Luca Lanzalone, ex presidente dell’Acea, coinvolto nell’inchiesta della procura di Roma sul nuovo stadio della Roma (foto LaPresse)

Elogio del generone romano

Giuseppe De Filippi

Affaristi con sogni di soldi e potere? Racconto sbagliato. Era una classe sociale portatrice di modernità

Pensano di arrivare a Roma e fare un po’ come gli pare, tanto lì, si raccontano, pigramente raccogliendo pigri racconti altrui, c’era il generone, e quindi ora potrà pur comandare il Lanzalone, inteso come Luca, avvocato ormai noto alle cronache. L’assonanza e la rima malandrina si associano alle idee ricevute e a una dannazione storica comminata più da giornalisti, sceneggiatori, scrittori, che da storici o da politici. Quella parola, appunto il generone, nasce prima della contaminazione linguistica per cui i suoni del romanesco sarebbero stati in gran parte messi al bando (e ricicciati solo in una specie di neo - romanesco, depurato, fighizzato, televisivo), non per colpa o volontà di qualcuno, ma proprio perché estranei, si direbbe foneticamente, all’italiano nascente, con le sue forti influenze toscane e lombarde. E generone suona proprio male, in modo speciale alle orecchie di oggi. Ma quando nasceva l’espressione non ci si pensava proprio alle sensibilità moderne, si doveva piuttosto dare un nome a una nuova classe sociale, affacciatasi un po’ inattesa nella altrimenti statica società romana della fine del 1700. E si stava, nello Stato Pontificio, un po’ fuori (ma non completamente fuori) da certe correnti di rinnovamento politico e soprattutto lontano dall’idea di avviare qualcosa che assomigliasse alla sociologia. Non si era sociologi, regnante il Papa, ma non si era scemi e guardandosi intorno si era capito che un nuovo ceto sociale aveva preso, stava prendendo, ricchezza, spazio pubblico, potere. Esattamente in quest’ordine, perché il primo ambito di crescita della nuova classe sociale era quello dei soldi e il resto, presenza pubblica e potere, sarebbero arrivati molto dopo.

  

Alla fine del ’700 un nuovo ceto aveva preso ricchezza, spazio pubblico, potere. L’accrescitivo significava ricchezza, da rispettare

Ma torniamo alla parola linguisticamente dannata e poi giornalisticamente fortunata (che ci vuole a scherzare sul generone quando si è a corto di idee per dare qualche stoccata alla eterna Roma intrallazzona?). Duecento e più anni fa non si aveva a disposizione l’armamentario sociologico moderno. Non erano facili da usare il ceto, né la classe, né altre grandi categorizzazioni. C’era il censo, come suddivisione generale tra ricchi e poveri, e poi l’aristocrazia, il popolo, la curia intesa anche come amministrazione, i preti e il resto del mondo religioso. E allora, parafrasando Cesare Pascarella e ipotizzando il desiderio di darsi un posto da parte di questi nuovi borghesi inconsapevoli di esserlo, arrivano la domanda e la risposta: e chi ho da esse? so’ n’genere de persona. E siccome poi questo nuovo genere di persone, questo nuovo gruppo sociale, aveva fatto anche i soldi, cominciò a essere chiamato generone, l’accrescitivo significando ricchezza e ricchezza da rispettare. E subito si fecero delle distinzioni spietate, andando a parlare anche di generetto, ovvero quello che altrove si sarebbe definito piccola borghesia, fatta essenzialmente di professioni artigianali.

  

Questi nuovi arrivati, dai nomi buffi di generone e generetto, trovano vuoto lo spazio dei ceti medi rentier spazzati via, loro malgrado, da una specie di bolla speculativa durata per gran parte del ’700 sul mercato del debito pubblico dello Stato Pontificio. Per decenni si era andati avanti gonfiando questa bolla, una vicenda più simile a Lehman Brothers e al suo fallimento che alla (in verità opposta come sviluppo) crisi del debito da spread. La bolla si gonfia, con ipervalutazione dei titoli, detti Luoghi di Monte, fino al 150 per cento del valore nominale, e ne viene poi imposta la liquidazione il 5 agosto del 1810, con un decreto imperiale durante il periodo napoleonico. Significa perdita secca di ricchezza finanziaria per molte famiglie che avevano costruito patrimoni e vivevano di quelle rendite. A quella bufera resistono le grandi proprietà fondiarie e immobiliari, ma, appunto, c’è spazio libero per le incursioni dei nuovi arrivati e per le loro attività commerciali e industriali. Alle rendite si sostituiscono attività produttive, un altro segno di come la nuova classe sociale fosse portatrice di modernità.

   

Poi sarebbe stato contaminato con lo sviluppo di Roma come capitale e con la crescita tumultuosa dell’industria delle costruzioni

Il generone era nato e battezzato e avrebbe avuto almeno un secolo di vita mantenendo una sufficiente fedeltà al nome e al ruolo storico, per essere poi contaminato e confuso con lo sviluppo di Roma come capitale nazionale e con la crescita tumultuosa dell’industria delle costruzioni, epopea com’è noto animata soprattutto da abruzzesi, oltre che con la nascita di una vera borghesia amministrativa. Più simile a questi ultimi il nostro Lanzalone, che arriva e subito, per meriti di cui si conosce il fondamento solo nel mondo grillino e nella stretta cerchia di Virginia Raggi, non solo prende a comandare dalle parti del Campidoglio ma si insedia nel mejo posto della grande società quotata dell’energia e dell’acqua. Ammiratori del generone romano, li chiamava una sceneggiatrice intelligente e colta, che, appunto, sapeva come erano andate davvero le cose e mai avrebbe gratificato i palazzinari e gli altri nuovi arrivati del generonesco titolo, ma solo, appunto, li avrebbe stigmatizzati snobisticamente come ammiratori del generone.

  

E sì, c’era anche da ammirare, perché la storia di quella borghesia romana (in molti casi fattasi anche aristocrazia) ha diversi passaggi di cui andare fieri. Prendiamo le informazioni da uno studio sul tema in cui si è evitata qualunque coloritura, qualunque furbizia giornalistica. Autore Mario Sanfilippo, titolo puramente descrittivo, da ricerca storica, senza far battute, “Il ‘Generone’ nella società romana dei secoli XVIII-XX”, delle gloriose edizioni Edilazio, in copertina un bel busto marmoreo fatto da Bertel Thorvaldsen e che rappresenta Antonio Costa, generone puro sebbene di importazione. Arrivava infatti dalla Liguria, come il tardo e falso epigono, Lanzalone. Da Santa Margherita Ligure, dove era nato nel 1769, raggiunge Roma in una rara migrazione nord-sud e, cosa ancora più rara, arriva nella città condannata dal cliché alla pigrizia, per mettersi al servizio dell’industria locale, prima come cordaio e poi come tessitore. Doveva avere qualcosa di speciale, forse qualche amicizia di quelle efficaci, o una spiccata capacità di relazione. Fatto sta che trova rapidamente un socio finanziatore per aprire assieme (sempre usiamo a riferimento l’ottima descrizione storica di Sanfilippo) una fabbrica tessile. Niente di raffinato: tele rozze adatte per le grandi commesse pontificie destinate a militari e opere di assistenza e carità. L’industriale del nord finanziato nell’Urbe fa rapidamente tanti soldi, compra proprietà immobiliari e terreni e dà inizio a una stirpe di generone ricca, fattiva e intellettuale. Insomma, nulla a che fare col modello generoniano che viene solitamente raccontato e con la sua deformazione cinematografica.

 

Nella famiglia Costa c’è la storia dell’800 romano nella sua parte non decadente ma che tenta uno sguardo sul futuro. Papalini ma non codini, altro cliché da smontare, e un Costa, Nino, pittore gentiluomo che regala i suoi quadri ai poveri, è nella Legione Romana comandata da Natale Del Grande, assieme a molti altri giovani di famiglie del generone, va a combattere nelle guerre di indipendenza, si trova a difendere Vicenza contro le truppe di Radetzky, tenta la strada del neo - guelfismo (ma rapidamente capisce che su Pio IX non si poteva puntare più di tanto), continua a girare per l’Italia e a partecipare a scontri militari, sempre sostenuto finanziariamente dalla ricca famiglia di origine, finché coi garibaldini arriva a Porta Pia ed è tra i primi a entrare a Roma. “Il 21 settembre del 1870 – scrive Sanfilippo – per un solo giorno comanda in Campidoglio e si preoccupa di far togliere le foglie di fico alle statue antiche, ma nello stesso tempo, per la causa patriottica, ha completamente dissipato l’eredità”. Insomma un intellettuale coraggioso dell’800, attivo sulla scena nazionale, innovatore. Si stenta a riconoscere anche una minima parentela con ciò che abbiamo sentito dire del generone romano e con la rappresentazione abitualmente proposta.

  

Ma prendiamo le vicende di un’altra famiglia, i Tittoni, che per Sanfilippo esprime, con Tommaso, un caso paradigmatico, di grande epigono del generone. Rispetto agli oriundi Costa, le origini sono più fedeli al modello della nascente borghesia romana: come mercanti di campagna (attività che accomuna gran parte di queste famiglie) i Tittoni erano attivi nei paesi a nord di Roma, con centro delle attività a Manziana, vicino al lago di Bracciano, e come altri in condizioni simili si trovarono con grandi opportunità commerciali da cogliere per arricchirsi, sfruttando l’incapacità e la scarsa volontà dei grandi proprietari terrieri aristocratici. Roma era un grande mercato terminale, di consumo e non di trasformazione, circondata da una campagna non troppo produttiva e pericolosa, con la malaria come primo nemico. Insomma, non era un’attività semplice occuparsi di rifornire di prodotti agricoli la città del Papa, ma si poteva guadagnare molto. I Tittoni indovinano i canali giusti e sanno fare affari e sono davvero esperti di agricoltura (sviluppano anche una razza bovina, le grandi vacche con le corna a forma di mezzaluna appartengono alla razza Tittoni) e l’entusiasta Sanfilippo ci riferisce che già tutti i figli di Bartolomeo, nato nel 1776, e Caterina Moretti, del 1797, “sono proiettati ai vertici del generone” e rapidamente riescono, per via matrimoniale, ad apparentarsi a quella che allora era la famiglia più ricca di quel mondo, i Silvestrelli.

  

Nella famiglia Costa la storia dell’800 romano che tenta uno sguardo sul futuro. Papalini ma non codini, altro cliché da smontare

Secondo Sanfilippo questi ultimi “non sono molto soddisfatti di quella che considerano una mésalliance”, insomma c’era già una specie di puzza sotto al naso interna al mondo generoniano. Da quel primo apparente smacco le cose cambiano rapidamente, con una corsa verso la ricchezza che va in progressione. Acquistano via via palazzi nel corso dell’800, c’è un palazzo Tittoni alla Dataria, un altro a via Rasella. Fanno politica, con coraggio, fino a essere esiliati dal Papa, sbattuti fuori dallo Stato Pontificio nel giro di 24 ore i due fratelli Tittoni, al vertice della famiglia alla metà del secolo, si portano dietro mogli e figli e se ne vanno a Firenze, Napoli, Torino. Ricchi di relazioni e amicizie, conquistate anche partecipando alle guerre di indipendenza, si preparano a rientrare comprando intanto terreni, si legge nel saggio di Sanfilippo, “dall’asse ecclesiastico nelle Marche, in Umbria e in Sabina”. Fino a conciliare, con una specie di colpo di teatro, una classica coppia di opposti, che potremmo definire vanziniana. Una diade composta dal generone (come entità astratta) e da Oxford (proverbialmente e quindi banalmente simbolo di classe e di cultura: aho, se vede che hai studiato a Oxford, detto invece a chi ha modi molto maleducati). Insomma il giovane Tommaso Tittoni proprio a Oxford viene spedito a studiare, da una famiglia che comunque oggi si direbbe era già perfettamente europea e integrata in una cultura cosmopolita. Poi per Tommaso comincia una serie di successi politici e pubblici, ministro degli Esteri, presidente del Consiglio ad interim, ambasciatore a Londra e Parigi, senatore del Regno, presidente del Senato, nel 1925 riceve dal re il collare dell’Annunziata. Ma è senatore anche suo cugino Romolo e qualche Tittoni lo trovate nei posti importanti dell’amministrazione nazionale o capitolina almeno fino al momento in cui si stringe la morsa del nuovo potere fascista, mentre sul piano economico ora a farsi avanti è una nuova ondata, quella appunto dei costruttori, poi scambiati, anche volontariamente, per generone, ma in realtà del tutto estranei a quella prima classe borghese e imprenditoriale.

   

I Tittoni, che mandano il giovane Tommaso a studiare a Oxford. I matrimoni con le inglesi e le americane. Il passaggio alla nobiltà

Alcuni del generone, si diceva, si fanno irretire dalla classe che avevano, a modo loro, sfruttato, o almeno con la quale avevano rivaleggiato, e diventano aristocratici. A volte succede che una stessa famiglia del generone abbia un ramo nobilitato e altri no, ad esempio capita con i Grazioli (proprio quelli del noto palazzo). Questo ceto sociale, che aveva avuto una sua coesione interna, si “entrava” nel generone come si poteva entrare nell’aristocrazia o in un altro gruppo sociale definito, non regge al passaggio drammatico degli anni Venti. Com’era successo all’inizio dell’800, ci sono ora nuovi imprenditori a scalzarli. E’ significativo che tra tutte le famiglie di costruttori che fanno fortuna a partire dall’inizio del ’900 grazie alla espansione urbana di Roma nessuna provenisse dai ranghi del generone. La classe sociale che aveva portato un po’ di modernità nello Stato Pontificio e ne aveva favorito l’integrazione con l’Italia unitaria si sfila docilmente, aiutata anche dalla trasformazione dei suoi patrimoni (i giovani del generone per decenni erano stati gli unici a compiere buoni studi universitari e si erano inseriti nel mondo finanziario). Il cosmopolitismo, dovuto anche a tanti matrimoni con donne inglesi e soprattutto americane, aiutò a trovare nuovi sbocchi per quel gruppo di famiglie, anche fuori dai loro territori storici. Stranamente sopravvisse invece il nome collettivo, con qualche confusione, come documenta Sanfilippo, nella classificazione dei dizionari e nelle citazioni anche di illustri letterati. E sopravvisse, e sopravvive (andate a controllarne la frequenza sui giornali del 2018 e avrete qualche sorpresa), tuttora favorito nella circolazione dalla pigrizia, dalla ripetitività degli schemi analitici, dal micidiale passaparola o copia-incolla giornalistico. E per queste vie arriva a Lanzalone e gli mette in testa un racconto sbagliato, e un sogno di stadi, di soldi veloci, di potere non mediato, roba che i vecchi mercanti di campagna non avrebbero certo approvato. Seduto nel suo ex ufficio di presidente dell’Acea guardava quel quartiere Ostiense che era stato nuovo proprio nella Roma del generone e forse non sapeva che quella società aveva le sue origini nella decisione di far nascere una serie di aziende municipalizzate per i servizi pubblici presa nel 1907 dal sindaco Ernesto Nathan. L’ultimo sindaco di Roma col quale, pur essendo loro in gran parte papalini (ma più per far dispetto ai nuovi arrivati che per autentici legami), alcune famiglie del generone avevano collaborato. Da Nathan a Raggi, dal generone a Lanzalone.

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