PUBBLICITÁ

Nell’epoca del virus siamo diventati tutti Bouvard e Pécuchet

Giuliano Ferrara

Tutti arzigogolatori di laboratorio, tutti invischiati in una lingua sconosciuta. Si leggono banalità e coglionate. Se ne dicono tante, anche sul domani che ci vedrà migliori (sì, ma come?) e prevale una certa stanchezza nel contrastarle 

PUBBLICITÁ

I resti dello spirito polemico e conflittuale giacciono esausti. Si leggono e si ascoltano banalità, coglionate, opinioni che vengono da sottoculture in genere insopportabili, castigabili, e nella nuova situazione prevale una certa stanchezza nel contrastarle. Non si ha poi tanta voglia. Il glissando, lo slittamento musicale da una nota a un’altra in un continuo di intermediari, si insinua nel discorso pubblico. Vedi certi ribellismi ingenui e autolesionisti e non hai voglia di scacciarli con fastidio, come con le mosche, piuttosto ti metti a cercare vanamente le ragioni. Aut aut sembra un modo astratto di cercare e imporre la tua visione, se non la tua etica. Con lo stravolgimento biologico e il grande disordine virale l’era del conformismo mediatico verso l’Apocalissi ideologica è finita, lo noti a occhio nudo che ora l’apprensione si sposta su cose vere e ravvicinate, ti prendi la tua soddisfazione, ma poi glissi. Puntate, schermaglie minori, osservazioni, ma non è il tempo di una battaglia per schiacciare la stupidità media, senti anzi il dovere di farne parte, di condividere, come si dice, lo sfondo perverso di tante fesserie. Flaubert vince e perde la sua battaglia di una vita: siamo tutti Bouvard e Pécuchet, tutti arzigogolatori di laboratorio, tutti invischiati nella lingua per noi palloccolosa e ignota dell’infettivologia, tutti nell’enciclopedia delle idee ricevute, eppure nella medietà scolastica della “minaccia influenzale” – che cosa grande e terribile, e che minore sconcezza di morbilità – ci accucciamo nella Bêtise, un malessere che si spalma ormai su tre secoli a partire dall’Ottocento. Sovranismo, parola grottesca e segnacolo in vessillo di tante disumanità minori, diventa un fantasma asmatico, tutti vedono l’interdipendenza, tutti toccano i limiti delle frontiere, tutti sentono il rovesciamento paradossale di valori che si davano supinamente per accettati: il Messico minaccia di chiudere la frontiera con gli Stati Uniti, non vuole migrazioni pericolose, ecco.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


I resti dello spirito polemico e conflittuale giacciono esausti. Si leggono e si ascoltano banalità, coglionate, opinioni che vengono da sottoculture in genere insopportabili, castigabili, e nella nuova situazione prevale una certa stanchezza nel contrastarle. Non si ha poi tanta voglia. Il glissando, lo slittamento musicale da una nota a un’altra in un continuo di intermediari, si insinua nel discorso pubblico. Vedi certi ribellismi ingenui e autolesionisti e non hai voglia di scacciarli con fastidio, come con le mosche, piuttosto ti metti a cercare vanamente le ragioni. Aut aut sembra un modo astratto di cercare e imporre la tua visione, se non la tua etica. Con lo stravolgimento biologico e il grande disordine virale l’era del conformismo mediatico verso l’Apocalissi ideologica è finita, lo noti a occhio nudo che ora l’apprensione si sposta su cose vere e ravvicinate, ti prendi la tua soddisfazione, ma poi glissi. Puntate, schermaglie minori, osservazioni, ma non è il tempo di una battaglia per schiacciare la stupidità media, senti anzi il dovere di farne parte, di condividere, come si dice, lo sfondo perverso di tante fesserie. Flaubert vince e perde la sua battaglia di una vita: siamo tutti Bouvard e Pécuchet, tutti arzigogolatori di laboratorio, tutti invischiati nella lingua per noi palloccolosa e ignota dell’infettivologia, tutti nell’enciclopedia delle idee ricevute, eppure nella medietà scolastica della “minaccia influenzale” – che cosa grande e terribile, e che minore sconcezza di morbilità – ci accucciamo nella Bêtise, un malessere che si spalma ormai su tre secoli a partire dall’Ottocento. Sovranismo, parola grottesca e segnacolo in vessillo di tante disumanità minori, diventa un fantasma asmatico, tutti vedono l’interdipendenza, tutti toccano i limiti delle frontiere, tutti sentono il rovesciamento paradossale di valori che si davano supinamente per accettati: il Messico minaccia di chiudere la frontiera con gli Stati Uniti, non vuole migrazioni pericolose, ecco.

PUBBLICITÁ

 

Non c’è tuttavia il clima della rivendicazione, del punto di principio, del puntiglio politico-morale, tantomeno della vendetta ideologica. Uno vorrebbe, chiaro, certi ceffi lontani dal potere, certi modi di esprimersi e interagire banditi dalla piazza, certe fanfaronate punite dal richiamo dei fatti e subito, senza indugi, ma prevale una certa circolarità della riflessione, dello sguardo coltivato nell’isolamento. Trump che fa il politicante demagogo e certi suoi senatori che speculano alla borsa dell’epidemia sono ovviamente disgustosi, e il disgusto si stempera perché le cose importanti sono altre, la favola nera e fantascientifica di Manhattan che si blocca, la California che smette di ridere e augurarsi ottimista e felice: have a good day. Populismo diventa la definizione formicolante, postpolitica, delle file al supermercato, delle regole per passeggiare o per correre, degli assembramenti vietati, dello svanire dello sport e dello stadio come bomba biologica, della famiglia classica che si raccoglie nel suo poco o nel suo molto. Si salva il welfare, lo stato come lo hanno voluto le socialdemocrazie europee da tanto tempo fuori moda, e come lo hanno preservato e irrobustito anche i riformismi liberali. Si salva, certo, ma entra in causa, con il numero dei contagi, la sua capacità di essere davvero egalitario e universale, ci sono sempre i sommersi e i salvati.

   

PUBBLICITÁ

Poi c’è questa idea, che si vorrebbe sradicare sul nascere, ma la si lascia penetrare perplessi attraverso la sensibilità anche troppo tenera dello scrittore banditore di valori, questa idea che dovremo uscire migliori dalla situazione, ma non migliori perché irrobustiti dalla realtà, migliori perché più incantati, più buoni, più disponibili a prendersi cura del creato, parola passepartout in cui ora rientra anche il virus, senza pagare il prezzo dell’individualismo, dell’emulazione, della competizione, dell’obbedienza davanti alla maggiore expertise: ci dicono che saremo più umili sgranando una specie di rosario laico dei valori, e ci incitano a uscire in verità più fragili, meno integri nel giudizio e nella pratica vitale, da questo momento di diffusione dell’aura di morte e di malattia. Come sempre se ne dicono tante, si fa bisboccia con le buone intenzioni, e stavolta si ha voglia di mettere pochi puntini su poche i, e come per caso, senza amor di polemica, senza amore.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ