PUBBLICITÁ

Siamo rimasti a casa ma abbiamo conosciuto delle belle persone

Marianna Rizzini

Lo scienziato che ci ha messo in guardia e il medico che ci ha rassicurato. I sindaci, gli imprenditori, gli esperti che hanno tenuto la luce accesa nei giorni del Covid. Ritratti di una nuova classe dirigente

PUBBLICITÁ

Persone. Persone prima sconosciute o conosciute per motivi diversi. Persone che in qualche modo hanno fatto parlare di sé in questi mesi di lockdown: per le proprie idee o ricerche, per lo spirito di iniziativa, di adattamento o di resistenza. Qualcuno si è reinventato, qualcuno si è messo a disposizione, qualcuno ha cercato di trovare spunti per non soccombere al virus o per non deragliare durante la ripartenza. Ecco un piccolo atlante arbitrario.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Persone. Persone prima sconosciute o conosciute per motivi diversi. Persone che in qualche modo hanno fatto parlare di sé in questi mesi di lockdown: per le proprie idee o ricerche, per lo spirito di iniziativa, di adattamento o di resistenza. Qualcuno si è reinventato, qualcuno si è messo a disposizione, qualcuno ha cercato di trovare spunti per non soccombere al virus o per non deragliare durante la ripartenza. Ecco un piccolo atlante arbitrario.

PUBBLICITÁ

 

Andrea Crisanti

Lo scienziato che ha “risolto” il caso Veneto prima ancora che diventasse un caso. E la soluzione si chiamava: tamponi a tappeto

E’ lo scienziato che ha “risolto” il caso Veneto prima ancora che diventasse un caso. E la soluzione si chiamava: tamponi a tappeto. Questo ha fatto il virologo direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova – che all’Imperial College di Londra, prima di tutto questo, studiava le zanzare della malaria. E l’ha fatto nei giorni in cui un’Italia incredula e non ancora spaventata guardava da lontano le prime zone rosse (l’esperimento è ora oggetto di studio internazionale). Vo’ Euganeo è uno dei paesi colpiti a febbraio. Crisanti prende in esame la popolazione reale, e scopre, su 3.300 test, che gli asintomatici sono tantissimi, circa il 70 per cento, e che, vista la loro contagiosità, la ricerca serrata dei positivi è fondamentale. Il dato spinge la regione Veneto a puntare sulla campagna di tamponi, in modo da sapere prima dove il virus presumibilmente si sposterà. Funziona. La regione, vista improvvisamente come “la Corea del Sud italiana”, non si troverà mai nella situazione tragica della vicina Lombardia, e Crisanti continuerà a spiegare in tv e sui giornali, anche criticando le iniziali scelte dell’Oms, che il campionamento a tappeto è la vera arma di cui si dispone in attesa di farmaci e vaccino. Non ha un approccio consolatorio: “Bisognava dire la verità fin dall’inizio e non quindici giorni alla volta”, dichiara a un certo punto: “Si tratta di stare a casa due o tre mesi. La Nuova Zelanda ad esempio è stata chiarissima: quarantacinque giorni a casa, nessuno si muove. Gli italiani sono stati trattati da ragazzini. Ma è una questione di rispetto, e questa è una cosa seria”. Alla vigilia della fase 2 ha ripetuto che il vero problema, intanto, “è la ripartenza del virus”, prima che dell’economia, e che “bisogna avere un piano”, pena una lunga sequela di nuovi lockdown, e che se per la sicurezza bisogna rinunciare a un po’ di privacy ben venga. Ha diretto il centro di Genomica funzionale dell’Università di Perugia, e ha detto, a costo di essere impopolare, che per Lombardia e Piemonte, prima di riaprire tutto, forse aspetterebbe un po’ di più.

 

Giovanni Rezza

Medico con specializzazione in Malattie infettive e Medicina preventiva, è il nuovo direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, con esperienza lungo vari fronti passati, dall’Hiv/Aids, all’influenza H1N1 alla Chikungunya. A fine gennaio, quando ancora ci si concentrava sui voli dalla Cina e sui cittadini cinesi, dall’Istituto superiore di Sanità Rezza diceva parole che, ex post, avrebbero fatto molto pensare: “Il contatto con persone provenienti dalla Cina, come in questo caso, non si può escludere, anche se è ancora presto per sapere con che frequenza e in che condizioni questo possa avvenire. L’importante è essere pronti a reagire con le misure di isolamento per le persone infette e di ricerca e monitoraggio di altri soggetti eventualmente a rischio”. In questi mesi, dagli schermi televisivi (spesso da quelli di “DiMartedì”), ha avuto il ruolo di chi deve premere sul pedale “cautela” più che su quello “ottimismo”. Non cantiamo vittoria troppo presto, è il suo Leitmotiv. Docente, autore di libri e di oltre trecento pubblicazioni su riviste internazionali Rezza, in questi giorni di passaggio alla fase 3, indossa senza timore di essere impopolare i panni del grillo parlante: “Attenti all’effetto euforia e agli spostamenti in bus”, dice; “il virus morirà a giugno? Non credo. Alcuni colleghi hanno il dono della preveggenza, se accadrà faremo festa”, ribadisce; “dobbiamo essere bravi”, ripete, esortando i cittadini a vigilare prima di tutto su se stessi. Dice anche cose non gradite all’opinione pubblica, tipo “la decisione sulla serie A resta delicata”, facendo insorgere i tifosi di ogni ordine e grado. Adotta un “so di non sapere” ponderato: non sappiamo quale sia l’anello debole, dice, e “lo scopriremo. Aver puntato sulla riapertura per gradi renderà più facile l’identificazione delle criticità. Ci sarà un monitoraggio costante, giornaliero. Capiremo se la gente ha compreso il senso di questo allentamento”. Se gli indicatori tornassero a salire, è il concetto che Rezza espone così com’è, senza addolcire, saranno necessarie altre chiusure: e un ritorno al lockdown nazionale, è il suo ammonimento, “sarebbe disastroso”.

 

PUBBLICITÁ

Franco Locatelli

PUBBLICITÁ

Tragico e assieme ottimista, il “professore” si è conquistato un posto nel cuore delle anime smarrite nell’autoisolamento

Presidente del Consiglio superiore di Sanità, onco-ematologo e primario esperto di terapie cellulari all’ospedale Bambino Gesù di Roma, docente alla Sapienza, originario della Bergamo piegata dal Covid, è diventato suo malgrado uno dei volti più riconosciuti del periodo di lockdown, con tanto di imitazione di Maurizio Crozza. Ma lui, Locatelli, l’uomo che compariva ogni giorno in tv accanto ad Angelo Borrelli, durante la conferenza della Protezione civile delle 18, il rito triste dei contagi e dei defunti, con la flebile speranza aggrappata attorno ai guariti, non ha mai cambiato tono: pacato, gentile (“permettetemi di dire” il suo intercalare più frequente), ricercato nell’eloquio (ormai celebre è la frase “non volevo scotomizzare la domanda”, ha detto a un giornalista, per rassicurarlo di non voler eludere il merito della questione). “Grazie per l’opportunità” (di spiegare qualcosa): erano queste le parole con cui Locatelli si presentava agli astanti nei giorni durissimi del picco epidemiologico, mentre la pandemia mostrava gli artigli al Nord e lui faceva notare indirettamente l’inutilità della polemica, in quel momento, sottolineando il rapporto “dialogico” tra politica e scienza. Fatto sta che Locatelli, in pochi giorni, conquistava le platee del web, diventando persino oggetto di culto con gruppi dedicati su Facebook e, come diceva su questo giornale in un’intervista a Carmelo Caruso, con garbo ne sorrideva (non lo sapeva, dell’esistenza dei fan, ma la cosa “non poteva non fargli piacere”). E insomma, nel modo e nel lessico di questo medico, figlio di medico e allievo del noto pediatra Roberto Burgio, c’è tutto l’uomo: quando Locatelli diceva “scenario applicativo” o “gestione intensivistica”, gli spettatori si sentivano improvvisamente rassicurati. Tragico e assieme ottimista (dell’ottimismo cauto della scienza), non settario, non fondamentalista dello scontro tra misure e contromisure, il “professore”, così è stato subito soprannominato, si è conquistato un posto nel cuore delle anime smarrite nell’autoisolamento.

PUBBLICITÁ

 

Matteo Bassetti

L’uomo che in un giorno d’inizio pandemia ha detto la frase “siamo medici, non critici d’arte” contro i tuttologi sparsi tra web e tv

E’ il direttore del dipartimento Malattie infettive del San Martino di Genova, presidente della Società italiana di terapia anti-infettiva, ormai volto noto al pubblico televisivo per il suo approccio pragmatico e non terroristico. Anzi: Bassetti ha proprio detto, un paio di settimane fa, che “il clima di terrorismo” gli sembrava “esagerato” e che c’era spazio per la speranza: i reparti stanno tornando alla normalità, il virus sembra aver allentato la sua morsa. Laureato a Genova, post-doctoral fellowship in Malattie infettive alla Yale University a Hew Haven, negli Stati Uniti, Bassetti è stato, dal 2011 al 2019, direttore della Clinica Malattie infettive dell’Azienda sanitaria universitaria integrata di Udine. E’ l’uomo che in un giorno d’inizio pandemia, a “L’aria che tira”, su La7, ha detto la frase “siamo medici, non critici d’arte” contro i tuttologi sparsi tra web e tv. Ed è l’uomo che recentemente ha smentito, dopo la forte esposizione mediatica di questi mesi, di voler scendere in politica: “In questa fase della mia vita non ne ho alcuna intenzione”, ha scritto in un post su Facebook. “Stiamo per entrare in una fase importante della lotta al Covid-19 e, in attesa di farci trovare pronti, ci tengo a puntualizzare un aspetto: sono follemente innamorato del mio lavoro”. Ha combattuto su ogni schermo la battaglia contro l’improvvisazione scientifica (della serie: siamo tutti medici come prima eravamo tutti politici o tutti allenatori di calcio). Specie sui paragoni tra Covid-19 e influenza: “L’influenza pandemica del 2009 fu una brutta bestia, oggi è presto per dire quale sarà il tasso di letalità del coronavirus”, diceva Bassetti, sempre durante un collegamento con Myrta Merlino: “Quando avremo la mappa di tutti i casi registrati nel mondo, con indagine di siero-prevalenza, potremo fare paragoni”. E a chi, ospite nei vari programmi tv, parlava senza cognizione di causa di uso dell’eparina per i problemi circolatori causati dal virus, “come se i medici non avessero capito”, rispondeva senza alcun velo diplomatico: “Veramente noi la usiamo dal primo giorno. E lo sappiamo dal primo giorno. Mi stupisco di sentirmi dire come devo lavorare su un mio paziente da gente che fa un altro mestiere”.

 

Francesco Passerini

Il 22 febbraio il Basso Lodigiano è precipitato nell’abisso che il sindaco descriverà con le parole: “Sentirsi abbandonati in un cimitero”

Sindaco di Codogno, il paese dove tutto è cominciato, e dove la “zona rossa” è diventata per la prima volta realtà. Guardavamo Codogno da fuori, attoniti, pensando forse: speriamo non capiti mai a noi. Non uscire di casa? Fare come a Wuhan? Parevano concetti astratti, terribili e astratti. Nella notte tra il 21 e il 22 febbraio a Codogno si è registrato il primo malato in ospedale, e da quel momento il Basso Lodigiano è precipitato nell’abisso che poi il sindaco descriverà con le parole: “Sentirsi abbandonati in un cimitero”, con le sirene delle ambulanze come unico suono a scandire le giornate. “Siamo stati i primi, appunto”, dirà poi Passerini al Corriere della Sera, “e forse per questo facciamo meno fatica a metabolizzare i divieti che sono venuti dopo per gli altri”, e cioè per i cittadini di tutta Italia dopo l’estensione del lockdown. La scelta più difficile, diceva all’inizio di marzo, è stata quella di chiudere il cimitero, “privando tanti della possibilità di salutare i propri cari”. Eletto nel 2016 alla testa di una coalizione di centrodestra, in un’altra stagione politica e soprattutto in un mondo dove mai ci si sarebbe potuti immaginare quello che sarebbe accaduto alla fine dell’inverno 2020, il trentaseienne Passerini racconta lo sgomento collettivo con orgoglio: “Non c’è stato un solo cittadino che sia venuto a protestare o a lamentarsi di qualcosa. Eppure di difficoltà ne abbiamo avute”. Poco prima di Pasqua, allo scadere dei primi cinquanta giorni di lotta al virus, esortava i concittadini “a resistere e ad andare avanti. Siamo riusciti a contrastare un’ondata devastante che avrebbe potuto travolgere il territorio. I primi giorni, i numeri erano impressionanti. Io una cosa del genere non l’ho vista neanche in un film dell’orrore. Non dimenticherò mai: ambulanze avanti e indietro, da tutte le parti della Lombardia, sembrava la A1 delle ambulanze. Se avessero bombardato, non avremmo visto forse questo effetto angoscia che non auguro a nessuno. Ma sicuramente, ne usciremo”. Era un wishful thinking, e, alla vigilia della fase 3, si spera possa essere presto realtà.

 

Emilio Dal Bono

Sindaco della Brescia martoriata come Giorgio Gori è sindaco della Bergamo martoriata, e come Giorgio Gori sindaco di centrosinistra in una regione a trazione leghista, Emilio Dal Bono si è trovato, due mesi fa, a dover gestire quello che ha chiamato “il nostro undici settembre”. Rieletto nel 2018 per un secondo mandato, mai avrebbe pensato di trovarsi al centro del ribaltamento di un mondo. “Non ti puoi rendere conto davvero finché non ti cade addosso questa realtà”, ha detto a questo giornale, parlando “di numeri con cui non vorresti mai dover avere a che fare”, “di amici e parenti che stanno male, malissimo”, di medici stremati che “solo grazie alla grandissima abnegazione sono potuti andare avanti”. “Cambierà per sempre la nostra antropologia, il nostro modo di pensare”, diceva, mentre lanciava un pensiero al dopo: “Che la Leonessa si sollevi presto”. E pensare che, nel maggio 2018, aveva fatto da eccezione in un quadro nazionale difficile per il centrosinistra: 53,9 per cento al primo turno (e al secondo mandato). “Ma non esiste una ricetta magica esportabile”, diceva. “Anzi: il lavoro duro di cinque anni ha dato un buon risultato. L’importante è il metodo: umiltà, ascolto, essere poco salottieri”. Noto per essere frugale con le sue cene a patate lesse e verdure insipide, già parlamentare per il Pd (ex Margherita), di famiglia non politica e non radical-chic, ma molto addentro alla tradizione della catto-sinistra bresciana di Mino Martinazzoli, è un domatore di troll sul web. “Emilio lascia perdere”, gli dicono i collaboratori. Ma lui non demorde. A Brescia ha fatto quello che altrove al Pd non è riuscito: bloccare i Cinque stelle, arginare Matteo Salvini. Abbiamo vinto “perché non siamo stati arroganti”, diceva all’indomani del voto, “ma anche perché non siamo stati buonisti e abbiamo preso decisioni. Siamo stati un’offerta convincente”. E mentre Brescia soffriva, c’era chi, tra i bresciani, si rifugiava nel ricordo dei fasti di qualche anno fa, sempre con Del Bono sindaco: anni in cui orde di turisti accorrevano per l’installazione dell’artista Christo sul lago d’Iseo e per le sculture di Mimmo Paladino in piazza a Brescia. E sembrano memorie da un’altra dimensione.

 

Laura Valente

Il museo da subito, in marzo, si è fatto avanti online con Madre door-to-door, un programma digitale per “l’arte a domicilio”

Presidente del Museo Madre di Napoli (miglior presidente di museo d’Italia secondo la rivista Artribune), giornalista, specialista nel settore delle imprese culturali e delle performing arts, a inizio anno, prima che il virus piombasse a scombinare vite, mentalità e piani, raccontava come sarebbe stato il 2020 del museo, tra progetti nazionali e internazionali e “confronti tra linguaggi e culture”. A pochi giorni dall’inizio del lockdown, è stata una delle prime, nel suo campo, a trasformare l’“io resto a casa” nazionale in occasione per rilanciare. Da subito, in marzo, il Madre si è fatto avanti on-line con Madre door-to-door, un programma digitale che porta “l’arte a domicilio”, articolato in tre filoni sul sito e sui canali social del museo, con possibilità per il “visitatore” di spaziare tra contenuti inediti pubblicati temporaneamente come eventi digitali, video-opere presentate in esclusiva, retrospettive, visione di alcune parti della collezione e “racconto” del museo, anche con playlist su Spotify per attrarre un pubblico giovane, pur se virtuale. All’idea di un “New Deal” per l’arte che proviene oggi dagli Usa e che si rifà al “salvare l’arte” dell’America degli anni Trenta, Laura Valente, intervistata dall’Espresso, ha opposto un’idea di New Deal che fa perno sulla comunità: comunità degli artisti, dei visitatori, del territorio (il Madre è al confine tra i quartieri Forcella e Sanità): “L’America salvò l’arte negli anni Trenta. Però Roosevelt non andrò a prendersi le star”, dice Valente, “ma si assunse la responsabilità di assumere sconosciuti”. Milanese trapiantata a Napoli, tre figli, Valente si sente prima di tutto un “civil servant” che ricerca l’inclusione sociale. Prima, cercando di portare il museo “fuori dalle sue mura”, anche attraendo fondi e “strutturando visioni economicamente strategiche”, come dice nelle interviste fatte in veste di manager della cultura. E poi puntando sulla nuova direttrice artistica del museo Katryn Weir, arrivata da poco e pronta, con lei, a ripensare la fruizione artistica nella fase 3.

 

Carolina Vergnano

L’idea di colazione nata durante il lockdown: il caffè al bar, sì, ma preso da un Ape. E il “piano d’uscita” dell’esperto di strategia aziendale

E’ l’erede (e manager) dell’omonima azienda Caffè Vergnano, nata circa 150 anni fa. Prima del lockdown, Carolina era considerata l’esempio di donna-imprenditrice (e madre di tre figli) che ripensa l’azienda di famiglia in chiave transnazionale, pur partendo dalla villa liberty di famiglia, quartier generale da cui tutto deriva anche oggi. Il fatturato era alto (96, 45 milioni nel 2019), l’azienda sosteneva anche progetti di charity “Women in coffee” per le donne nelle piantagioni di caffè, Carolina beveva troppe tazzine di espresso e organizzava la giornata alzandosi alle cinque, due ore prima dei suoi figli. Dopo il lockdown, come ha raccontato al Corriere della Sera, ha dovuto ripensare a ben altro: inizialmente spaesata e preoccupata, come il resto della sua famiglia, per aver dovuto ridurre l’attività negli stabilimenti e ricorrere alla cassa integrazione per una parte dei dipendenti, a un certo punto ha avuto un’idea in linea con il famoso detto “se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto”. Detto e fatto: se il cliente non può andare al bar, il bar ti arriva a casa (nella fase 2). E’ nata così, durante il lockdown, l’idea di colazione mobile che in molti, nelle città stralunate per il lungo confinamento, hanno salutato come possibile recupero “diverso” di un’abitudine: il caffè al bar, sì, ma preso da un veicolo Ape. Da Torino a Roma, l’Apecar, con macchina del caffè a bordo, porta la colazione a domicilio o sotto casa. E, vista l’incertezza sulla sicurezza nei locali al chiuso, Carolina Vergnano sta sviluppando l’idea in senso semi-temporaneo (dall’Ape al camioncino). Dopo il successo dell’iniziativa nei primi giorni di servizio, la manager, nata nel 1981, cresciuta con la convinzione di volersi occupare di quello di cui si occupa, perché da sempre il mestiere di famiglia le sembrava il “posto dove essere”, è diventata il simbolo della reazione creativa dell’ultima generazione di imprenditori allo choc da pandemia.

 

Zerocalcare

Non ha bisogno di presentazione, il trentaseienne fumettista romano Michele Rech alias Zerocalcare, autore di graphic novel-caso letterario, da “La profezia dell’armadillo” a “Dimentica il mio nome” (candidato al premio Strega 2015) a “Kobane calling”, libro in cui raccontava la sua esperienza con i curdi Rojava in lotta contro l’Isis, ora in nuova edizione. Ma, per una fascia di telespettatori, internauti, estimatori, fan e non fan, Zerocalcare, durante la quarantena, è stato semplicemente fattore di ironica e inattesa consolazione, specie nelle prime durissime settimane di lockdown quando, con la serie cartoon “Rebibbia quarantine”, dagli schermi di “Propaganda live”, su La7, o via condivisioni sui social, ha fatto vedere allo specchio e sorridere i neofiti dell’autoreclusione, fotografando graficamente tic e ossessioni della nuova e non voluta vita costretta fra quattro mura. Dalla sindrome della fila, tra paranoici della distanza, ottimisti della volontà e apocalittici cantori in romanesco del “questo nun finiscee” (il virus). Alla sindrome casalinga di chi “va in fissa con i ceci” alle tre di notte, si imbatte in wurstel al cardamomo mai mangiati prima, guarda documentari “interessantissimi” su come si lavano le balene, cambia umore ogni quindici secondi e si rende conto che “è tornato in auge un morbo che credevamo definitivamente debellato”, la telefonata (“te chiamano, te videochiamano, e nun poi neanche di’ che c’hai da fa’”, tanto o stai sul divano o stai cucinando o stai mangiando tutto quello che hai comprato durante l’ennesima uscita pretestuosa al supermercato). Di madre francese e padre italiano, nato ad Arezzo e cresciuto tra la Francia e il quartiere di Rebibbia, tra la periferia e lo Chateaubriand, il liceo dell’élite francofona a Roma, ma anche degli italiani “messi lì da famiglie danarose perché fa chic” (così il fumettista l’aveva definito sull’Espresso), Zerocalcare in quarantena ha reso per immagini la fatica del “reggere botta” ai confini dell’emergenza epidemiologica.

 

Giovanni Cagnoli

Bergamasco, esperto di strategia aziendale, presidente di Carisma (holding che detiene 14 aziende con oltre 300 milioni di fatturato e oltre 1.000 dipendenti) e fondatore di Bain & Company Italia, è stato uno dei primi a parlare di ripartenza in controtendenza temporale, e cioè fin dal 23 marzo, quando il lockdown era appena cominciato. Dal Corriere della Sera e da Linkiesta, suscitando immediato dibattito (compresi gli attacchi degli haters sui social), ha detto da subito chiara la sua idea, allora non popolare come oggi, ribadendo il concetto che “non si può lasciar morire l’economia per combattere il virus”, e che, a due settimane dall’avvio del lockdown, era “già tempo di decidere come uscirne”: “Il dibattito sul coronavirus continua a essere più emotivo che razionale e la comunicazione agli italiani ai limiti dell’offensivo”, scriveva, invitando ad “affrontare” i numeri e i dati, per quanto tragici, e a prendere decisioni sulla base di informazioni. Il “piano d’uscita”, diceva, va avviato subito e gestito in base alle informazioni via via disponibili. Il suo approccio realistico del “meglio prepararci alla realtà dei fatti” ha via via ottenuto più consensi (anche taciti). “E’ irrealistico pensare di ‘azzerare’ il contagio con l’isolamento”, era invece la frase che più gli attirava critiche. A cui Cagnoli rispondeva così: “Mio padre era un medico e diceva sempre che quando un medico prende una decisione rischia una vita. Quando si sbaglia il prezzo è terribile. La difesa degli operatori sanitari che prendono decisioni tremende ogni giorno è sacra. Leviamoci tutti il cappello in silenzio. Proprio per rispetto a loro e ai decessi dobbiamo fare bene le scelte per la ricostruzione”. E’ lui che ha proposto di differenziare la ripresa lavorativa dividendo la popolazione in fasce d’età, e che ha posto come obiettivo il primo settembre, un po’ wishful thinking un po’ esortazione: “Tutte le aziende e imprese italiane saranno vive e pronte alla ripresa come lo erano al 1° febbraio 2020. Tutti, nessuno escluso, costi quel che costi”.

 

Stefano Aversa

L’ex consulente di Sergio Marchionne che suggerisce “una chiamata alle armi per tutti: un modello di capitalismo allargato”

Presidente di AlixPartners per l’Area Europa, Medio Oriente e Africa, laureato in Ingegneria robotica e meccanica a Firenze, già consulente di Sergio Marchionne, esperto di ristrutturazioni aziendali, ha recentemente suggerito quella che ha definito “una chiamata alle armi per tutti. Un modello di capitalismo allargato”. Di che cosa si tratti lo ha spiegato lui, intervistato sul Corriere Economia da Massimo Gaggi: “Fin qui sono state adottate misure corrette per garantire liquidità al sistema e proteggere i lavoratori nel momento in cui il paese si è fermato”, ha detto: “Ora che si rimette in moto la macchina produttiva, però, serve molto di più: bisogna investire sul futuro del paese a partire dagli investimenti strutturali necessari per evitare la moltiplicazione delle crisi aziendali”. La sua idea è di seguire l’esempio di Norvegia e Singapore: costruire una società che investa nelle medie imprese sane, con liquidità da privati e incentivi pubblici. Intervenendo su base volontaria, dice, con l’1 per cento della ricchezza finanziaria degli italiani si potrebbe sostenere il sistema produttivo. Ci sono opportunità, è il concetto, ma servirebbe, subito, un atto di coraggio, “il coraggio mostrato dagli italiani dopo la Seconda guerra mondiale e una lungimiranza come quella che allora ebbe Luigi Einaudi”. Dopo la morte di Marchionne, intervistato da Class Cnbc, Aversa aveva ricordato l’ex ceo di Fca come una personalità enigmatica e da decifrare “come la stele di Rosetta”, e lo aveva descritto come cultore del rigore finanziario su investimenti e capitale. E se era vero, aveva detto, che tutti ricordavano di Marchionne “la capacità manageriale”, altrettanto incredibili erano, nello stesso Marchionne, la “capacità di introspezione” e la curiosità nel conoscere le persone, pari almeno alla rapidità nel giudicarle. Rapido era, l’ex ceo di Fca, anche nel prendere decisioni nei momenti di svolta, ed è la rapidità ciò che oggi Aversa consiglia al paese: aiutare ora, subito le imprese, per evitare, dopo la ripresa, pericolose ricadute.

 

Giorgio Armani

L’invito del grande stilista ai colleghi: “Questa crisi è un’opportunità per restituire autenticità e riallineare tutto”

Quanto è stato visionario negli anni d’oro della moda italiana, e icona-maestro di stile nel turbinio degli Ottanta e dei Novanta, tanto è stato anticipatore di esigenze e soluzioni nel disastro collettivo e improvviso del paese precipitato nell’emergenza della pandemia. Dopo aver donato due milioni di euro a favore della Protezione civile e degli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele, Istituto dei Tumori di Milano, Spallanzani di Roma e ospedali di Bergamo, Piacenza e Versilia, lo stilista, con il suo Gruppo, ha comunicato la conversione di tutti i propri stabilimenti produttivi italiani nella produzione di camici monouso destinati alla protezione individuale degli operatori sanitari impegnati a fronteggiare il Coronavirus. Non solo: il 15 aprile, dalle pagine della rivista Wwd (Women’s Wear Daily), ha invitato i colleghi a riflettere su “quanto sia assurdo lo stato attuale delle cose, con la sovrapproduzione di capi e un disallineamento criminale tra il tempo e la stagione commerciale”. Rallentiamo, scriveva, per restituire valore al nostro lavoro che, fatto così, è “immorale”. Questa crisi, era l’invito di Armani ai colleghi, “è un’opportunità per restituire autenticità e riallineare tutto. Io lavoro con i miei team da tre settimane in modo che, dopo il blocco, le collezioni estive rimarranno nelle boutique almeno fino all’inizio di settembre, come è naturale. Così faremo d’ora in poi”. Poi, come avvertendo nell’aria un’altra esigenza di riequilibrio, ha fatto il salto spazio-temporale copernicano per la moda: “E’ tempo di decisioni coraggiose, di fare di meno e fare meglio, servono strategie comuni e prudenza. Nell’attesa di tornare alla normalità, possiamo riflettere sugli errori cercando di costruire un futuro migliore. E a me piace far seguire i fatti alle parole. Perciò, dopo anni di Alta moda a Parigi, io riporto l’Alta moda a Milano, e spero che i colleghi seguano l’esempio”, ha detto in un’intervista alla Stampa. Aggiungendo: “Sarebbe un’ottima occasione per fare squadra, cosa in cui, finora, non siamo stati bravi come i francesi”.

Brunello Cucinelli, imprenditore umbro del cachemire; Giovanni Rana, presidente dell’omonimo pastificio veronese; Giovanni Ferrero, vertice dell’omonimo gruppo dolciario torinese: tre modi di affrontare la crisi. Quando è scoppiata l’emergenza, Cucinelli ha promesso ai dipendenti che nessuno avrebbe perso il lavoro: “Non voglio fare a meno delle competenze che mi hanno permesso di arrivare fino a qua. In cambio ho chiesto due cose: la disponibilità a lavorare mezz’ora in più al giorno e lavorare in agosto tranne una settimana. Questo significa che in poco tempo recupereremo le settimane perse”, ha detto alla Stampa. Intanto l’imprenditore ha affidato ai social le proprie riflessioni sul tempo nuovo, citando Michelangelo e Confucio: “Sono convinto che il tempo nuovo sarà per noi l’occasione affascinante per rimettere insieme un rapporto virtuoso tra umanesimo e tecnologia, tra spirito e armonia, tra profitto e dono”, ha scritto”: “Michelangelo era solito dire che la vita è una forma d’arte, e come l’arte, per viverla, c’è bisogno del cuore più che delle mani. Quindi vorrei dire che questa è un’occasione che non riguarda un singolo uomo, ma tutti gli uomini del mondo”. E ancora: “Sono affascinato da Confucio quando dice: ‘Colui che non prevede le cose lontane si espone a infelicità ravvicinate’. Quando verrà la fine dell’eclisse, e il sole tornerà a colorare la vita, allora il nostro cuore sarà colmo di gioia: però quello sarà il momento della prudenza somma”. Giovanni Rana (con il figlio Gianluca) ha invece varato un piano straordinario di aumenti salariali per 2 milioni di euro, come speciale riconoscimento dell’impegno dei 700 dipendenti al lavoro durante l’emergenza, con maggiorazione dello stipendio del 25 per cento per ogni giorno lavorato e un ticket mensile straordinario di 400 euro per le spese di babysitting, oltre a una polizza assicurativa a favore di tutti i dipendenti, compresi quelli in smart working, in caso di contagio. Ferrero, invece, oltre a donare 10 milioni di euro per l’emergenza come altri grandi gruppi imprenditoriali italiani, ha disposto un aumento in busta paga (fino a 750 euro lordi) per i dipendenti al lavoro negli stabilimenti dell’azienda, per il personale della logistica e per i venditori.

Arrivati alla soglia della fase 3, guardiamo e riguardiamo i volti diventati familiari in questi due mesi di straniamento come fossero figurine, mettendole in ordine per capire da dove siamo partiti e dove siamo arrivati. E quel che resta è, intanto, l’incredibile stranezza del viaggio, e l’impensabile forza che dal percorso è emersa.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ