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Ogni anno la Maturità cambia, ma mai una volta che valuti le reali potenzialità dei ragazzi

Marco Lodoli

Prima gli studenti dovevano dimostrare quanto imparato esponendo una tesina; da ora ai ragazzi verrà chiesto di trovare collegamenti a partire da una fotografia, un dipinto, un verso, un frammento di una materia su cui costruire un discorso credibile e creativo. Un esercizio ambizioso, e forse, fuori portata

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Non capisco perché ogni anno gli esami di maturità – oggi però si chiamano esami di stato – debbano cambiare forma e sostanza. Una smania irrefrenabile costringe i cervelloni del ministero ad apportare modifiche spesso incomprensibili, a rimescolare il mazzo delle carte, a confondere le acque. Prima gli studenti dovevano dimostrare quello che avevano imparato nel loro corso di studi, e così presentavano una tesina proprio sugli argomenti che più li avevano interessati, quelli specifici del loro corso, e poi magari collegavano attorno a quel tema le altre materie. Ricordo che pochi anni fa, prima della pandemia, sono stato membro esterno della commissione d’esame in un istituto tecnico romano, vicino a Piazza Vittorio: ebbene, in Italiano e Storia i ragazzi non erano dei fenomeni, in Inglese balbettavano un po’, ma ognuno di loro aveva costruito un robottino, ed era davvero una meraviglia vedere quei bizzarri meccanismi sollevare le loro braccette di metallo, spostare cubi, impilarli, sistemarli, seguendo gli ordini di una scheda di programmazione preparata perfettamente dai candidati. Io rimasi ammiratissimo dalle capacità di quei diciottenni, piccoli genietti della robotica.

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Non capisco perché ogni anno gli esami di maturità – oggi però si chiamano esami di stato – debbano cambiare forma e sostanza. Una smania irrefrenabile costringe i cervelloni del ministero ad apportare modifiche spesso incomprensibili, a rimescolare il mazzo delle carte, a confondere le acque. Prima gli studenti dovevano dimostrare quello che avevano imparato nel loro corso di studi, e così presentavano una tesina proprio sugli argomenti che più li avevano interessati, quelli specifici del loro corso, e poi magari collegavano attorno a quel tema le altre materie. Ricordo che pochi anni fa, prima della pandemia, sono stato membro esterno della commissione d’esame in un istituto tecnico romano, vicino a Piazza Vittorio: ebbene, in Italiano e Storia i ragazzi non erano dei fenomeni, in Inglese balbettavano un po’, ma ognuno di loro aveva costruito un robottino, ed era davvero una meraviglia vedere quei bizzarri meccanismi sollevare le loro braccette di metallo, spostare cubi, impilarli, sistemarli, seguendo gli ordini di una scheda di programmazione preparata perfettamente dai candidati. Io rimasi ammiratissimo dalle capacità di quei diciottenni, piccoli genietti della robotica.

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Ma anche nell’istituto professionale di moda, dove insegno da una vita, tante ragazze durante gli esami mostravano i loro book, con disegni strabilianti di abiti e accessori ispirati agli anni Venti o allo stile tzigano o alla Londra dei Beatles, e poi facevano vedere alla commissione un paio di vestiti magnifici, sistemati ad arte sui manichini, e io pensavo: ma quanto sono brave, quanto hanno imparato in questi cinque lunghi anni, sono già pronte a entrare nel mondo del lavoro perché hanno le mani d’oro e le idee chiare. Insomma, agli esami ogni candidato dava il meglio di sé, e a volte chi esitava in certe materie si rivelava un fuoriclasse nel suo campo specifico di studio. Gli esami servivano a questo: a dimostrare le proprie qualità, la propria creatività, la capacità di assorbire gli insegnamenti ricevuti e riproporli con originalità. Ora però non è più così. Ora è stata nuovamente riesumata l’idea di proporre agli studenti un’immagine alla quale ricondurre tutto quello che hanno studiato.

E’ un artificio che fa pensare alla ghigliottina, la prova finale dell’“Eredità”, il programma televisivo. I professori dovranno preparare una serie di fotografie, o citazioni, o versi, e dal mazzo verrà estratta a caso l’indicazione su cui far convergere tutte le materie. Immaginate la situazione: un ragazzo davanti a una commissione di prof., solo sulla sua sediola, emozionatissimo, agitato, sudato nel caldo feroce di giugno o di luglio, e sotto ai suoi occhi si scopre una carta. Ci può essere la fotografia di un filo spinato, o di un tramonto, o di un grattacielo, oppure un verso di Ungaretti o di Pascoli, o una frasetta di Einstein o di Freud. Quella sarà la calamita sui cui attaccare tutti i frammenti della varie materie. “Prendi questo foglio di carta, hai due o tre minuti per trovare i nessi, le connessioni, forza, comincia a pensare e a scrivere, e poi esponi con ordine”, dirà il presidente della commissione. Io andrei totalmente nel pallone. Il cuore batte a cento all’ora, in testa un marasma di pensieri e parole, il rischio di un blocco totale.

Ma lo studente deve sapere incastrare tutte le tessere del mosaico, essere credibile, dimostrare di sapersi muovere con disinvoltura e precisione dentro il vaghissimo orizzonte dell’interdisciplinarietà. A me sembra semplicemente assurdo. Dopo tre anni di Covid, lezioni in Dad, mascherine soffocanti e programmi ridotti, si pretende che il concorrente di questa ghigliottina scolastica sappia trovare agganci più o meno arbitrari tra una immagine e quello che ha studiato faticosamente. Non era meglio lasciarlo libero di esprimere ciò che lo aveva appassionato? Di farsi valere partendo da un argomento del suo corso di studi? Di far muovere il suo robottino o di meravigliare tutti con i suoi vestiti confezionati con sapienza e fantasia? Credo che anche Umberto Eco si sarebbe trovato in difficoltà dovendo cucire un discorso convincente attorno alla foto di una bomba atomica o di una rosa rossa, figuriamoci un diciottenne carico d’ansia. Quest’anno però è così. Il prossimo anno, come sempre, cambierà di nuovo tutto.

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