefacente, si era impossessato degli spazi urbani. Ritratto di città restituisce all’ascoltatore il senso di quell’attimo di sospensione. Il testo dell’opera, scritto da Roberto Leydi recita infatti così: “Per un minuto, o un’ora, o un secondo non importa, la città smarrisce, nel tacere inspiegabile di ogni voce, anche il senso, il peso e la dimensione della sua terribile esistenza sonora. Sul pulsare segreto e interiore del suo ritmo biologico, inarcata e tesa sin quasi a spezzarsi in ogni minima particella dell’aria, la città aspetta… un’altra giornata”.

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Ora che ci stiamo orientando con enormi perplessità nella fase 2 dell’emergenza Covid-19 è estremamente istruttivo tornare a questo radiodramma, non tanto per capire come saremo, quanto per comprendere dove siamo finiti. Per quasi due mesi siamo stati intrappolati in quei puntini di sospensione. “La città aspetta”, recita la voce narrante, ma cosa? Le paperelle ondeggianti sul lungotevere, le lepri giocose nei parchi milanesi, i cigni sul naviglio ticinese? No, la città aspetta la sua “terribile esistenza sonora”, i suoi abitanti, le sue macchine, i suoi eccessi, la sua ideologia, la sua modernità, insomma, aspetta sé stessa. L’opera di Berio e Maderna, se confrontata con il nostro gramo presente, rende il risveglio dal lockdown assai deludente. Chi abita nelle grandi città, sebbene si sia destato dal silenzio, ha amaramente trovato un contesto totalmente mutato. Lo spazio in cui vive non è più la “metropoli”, almeno nel senso complessivo, e complesso, che durante la modernità si è dato a questa definizione. Dal 4 maggio abbiamo osservato un po’ di traffico, udito qualche rumore in più, ma non abbiamo ritrovato la già menzionata “terribile esistenza sonora” della grande città. Tale circostanza non è certo di poco conto, se si considera il peso che questa forma urbana ha avuto nella storia globale degli ultimi due secoli. A pensarci bene, prima la sospensione e poi la netta trasformazione del vissuto metropolitano sembrano veramente fare epoca, ed è forse opportuno soffermarsi con una certa serietà su una transizione di simile importanza.


La grande letteratura ottocentesca, la fotografia, le dirette televisive, la cronaca giornalistica. Tutto questo grande patrimonio culturale non fa altro che raccontare i conflitti e l’adattamento degli individui e delle masse alla forma metropolitana, ai suoi ideali, al suo ethos. E non era solo un grigio opificio


 

Storicamente l’esperienza metropolitana si è espressa in forme sorprendenti. All’alba della sua era, il clamore delle macchine, l’immane grandezza e la rapsodia del movimento umano dovevano probabilmente apparire qualcosa di eccitante e spaventoso agli occhi dei suoi primi abitanti. Uno spaesamento che cogliamo, ad esempio, nella poesia A une passante di Baudelaire. “Fugitive beauté dont le regard m’a fait soudainement renaître, ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?”. La bellezza e il desiderio, alle condizioni dettate dalla metropoli, vivono e muoiono nell’istante dell’evento. Un tipo di esperienza cui si accede tramite lo sguardo, il colpo d’occhio, e che pertanto non si accumula, si può vivere solamente. Egualmente esemplari sono alcuni tratti della grande letteratura ottocentesca. Il favoloso Illusioni perdute di Balzac. L’uomo della folla di Poe. E poi il cinema delle avanguardie e quello di Hollywood, Metropolis di Lang e King Kong di Cooper. La fotografia, da Atgèt a Basilico. Le dirette televisive, la cronaca giornalistica. Tutto questo grande patrimonio culturale non fa altro che raccontare i conflitti e l’adattamento degli individui e delle masse alla forma metropolitana, ai suoi ideali, al suo ethos. Esemplare, in tal senso, fu l’enfatizzazione della vista come strumento fondamentale per creare percorsi esperienziali all’interno dello spazio urbano. Osservando il proprio orizzonte ognuno selezionava ciò che reputava pertinente ai propri interessi, ciò che gli piaceva, che lo intrigava all’interno del flusso ininterrotto d’immagini che si dipanava ai suoi occhi. Allo stesso modo, questa particolare esaltazione del vedere, influenzò il disegno e l’organizzazione di alcuni settori “pesanti” della vita collettiva. Il commercio, attraverso il dispositivo della vetrina, si adeguò ben presto a questa tendenza, cercando in ogni modo di “colpire” l’occhio distratto del passante. Da qui la pubblicità, e tutti quei processi comunicativi che in breve tempo arredarono lo spazio urbano in forme inedite. Paradossalmente, interi settori economici poggiavano su circostanze quotidiane fortemente episodiche ed effimere, come lo choc improvviso che potevamo provare alla vista di qualcosa che improvvisamente ci destava dai nostri pensieri. La sintesi di queste tensioni produsse così modi di essere, stili di vita, un certo modo di vedere il mondo, ma soprattutto una particolarissima norma d’intendere il piacere. La metropoli non era solo un grigio opificio. Ci si andava per passeggiare, per vedere, per visitare, per mangiare, per incontrare, per divertirsi, per perdersi, per trovare qualcosa. Nella metropoli non si cercavano solo beni necessari, non si andava solo per bisogno, bensì per vivere piaceri effimeri e, talvolta, inaspettati.

 

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Ecco, oggi l’esperienza dell’ambiente urbano sembra avere un connotato totalmente opposto. Ogni sortita nello spazio pubblico, nei limiti del possibile, è pianificata a priori. Mascherina, guanti, occhiali, il pensiero costante di non toccarsi il viso, di non esporsi a dei rischi. Un mantra ossessivo che ci accompagna quotidianamente. A ciò si aggiunge il dogma, doveroso e legittimo, del distanziamento sociale e la triste evidenza di spostarci solo per necessità e non più per piacere. Tutto ciò, di fatto, impedisce qualsiasi imprevisto significativo. L’esperienza della metropoli si è dunque trasformata in qualcosa di diverso rispetto al suo glorioso passato, giacché sembrano essersi modificate le sue condizioni fondamentali. La vita che si svolge al suo interno appare oggi incapace di generare quel piacere fugace sognato dagli ambiziosi e descritto, con diverse intenzioni, da letterati, registi, fotografi e altre tipologie di artisti e autori. Viene dunque da domandarsi cosa rimanga oggi dei modi di vita metropolitani. Continuiamo a vivere nelle grandi città ma come? Stiamo indugiando sul dubbio se riaprire o meno il paese, senza domandarci seriamente quanto e come, questo virus non abbia cambiato le “condizioni” dello stare insieme. Condizioni che, ahinoi, appaiono oggi totalmente inconciliabili con le forme tipiche dello spazio metropolitano, con il suo ethos.

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Come spesso accade, alcuni eventi mediali hanno la capacità di rendere evidenti i processi che stanno caratterizzando il nostro presente. La maniera in cui è stato trasmesso il concertone del primo maggio è un esempio quanto mai potente di ciò che sta accadendo: uno spettacolo musicale senza la presenza fisica del pubblico, sezionato in un mosaico fatto di luoghi connessi e integrati attraverso le reti digitali. Praticamente il primo grande evento metropolitano a trasfigurarsi nel suo ennesimo post. L’epifania di un tempo nuovo che si annuncia in maniera quanto mai grave e angosciosa: l’èra postmetropolitana. Per anni la maggioranza dei critici del digitale si è scagliata contro i suoi usi demoniaci. Un evento come l’ultimo concerto del primo maggio ha reso al contrario palesemente plastica la natura spaziale dei media e la loro facoltà di proiettarci, così come sosteneva già negli anni Ottanta Joshua Meyrowitz, “oltre il senso del luogo”. Il digitale è un ambiente differente dalla metropoli e, in quanto tale, c’impone la sfida di elaborare collettivamente nuove forme dell’abitare, possibilmente sostenibili. Pensiamo ai fenomeni scatenati dal web 2.0, ai social media, alla diffusione pervasiva dei dispositivi digitali portatili e a quanto questi si siano strutturati “oltre” le forme comunicative e culturali analogiche e generaliste. Negli ultimi dieci anni abbiamo sperimento la possibilità di fuoriuscire dalla dimensione spaziale e temporale del broadcasting, facendoci noi stessi costruttori di routine mediali. Abbiamo sapientemente riorganizzato il nostro vissuto dentro e fuori le reti, facendo coesistere organicamente la nostra vita online e quella offline. La metropoli e le reti digitali. E’ stata proprio questa faticosa clausura forzata a chiarire l’effettiva continuità tra questi due ambiti. Una volta venuta a mancare la possibilità di socializzare, studiare e di lavorare negli spazi urbani, queste attività si sono spostate sui nostri schermi, con buona pace di quanti reputavano urgente un ridimensionamento sostanziale dello spazio occupato dai media digitali nelle nostre esistenze. Se avessimo chiuso internet come sarebbero oggi le nostre giornate? I media digitali, giacché sono ambienti e non meri strumenti, ci hanno permesso di mantenere la trama delle nostre relazioni, svolgendo una funzione fondamentale per la tenuta della nostra società. Proprio quei dispositivi che per decenni sono stati additati come causa di asocialità e separazione dal mondo “reale” oggi ci offrono l’ultimo appiglio per salvare quel che resta della collettività.

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Quanti riflettono sul “dopo” dovrebbero tenere in considerazione l’attuale maniera penosa di vivere lo spazio pubblico e il contemporaneo potenziamento delle attività “da remoto”. E’ prioritario valutare questi processi non solo sul piano strumentale, ma anche sul versante della costruzione di nuove abitudini e sensi comuni 


Preso atto che la dicotomia tra reale e virtuale è una categoria interpretativa un po’ bollita, è necessario interrogarsi su cosa significhi interrompere il dialogo tra vissuto metropolitano e media digitali, su cosa comporti imbrigliare il primo dentro i cordoni della fase 2 e trasferire nei secondi un numero crescente di attività che in precedenza svolgevamo “offline”.

 

Fino allo scorso febbraio ognuno di noi era chiamato a miscelare, secondo i propri intendimenti, i frutti della propria esperienza metropolitana, tutta giocata nella tensione tra abitudine e imprevisto, con quelli della propria esperienza di utente digitale. Per sognare, si sa, sono necessarie basi reali. Così l’alluvione d’immagini, relazioni e contenuti che transitano sui nostri schermi digitali mantenevano un’origine nelle circostanze occasionali che la metropoli favoriva. Comportamenti e pratiche concretissime attinenti alla vita quotidiana di tutti noi – lavorare, mangiare, viaggiare, partecipare a un qualsiasi evento, ecc. – si rifrangevano nelle piattaforme digitali creando nuova socialità, nuove occasioni, nuovi conflitti e viceversa. Il sistema, a guardarlo oggi, funzionava, o comunque aveva dei suoi indubbi pregi. Dal 9 marzo siamo stati improvvisamente amputati della parte metropolitana della nostra esperienza. Difficile non costatare che ciò abbia comportato un impoverimento nelle nostre esistenze. Ugualmente arduo è sottrarsi all’urgenza di valutare in maniera seria i fenomeni che l’attuale pandemia sta scatenando nel nostro modo di vivere. Nei primi anni del Novecento alcuni geniali studiosi, fra tutti Georg Simmel, notarono quanto l’esperienza inedita e straniante di trovarsi faccia a faccia con uno sconosciuto in un tram attivasse particolari processi psicologici e comportamentali. Le peculiarità della metropoli, come ad esempio il trasporto pubblico, influenzavano la percezione umana favorendo la formazione di tutto un corollario di concezioni, credenze e stili di vita estremamente significativi per la sfera culturale, politica, economica ed estetica. Allo stesso modo, quanti oggi riflettono sul “dopo” dovrebbero tenere in altissima considerazione l’attuale maniera penosa di vivere lo spazio pubblico e il contemporaneo potenziamento delle attività “da remoto”. E’ prioritario valutare questi processi non solo sul piano strumentale, cioè se funzionino o meno, ma anche su quello esperienziale, ossia sul versante della costruzione di nuove abitudini e sensi comuni. Si può ad esempio costatare che tra la pianificazione minuziosa del nostro vissuto fuori casa – mascherina, guanti, distanziamento – e il tracciamento dei contagi attraverso applicazioni mobili, le famose “app”, esista una continuità concettuale. Entrambe poggiano sul principio della drastica riduzione dell’occasionalità. La portata delle questioni sollevate da “Immuni” non si esaurisce dunque nel solo campo delle norme e delle sue caratteristiche d’uso. Forse è giunto il momento di prendere coscienza che il tramonto del vissuto metropolitano e la successiva alba dell’èra postmetropolitana comportano l’istaurarsi, piaccia o meno, di nuove forme sociali poggiate sulla “normalizzazione” dell’esaurirsi di qualsiasi occasionalità imprevista. La dimensione postmetropolitana ha pervaso tutto il nostro quotidiano, ha salvato la nostra società e, allo stesso tempo, ci sta proiettando in una nuova èra. E’ estremamente urgente comprendere i suoi princìpi e le sue forme, almeno fino a quando non ci saremo riabituati ad andare al ristorante.

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