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Femministe impresentabili

Simonetta Sciandivasci

Giudicate, isolate, a volte perfino dimenticate. Pure questo otto marzo rischia di essere la festa dell’esclusione

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Fra due giorni sarà l’otto marzo e non vedremo scarpette rosse e tipe con strambi costumi sciamare e cantare, non verremo infastiditi da slogan bisunti, avremo le femministe fuori combattimento”. Tra gli effetti incidentali o, se preferite, essenzialmente secondari della quarantena, Costanza Cavalli di Libero ha scritto del suo preferito, l’annullamento delle manifestazioni e celebrazioni previste per la festa della donna, dagli scioperi di Non Una di Meno, che progetta scioperi sempre, anche se è domenica come quest’anno, d’altronde il capitalismo patriarcale è ferialefluid, agli spogliarelli nei ristoranti di quart’ordine, quelli che sono una mensa a pranzo e un bordello a cena. Ma come ha osato. Reazione subitanea, anche se contenuta, poiché Libero è la Codogno dell’informazione, e colà dove si puote è stato deciso di ignorarlo il più possibile così da contenere la diffusione dei suoi contenuti, dei suoi modi, dei suoi errori, dei suoi sfottò, delle sue stronzate, perché se c’è un tratto che il femminismo continua a mantenere, in tutte le sue ondate, diramazioni, divagazioni, discettazioni, mutazioni e ibridazioni è l’inammissibilità di chi è infedele alla linea (alle linee, ché se non specifichi che di femminismi ce ne sono tanti commetti un reato culturale, e nessuna si dichiara in disaccordo con te ma proprio per questo disposta a morire affinché tu possa continuare a dire e fare le cose con cui non concorda). 

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Fra due giorni sarà l’otto marzo e non vedremo scarpette rosse e tipe con strambi costumi sciamare e cantare, non verremo infastiditi da slogan bisunti, avremo le femministe fuori combattimento”. Tra gli effetti incidentali o, se preferite, essenzialmente secondari della quarantena, Costanza Cavalli di Libero ha scritto del suo preferito, l’annullamento delle manifestazioni e celebrazioni previste per la festa della donna, dagli scioperi di Non Una di Meno, che progetta scioperi sempre, anche se è domenica come quest’anno, d’altronde il capitalismo patriarcale è ferialefluid, agli spogliarelli nei ristoranti di quart’ordine, quelli che sono una mensa a pranzo e un bordello a cena. Ma come ha osato. Reazione subitanea, anche se contenuta, poiché Libero è la Codogno dell’informazione, e colà dove si puote è stato deciso di ignorarlo il più possibile così da contenere la diffusione dei suoi contenuti, dei suoi modi, dei suoi errori, dei suoi sfottò, delle sue stronzate, perché se c’è un tratto che il femminismo continua a mantenere, in tutte le sue ondate, diramazioni, divagazioni, discettazioni, mutazioni e ibridazioni è l’inammissibilità di chi è infedele alla linea (alle linee, ché se non specifichi che di femminismi ce ne sono tanti commetti un reato culturale, e nessuna si dichiara in disaccordo con te ma proprio per questo disposta a morire affinché tu possa continuare a dire e fare le cose con cui non concorda). 

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Prima che il virus ci chiudesse in casa ci preparavamo alla solita scissione: l’otto marzo giorno rivoluzionario oppure anniversario


 

Prima che il coronavirus ci chiudesse in casa con l’effetto, il solo realmente positivo, di lasciarci il tempo di pensare, fermarci, bere, leggere, amare, grattarci, ci preparavamo a veder perpetrata la solita scissione, l’otto marzo giorno rivoluzionario da una parte e l’otto marzo anniversario dall’altra, impegno contro costume, lotta contro gioco, e poco spazio per la festa, la sola che dovremmo dare, e che dovrebbe assomigliare a quella che Annalena Benini descrive nell’introduzione a “I racconti delle donne”, quando spiega come ha lavorato a un’antologia di racconti di scrittrici e con quale intenzione, con quale scopo: “Un ricevimento con tutti i personaggi di questi racconti e le loro creatrici, che possono finalmente incontrarsi, ballare, fiammeggiare: una società sovversiva di ragazze che si tengono vive le une con le altre, e indagano, con il proprio respiro e la propria ironia, la solitudine, l’amicizia, l’autonomia interiore, la fatica coniugale, le delusione, l’invidia, la vanità, il sesso, la morte”.

 

Ci preparavamo ai dati sul gender gap scritti sui cartelli, alle sfilate contro la violenza, agli slogan contro il possesso, ai motti contro il patriarcato, alle geografie della condizione femminile. E adesso? Vedremo tutto da casa, in tv, insieme ai duetti di donne che cantano canzoni per le donne, vox populi per sondare se alle signore che escono dal Simply qualcuno abbia provveduto a regalare una mimosa e se per loro è più importante la galanteria o la parità, se una esclude l’altra o no, cosa possiamo fare per rendere le donne più libere. Manca sempre, nelle ricorrenze, nell’autocoscienza, negli articoli, nella teoretica in fieri del femminismo nuovo, l’autocritica su un punto fondamentale: come mai esistono molte donne che dal femminismo non solo non si sentono rappresentate, ma fuggono a gambe levate; in cosa un movimento di rivendicazione così vasto, adesso persino universale e genderfree e pop e mainstream, continua a rivelarsi o quantomeno a risultare poco inclusivo; come mai è ancora così forte l’idea che, anche dopo essere diventato un ricamo su una maglietta di Dior, il femminismo si dirama e si frastaglia, ma ha le sue repulsioni, le sue distanze ideologiche, le sue rigidità, i suoi modelli unici di libertà ed emancipazione. Come mai il femminismo ammette ancora che esistano vincitrici e vinte, ammissibili e non ammissibili, presentabili e non presentabili. Come mai esistono ancora donne che, a quella festa che Benini ha dato e ha invitato tutte a dare, non sono gradite, non vengono neanche invitate? 


La storia di Erin Pizzey, dimenticata e pure disamata dalle femministe inglesi, sebbene a lei si debbano i primi centri antiviolenza


 

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Perché un articolo ironico di una giornalista di Libero dev’essere disprezzato senza cogliere l’occasione che offre e cioè chiedersi come mai alcune manifestazioni risultano stucchevoli e, peggio ancora, è diventato vietato dirlo, o proporlo come elemento di discussione e di autocritica. Come mai si cerca di mettere a proprio agio tutte le diversità tranne quella di veduta, di stile, di appartenenza. Come mai s’è dato un nome e quindi statuto e misura e persino peso economico al carico mentale domestico e non all’impatto emotivo della censura? La media mondiale delle donne al governo è cresciuta, tra il 1945 e il 2017, di 20 punti percentuali, Pornhub ha un pubblico fatto del 74 per cento di uomini, più della metà delle donne inglesi e statunitensi è a dieta, la contraccezione è ovunque quasi esclusivamente a carico delle donne, tra il 2012 e il 2014, 25.000 indiane sono state uccise per dote (la pratica della dote è ormai illegale ma non si riesce a fermare l’abitudine che le famiglie degli uomini hanno di estorcere alle famiglie delle donne doti sempre più corpose, spesso con atti di estrema violenza che finiscono in omicidio). Sono alcuni dei moltissimi dati che Joni Seager ha raccolto nel suo “Atlante delle donne”, uscito questa settimana per Add editore. E’ un libro che bisogna avere per capire cosa possiamo festeggiare e cosa no, cosa dobbiamo conquistare e cosa no, chi sta male ma non briga e chi sta bene e però briga. Per capire che tempo fa. L’altro libro di questo 8 marzo d’auspicata, fervida autocritica, è “Difficult Woman” di Helen Lewis, che fa due cose. Da una parte, raccoglie le storie di alcune battagliere femministe diventate poi neglette e quindi si muove dentro l’area di indagine di quella domanda che ponevamo prima e cioè perché esistono femministe ammissibili e femministe non ammissibili, coinvolte e abbandonate, venerate o ripudiate. Dall’altra parte, e questo in modo meno dichiarato ed esibito, diciamo pure in controluce, ritrae donne complesse, inassimilabili a un codice, men che meno a un modello, sgradevoli, stregonesche, talvolta perfide. Imperdonabili, per dirla con l’aggettivazione che Maria Antonietta, cantautrice e scrittrice, ha scelto per descrivere le sette donne che ha ritratto in un suo splendido libro uscito non molti mesi fa per Rizzoli, un libro d’ore nel quale ha ritratto le sue maestre (Antonia Pozzi, Emily Dickinson, Sylvia Plath) non semplicemente per omaggiarle ma per raccontare, di loro, l’esser state radicali “poco accomodanti, tremendamente oneste, per lo più impazienti”, “di non essersi piegate a nessuno stereotipo” e, soprattutto, il non essersi ammorbidite per niente, per nessuno, non essere scese a patti per compiacere un movimento, per abbracciare un’idea, il coraggio di essere rimaste sole per non tradire la propria fede, la propria missione. Questo particolare tipo di solitudine, che è simile a quella dell’eroe dell’epica classica (ormai se non vituperato, detronizzato e seppellito dalle centinaia di rivisitazioni di mitologia ed epica antiche, tutte alla ricerca della “chiave femminile e femminista”), è un prezzo che il femminismo non dovrebbe più far pagare. Questa è la sua sfida attuale, insieme alle molte altre che ha, e che lo richiamano nelle parti del mondo più remote ma pure in quelle più pulsanti e benestanti. Il femminismo dovrebbe essere la casa di tutte, specie delle imperdonabili. E l’otto marzo ha molto senso, molti significati, molti meriti: sarebbe bello che s’intestasse anche quello di dar spazio a questa esigenza. Il femminismo mainstream, quello che è stato una scritta luminosa tirata su dal palco d Beyoncé e poi fanzine per adolescenti e poi retorica anticanone e miccia di vanitosi estremismi, dalla liberazione dal rasoio a quella dalla discrezione sul tampax, ha avuto tra i suoi contraccolpi più terribili l’addolcimento di molti punti, lo svilimento di molte battaglie, la capitalizzazione di molte posizioni e quindi, sempre lì torniamo, la formulazione di nuovi, asfissianti dogmi. “Oggi non è tempo di conflitti, si preferisce la gentilezza. Ma il femminismo ha strappato, lacerato abitudini consolidate. Lo ha fatto con rabbia, è evidente”, scriveva qualche anno fa Eleonora Ciorant sul Corriere della Sera a proposito dei rigurgiti antifemministi di moltissime donne. Il #metoo non c’era stato, né la quarta ondata femminista, né Non Una di Meno. Allora il femminismo era percepito come qualcosa di finito, lontano, e certamente fastidioso. E Ciorant ne era lieta: “Significa che non siamo ancora digeribili”. Oggi, invece, il femminismo più à la page è diventato digeribile eccome e riflettere sulle donne che non vi si avvicinano o ne vengono allontanate significa anche capire se questo processo di limatura degli artigli è stato una conseguenza o una causa di alcune epurazioni. 


Manca l’autocritica su un punto fondamentale: come mai esistono molte donne che dal femminismo fuggono a gambe levate?


 

Gli insulti e gli ostracismi che ha subito Germaine Greer per le sue posizioni sulla differenza tra donne e transessuali sono esemplificative del rapporto tra il femminismo della differenza e quello intersezionale. Un rapporto tempestoso che ha generato un conflitto risolto alla maniera della cancel culture: gogna e dimenticatoio per le vecchie streghe, accusate d’esser segregazioniste, razziste, sessiste. Greer, poi, s’esprime in modo indigeribile, indifferente alle ripuliture pol corr .

 

“Internet ha ucciso il femminismo” è uno dei titoli più diffusi per articoli che analizzano come i social network e la banalizzazione del linguaggio a essi propria abbiano depotenziato il nuovo femminismo. In una delle ultimi analisi di Jezebel, uno dei pochi portali ancora attivi dell’ampia galassia del femminismo 2.0, ormai in declino irreversibile, viene raccontata la lotta tra blogger bianche e blogger nere, e come molti di questi portali abbiano per anni sfruttato i propri dipendenti, consentendo loro di alimentare l’idea che il femminismo sia un’ideologia di facciata, ipocrita, anziché essere la pratica che è nato per essere.

 

Una delle storie che Lewis ha raccolto nel suo libro, una delle sue “donne difficili”, è Erin Pizzey, dimenticata e pure disamata dalle femministe inglesi e dal paese tutto intero, sebbene a lei si debbano i primi centri antiviolenza del paese. Li fondò nel 1971, senza l’aiuto di nessuno, né statale, né privato. Occupò una casupola con quattro stanze un bagno a Londra e prese ad accogliere lì le donne che venivano maltrattate in casa o che semplicemente avevano bisogno di aiuto per ottenere un sussidio. Poi, la cosa si allargò e Pizzey fondò “Refuge”, che è la più grossa organizzazione benefica del paese (276 centri anti violenza, 200 assunti, 17 milioni di dollari di fatturato annuo).

 

Scrisse libri sulla violenza domestica, di modo che le persone capissero bene cosa fosse, e diventassero in grado di riconoscerla, se la subivano. Non era una semplice, era un’anarchica testarda prepotente accesa ribellista utopista instancabile ed ebbe molte discussioni con le femministe della seconda ondata, perché non sopportava il loro snobismo, e venne progressivamente isolata, pur continuando a fare il suo lavoro per le donne sempre, tanto che l’Independent, alcuni anni fa, scrisse che era lei la donna che, per le inglesi, aveva fatto più di tutte. A Lewis, Pizzey racconta oggi come si sia sentita tradita, la storia di una relazione che non ha mai funzionato, lo scoglio che lei trovava nelle altre, anziché la maniglia. L’ostracismo è durato anni, a nessuna delle studiose del femminismo storico, neanche alle più giovani, è venuto in mente di provare a riabilitare questa figura così forte, importante, austera, storta. Ad aggravare la sua impresentabilità c’è che, da alcuni anni, Pezzey collabora con il movimento di liberazione degli uomini, che il gotha del femminismo considera un covo di incel misogini ex stupratori. Un’altra posizione drogata dall’ideologia, dal contrasto forzoso, dall’autodifesa, dal corporativismo. 


Il femminismo mainstream ha avuto tra i suoi contraccolpi l’addolcimento di molti punti, lo svilimento di molte battaglie 


A proposito del libro di Lewis, il Guardian ha scritto che gli editori pubblicano libri su donne dimenticate e da elevare, quasi santificare, e che sono tutte molto simili: audaci, brillanti, positive, toste, cool. Le donne di Lewis invece sono quasi tutte meschine, contraddittorie, vendicative, “assolutamente riprovevoli”. Però, sottolinea il Guardian, il modo in cui quelle donnesono state non deve e non può cancellare quello che hanno fatto, o essere più importante di quello che hanno fatto, tanto da comprometterne il valore.

 

È questo che il nuovo femminismo deve, forse, rivedere, approfittando di questa quarantena: se è diventato giudicante al punto da risultare repellente per quelle che vogliono fare la guerra a modo loro; se ha imposto un modello ed è diventato una classe d’appartenenza cui si può accedere solo se si dispone di precise credenziali. Se, in definitiva, sta diventando un party esclusivo, rinunciando a portare, nelle donne, la festa dentro al cuore.

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