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Un paese di santi, poeti e allievi di Montanelli

Salvatore Merlo

Da Marco Travaglio a Marcello Foa. Spuntano come funghi dopo la pioggia d’agosto

Avvertiamo preventivamente il lettore perché qui si entra, purtroppo, in un terreno molto accidentato oggi che gli allievi di Indro Montanelli, anche scarsamente conosciuti, spuntano come i funghi dopo la prima pioggia d’agosto e spesso si accasano in ruoli impensabili – tipo la presidenza della Rai – e sostenendo, da veri liberali montanelliani, le virtù della Russia autocratica di Putin.

 

Ci sono quelli che parlano da eredi spirituali, quelli che si commuovono, quelli che affettano una confidenza che però ricordano soltanto loro. Tutti, infine, alimentano la paccottiglia di aforismi e aneddoti di dubbia origine che negli ultimi anni sono diventati la smorfia del grande Montanelli. Ha detto infatti Marcello Foa, che salvo sorprese stasera sarà il nuovo presidente della Rai: “Mi muoverò sull’onda di colui che è stato il mio maestro: Montanelli”. Ecco. “Il maestro” scriveva contro i carri armati russi in Ungheria, lui ha tifato per i carri armati russi in Crimea.

 

E d’altra parte quella dell’erede di Montanelli è una condizione della psiche che richiede molta comprensione.

 

In principio fu Marco Travaglio. Montanelli diceva di lui che era un “grande inquisitore da far impallidire Vishinsky”. E non aveva ancora potuto apprezzare la parlata fatta di “slurp”, “lecca-lecca”, “lingua”, essudati, pernacchie e flatulenze. Ma la qualifica di allievo se la attribuiscono in tanti, e con la medesima spontaneità da ariete. Una spontaneità che a volte li trascina in situazioni impensabili, probabilmente dovute all’equivoco che il vecchio Montanelli, non ricordandosi il nome di molti di loro, quando incontrava i ragazzotti di redazione li chiamava tutti “figliolo”. Così adesso ci sono una caterva di sessantenni che pensano d’essere i figliocci di Montanelli. Lui, tuttavia, poiché forse conosceva l’animo cialtronesco dei suoi compatrioti, s’era organizzato con previdenza contro epigoni e continuatori: “La mia eredità sono io”. Diceva inoltre d’avere una sola preoccupazione: quella di non diventare – da morto – un monumento. “Fra le altre cose perché i monumenti sono troppo frequentati dai piccioni”. E dagli allievi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.