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Banchi d’amore. Il primo giorno di scuola di due bambini ucraini in Italia, al sicuro

Marika Surace

Chissà se dopo tutto questo, dopo i regali, l’entusiasmo e la commozione, il linguaggio complesso dell’accoglienza avrà la meglio su dubbi e paure

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C’era, in quelle lontane giornate di scuola di quando eravamo bambini, un catalogo standard di odori e rumori che erano come un’impalcatura lieve delle ore: la polvere del gesso, le pagine sfogliate in fretta, il profumo di caffè dalla stanza dei bidelli, i denti affondati in un panino durante l’intervallo, il silenzio rotto dai bisbigli prima di un’interrogazione. C’erano la somiglianza di queste giornate tra loro, le finestre che riportavano dall’esterno un mondo che sembrava meraviglioso perché ignoto: che cosa fanno tutti quelli che non sono a scuola, che sono là fuori? C’erano poi i giorni che uguali agli altri non erano: bastavano una piccola gita, uno scrittore venuto in classe a raccontare una storia, un nuovo compagno arrivato da un’altra città, a interrompere il flusso rassicurante dell’orario scolastico, a disfare le voci e i profumi noti, svegliando quelli di noi che indugiavano nel torpore scambiato dagli insegnanti per placidità.

 
 Faccio l’avvocato, ma da un po’ di tempo insegno educazione civica in una piccola scuola elementare, la San Francesco di Vanzaghello, poco più di 5000 abitanti nella provincia nord di Milano. Oggi, tra aule e corridoi c’è quell’aria lì, quella dei giorni speciali, in cui anche i più pigri restano svegli e a nessuno viene voglia di poggiare la testa sul banco. Quest’atmosfera da festa un po’ in punta di piedi è merito dell’arrivo di due bambini ucraini: annunciato da giorni, raccontato, atteso, sussurrato mentre si va a mensa, è un evento non semplice da gestire, questo lo sanno tutti, lo comprendono anche gli alunni che, mi raccontano, qualche bambino biondissimo che “non capiva l’italiano”, lo hanno già incontrato. Fuori, in piazza, all’oratorio, al parco. Dopo settimane trascorse a parlare di questa guerra così vicina ma fatta solo di immagini viste in tv, a imparare parole nuove come invasione, negoziati, rifugi, succede che tutto è diventato così reale da arrivare a scuola, da diventare la loro prossima quotidianità. Che si concretizza, verso l’ora dell’intervallo, in Misha e Vanja, 6 e 10 anni, nemmeno la somma fa la maggiore età: cugini, vengono da Dnipro, per abitanti terza città dell’Ucraina, sottoposta a decine di bombardamenti da parte dei russi, l’ultimo solo pochi giorni fa, che ha distrutto l’aeroporto. 

   

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L’atmosfera da festa un po’ in punta di piedi è merito dell’arrivo di due bambini ucraini. Un evento annunciato e sussurrato da giorni

  
Fa quasi caldo in questo pezzo di mattinata grigia, in un atrio di scuola che è uguale a molti altri e che però come molti altri non è, non oggi, almeno. Il grigio, quasi uno stereotipo meteorologico, è interrotto dalle ghirlande di carta velina sistemate con delicatezza all’ingresso, piccoli fiori colorati, leggerissimi. Sulla porta un cartello, un semplicissimo “Benvenuti” in ucraino. Nessuna bandiera, nessun arcobaleno della pace: solo l’accoglienza, a chi viene da lontano ed è stanco, impaurito, diffidente. Solo l’accoglienza che è però una cornice che contiene tutto, e che sarà la linea ritmica che accompagnerà ogni passaggio di questa giornata. 

 
E allora eccoli, Misha e Vanja, uno sguardo al cartello e uno a noi, alle maestre. Dietro di loro tre donne: Tania, madre di Misha, Regina, la nonna, e Amedea, che è invece di Castano Primo, paesino a un paio di chilometri da qui, e che è tra i cittadini che si sono occupati dell’arrivo e della sistemazione di questo nucleo familiare, di cui fa parte anche Sasha, 16 anni, il figlio maggiore di Tania. Mentre siamo lì a sorriderci, con il goffo imbarazzo di quando non si parla la stessa lingua eppure si vorrebbero dire molte cose, capisco meglio il ruolo di Amedea, che racconta di conoscere Tania praticamente da sempre, “da quando aveva l’età di Misha”. Perché la donna, oggi trentenne, arrivò qui per la prima volta a 6 anni, nel 2000, grazie agli scambi che permettevano ai cosiddetti bambini di Chernobyl di trascorrere in altri Paesi un periodo di tempo più o meno lungo, per decontaminarsi dalla tossicità radioattiva che aveva avvelenato aria, fiumi e terre dopo il disastro della centrale nucleare, il 26 aprile 1986. 

   

E allora eccoli, Misha e Vanja, uno sguardo al cartello e uno a noi, alle maestre. Dietro di loro tre donne: Tania, Regina e Amedea

 
Dei circa 500 mila bambini che arrivarono in Italia grazie al Chernobyl Children’s project, facevano parte Tania e suo fratello, che oggi è rimasto in Ucraina insieme al padre, a combattere. Da quel giorno di 22 anni fa Tania è tornata molte volte qui in Italia, in estate, sempre da Amedea: ha imparato un po’ di italiano con lei e a nuotare nella piscina comunale, ha giocato con alcuni dei genitori di quelli che, per un po’ di tempo, saranno i nuovi compagni di scuola di Misha. Grazie a Facebook lei e la sua ‘mamma’ italiana sono rimaste sempre in contatto, scrivendosi spesso. E scambiandosi, prima dello scoppio della guerra, mail allarmate. Che sono diventate presto richieste d’aiuto da parte di Tania, quando le esplosioni hanno iniziato ad avvicinarsi a Dnipro, che ormai da una settimana subisce attacchi diretti, che hanno distrutto fabbriche, case, un ospedale psichiatrico e perfino un asilo nido, per fortuna vuoto. Amedea racconta che l’ansia per la sorte di una bambina che aveva visto crescere, a cui si era affezionata subito, non la faceva dormire. Riuscendo a vincere l’incertezza di Tania, che qualche anno fa ha perso il marito in un incidente ed esitava a lasciare in Ucraina i genitori e il fratello, l’ha convinta a pensare ai figli, a risparmiare loro il trauma di una guerra in casa e di giornate in cui l’unica speranza rimane quella di sopravvivere. Grazie a un passaggio, Tania, Regina e i ragazzi hanno raggiunto il confine con la Romania, meno caotico e più sicuro di quello con la Polonia: lì, ad aspettarli, c’è un piccolo furgone guidato dal capo dei vigili del fuoco di Castano, che si è offerto di portarli in Italia, al sicuro. Un viaggio di venti ore che ha riportato Tania lì dove aveva conosciuto, per la prima volta, l’accoglienza dopo la tragedia. 

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Mentre parliamo, Misha e Vanja ci osservano, pazienti, fino a quando non vengono distratti da una musica che viene dall’esterno. Più volte, con la coordinatrice del plesso, ci siamo chieste quale sarebbe stato il modo migliore di accogliere dei bambini che scappano dall’orrore. E’ giusto, ci siamo domandate, dare un tono festivo a un giorno che per loro è pieno di incognite? In fondo, ci diciamo, scappano da un dramma che per noi è difficile comprendere, da un giorno all’altro hanno lasciato tutto e noi qui possiamo forse offrire loro una lunga pausa di serenità, ma certo non far dimenticare la fuga con i suoi strascichi. D’altra parte i bambini della scuola, che nei giorni scorsi hanno dedicato ogni momento libero, ogni intervallo, ogni ora d’arte a disegnare cartelli con cui esprimere il loro sostegno ai coetanei ucraini, non riescono a trattenere l’entusiasmo per il loro arrivo. Si decide dunque per una via di mezzo, una presentazione ufficiale di Misha e Vanja alle classi di cui faranno parte, una prima e una quinta, che li aspettano nel cortile dove, durante la ricreazione, si gioca a palla avvelenata. 

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La musica accompagna il loro ingresso, i bambini sulle gradinate mantengono un silenzio che nemmeno la più severa di noi è mai riuscita a ottenere, gli occhi fissi sui nuovi compagni, a loro volta incuriositi ed esitanti. Vanja sorride, stringe le mani sulle spalline dello zaino (la scuola ha organizzato una raccolta di zaini e astucci da distribuire a tutti i bambini arrivati qui e nei comuni vicini), sussurra qualcosa a Misha, che rimane serio. Dal gruppo di prima elementare, senza preavviso, si stacca Tommaso, corre verso i due cugini, si infila le mani in tasca senza dire niente: tira fuori una bustina di orsetti gommosi e due Chupa Chups, glieli offre spavaldo, eppure con l’aria di chi si sta privando di qualcosa di molto prezioso. Ed è Misha, questa volta a sorridere, mentre allunga le mani per afferrare i regali, in effetti preziosissimi. Pochi giorni in una scuola elementare sono infatti sufficienti a capire il valore delle caramelle come moneta di scambio. E’ solo allora che mi accorgo che Tania e Regina, accanto a me, piangono. Mentre i bambini raggiungono i nuovi compagni sulle scalinate, per entrare a far parte ufficialmente delle classi che li ospiteranno, li osservano allontanarsi per la prima volta dopo molti giorni in cui non li hanno mai persi di vista. Le rassicuro, parlano entrambe un buon inglese, qui con noi c’è anche Alice, la figlia di una delle maestre della scuola, laureata in lingue, parla il russo. Continuano a singhiozzare, imbarazzate, e noi non abbiamo parole per consolarle. Possiamo dire loro che possono stare tranquille, certo, che ci prenderemo cura dei loro bambini. Preoccuparci di ogni loro esigenza, anticiparla, quasi pretendere che ci chiedano qualunque cosa possa farli star meglio, qualunque cosa che possa essere sostituita da quella che è rimasta a casa, a Dnipro. Ma sappiamo che il pianto non è solo emozione, non può essere solo sollievo. Per chi ha lasciato tutto sotto le bombe, familiari compresi, per chi ha vissuto giorni di sirene e corse nei rifugi sottoterra, la lontananza fisica dalla guerra è una cosa, ma quella mentale non così scontata. Hai portato al sicuro un figlio, un nipote, te stesso. Ma quanto è difficile liberarsi dal peso del tuo paese che invece al sicuro non è, quanto potrà rasserenarti questa realtà che non avevi previsto, che non era pianificata, che non faceva parte della storia che immaginavi per i tuoi figli?

   

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Hai portato al sicuro un figlio, un nipote, te stesso. Ma quanto è difficile liberarsi dal peso del tuo paese che invece al sicuro non è?

   
Nei primi giorni di guerra mi chiedevo spesso come mai le donne non scappassero tutte quante, subito, con i bambini, visto che loro, al contrario degli uomini, costretti a combattere, potevano uscire dai confini ucraini. Me lo chiedevo quando mia madre mi raccontava di Anna, il cui figlio Anton è nato in Italia e qui ha frequentato le elementari fino a otto anni, quando insieme ai genitori è tornato a vivere a Kiev. Anna che ha scelto di rimanere lì, nonostante adesso abbia un’altra bambina, di soli due anni, e ha quindi deciso di rifugiarsi insieme ai due figli dalla madre, che vive in campagna, in una zona che spera non sarà colpita dai raid russi. Anna che non vuole lasciare Dimitri, suo marito, arruolatosi due giorni dopo l’invasione. Per me, con tutta l’ignoranza possibile rispetto a cosa significhi prendere una decisione del genere, l’idea di restare in un luogo in cui i tuoi bambini rischiano la vita era incomprensibile. Eppure. Eppure osservo queste donne, che ora sorridono nonostante le lacrime continuino a scorrere, mentre guardano Vanja scartare uno dei regali di benvenuto che la scuola ha preparato per loro. Alle finestre delle altre classi che si affacciano sul cortile ci sono i volti degli alunni della scuola, i nasi e i disegni appiccicati ai vetri. Vedo la mia classe, una quarta, starò con loro per le prossime due ore e so già che dovrò rispondere a decine di domande, e che alcune mi faranno ridere, mentre per altre dovrò trattenere la commozione. 

    
Quando ho iniziato a insegnare qui, dallo scorso novembre, mi sono chiesta se parlare di diritti e discriminazioni, di conflitti ed esodi, di libertà d’espressione e dell’importanza della memoria, potesse avere presa su bambini così piccoli. Fino a pochi mesi fa, quando il progetto di classe era incentrato sulla Shoah, sulla storia di Liliana Segre e sui principi fondamentali della nostra Costituzione, la domanda più frequente era: “E’ vero che la guerra non può più succedere?”. E già allora avevamo parlato di altri conflitti in corso, alcune molto lontani, da cui scappavano ogni giorno bambini come loro. Il 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina, sono arrivati a scuola con le immagini in tv e i commenti dei genitori in testa. Ho deciso di spiegare loro cosa stesse succedendo, raccontando ogni giorno una storia da quella guerra che anche loro, per forza di cose, sentivano più vicina, anche solo per i molti cittadini ucraini che vivono ormai da anni in questa zona e che fanno parte della loro quotidianità. 

 
In cortile una delle maestre raccoglie quello che resta delle confezioni dei pacchi regalo per Misha e Vanja, che adesso andranno in classe con i loro compagni. Oggi starà con loro Alice, per aiutare le maestre a comunicare meglio. Poi arriveranno i mediatori culturali, che verranno assegnati alle scuole per rendere più semplice il lavoro di inclusione. Tania e Regina si fermano ancora un po’ con noi, prendiamo un caffè dalla macchinetta, ci raccontano che presto inizieranno a frequentare, a Busto Arsizio, un corso gratuito di italiano, tre volte a settimana. Poi anche Sasha, il più grande, dovrà andare a scuola: a Dnipro frequentava la seconda superiore, ma soprattutto faceva nuoto agonistico. Riuscire a farlo iscrivere in piscina sarà uno dei prossimi obiettivi del comitato d’accoglienza, un gruppo eterogeneo di dirigenti scolastici, impiegati comunali, volontari, studenti. In questa strana mattinata, in cui tutti si muovono cauti tra espressioni di gioia e rispetto per un sentimento che forse è nostalgia, forse timore, forse solo timidezza, la scuola cerca di ritrovare i propri rumori, le proprie voci. Perché, e questo ce lo diciamo piano, mentre torniamo in classe, la parte più complicata sarà quella di ricostruire i pezzi di una normalità per chi, per forza di cose, non vive una situazione normale, non ha più attorno a sé gli oggetti a cui è abituato, dalle finestre vede un paesaggio diverso, diversi i volti che si sovrappongono a quelli di chi è rimasto a casa, i padri, gli zii, i mariti, gli amici, i compagni della squadra di nuoto.  E chissà, pensiamo, se dopo tutto questo, dopo la musica, e i regali, l’entusiasmo e la sorpresa, dopo la commozione e i lecca lecca, il linguaggio complesso dell’accoglienza avrà la meglio su dubbi e paure. Perché l’accoglienza non è solo braccia aperte, ma tutto quello che viene dopo, un equilibrio non sempre semplice da mantenere, tra generosità a volte impacciata e precisissima pianificazione. Un processo non breve, il cui obiettivo ultimo, forse il più ambizioso, è la normalità. Perché è indubbio che il regalo che oggi vorremmo fare a Tania, Misha, Sasha, Vanja, Regina e a tutti gli altri che arriveranno e sono arrivati, è proprio la normalità che viene dopo le ghirlande, gli applausi e tutto ciò che ha riempito questa giornata un po’ speciale. 

 
La stessa normalità rassicurante di quei giorni facili delle elementari, di quando le ore si allungavano tra la prevedibilità di una campanella, un quaderno con le moltiplicazioni, una voce che scandiva il dettato. E il mondo lì fuori lo avremmo conosciuto molto più tardi perché tanto, in fondo, si sta così bene qui. 
 

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